di
Federico Giannini
(Instagram: @federicogiannini1), scritto il 17/08/2018
Categorie: Recensioni mostre / Argomenti: Novecento - Seravezza - Toscana
Recensione della mostra 'Gianfranco Ferroni. Prima e dopo la Biennale del ‘68. Tutto sta per compiersi', al Palazzo Mediceo di Seravezza fino al 16 settembre 2018.
Tutto sta per compiersi. È questo il titolo d’uno dei dipinti coi quali Gianfranco Ferroni (Livorno, 1927 - Bergamo, 2001) partecipò alla Biennale di Venezia del 1968. Una congerie d’oggetti di diversa natura, detonatori, l’immancabile stella di David che incarnava, al tempo, le riflessioni dell’artista sul dramma dell’Olocausto (assurto nella sua poetica a simbolo di male universale), ritratti, bandiere di diverse nazioni, a significare che quel clima di fibrillante attesa cui l’artista intendeva dar forma col suo linguaggio pop, bidimensionale, ispirato alle suggestioni provenienti da oltre oceano ma fortemente interiorizzato, avrebbe dovuto investire tutto il mondo. Denuncia e ansia, dunque, ma anche fiducia e aspettative. Che verranno però disattese proprio durante quell’edizione della Biennale, l’edizione che avrebbe dovuto dar corpo al cambiamento. Non fu così.
Il 18 giugno del 1968, giorno dell’inaugurazione della Biennale, una moltitudine di studenti si radunò in piazza San Marco per protestare contro l’arte dei padroni, contro il potere, contro la violenza della polizia. Proprio quella violenza però s’abbatté con tutta la sua forza sugli studenti, che furono caricati e manganellati nella grande piazza di Venezia. Diciannove sui ventidue artisti italiani che quell’anno partecipavano alla Biennale di Venezia idearono un’azione di protesta, impedendo al pubblico la vista delle loro opere: chi le ricoprì, chi le nascose, chi decise di non esporle. Ferroni decise semplicemente di appenderle col recto rivolto verso la parete. Tuttavia, quasi tutti gli artisti rientrarono nei ranghi il giorno dopo: la protesta fu continuata solo da Gastone Novelli, da Carlo Mattioli e da Gianfranco Ferroni. I primi due ritirarono le loro opere dalla Biennale, mentre Ferroni decise di esporre le opere girate verso il muro per tutta la durata della rassegna.
Quell’evento rappresentò una specie di spartiacque nella carriera di Ferroni. Tutto sta per compiersi: non però nel modo che forse lui intendeva e sperava. Nell’arte di Ferroni c’è un prima e un dopo, e la Biennale del ’68 è il limite che divide quello ch’era stato e quello che sarebbe stato. La sua scelta è ora al centro d’una grande retrospettiva che prende le mosse proprio dal quel fatto, centrale per ripercorrere la carriera di Ferroni nella sua interezza: s’intitola Gianfranco Ferroni. Prima e dopo la Biennale del ’68. Tutto sta per compiersi, è allestita negli spazî del Palazzo Mediceo di Seravezza fino al 16 settembre 2018, ed è sapientemente curata da Nadia Marchioni. Una mostra sistematica, precisa, su di un artista non molto agevole (anche per il fatto che Ferroni è un pittore poco musealizzato: gran parte dei suoi capolavori è tuttora in mani private, e molti di essi permangono ancora nelle collezioni di coloro che gli furono vicini quand’era in vita), e non particolarmente noto presso il grande pubblico, a dispetto del fatto che di lui si fossero occupati critici e storici dell’arte d’enorme levatura (basti menzionare i nomi di Testori e Ragghianti), del fatto che in vita fosse artista stimatissimo e capace di radunare attorno a sé generazioni di colleghi più giovani influenzando la loro poetica, e del fatto che sia stato protagonista di diverse mostre tenutesi dopo la sua scomparsa (una anche agli Uffizi). La mostra di Seravezza dà pienamente conto della grandezza di Ferroni restituendo un percorso completo tra i varî periodi d’un artista che, con straordinaria autoconsapevolezza, a un certo punto della sua vita immaginò (caso forse più unico che raro) un’articolata periodizzazione della sua intera vicenda artistica.
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Sala della mostra Gianfranco Ferroni. Prima e dopo la Biennale del ’68. Tutto sta per compiersi
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Sala della mostra Gianfranco Ferroni. Prima e dopo la Biennale del ’68. Tutto sta per compiersi
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Sala della mostra Gianfranco Ferroni. Prima e dopo la Biennale del ’68. Tutto sta per compiersi
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La sala che rievoca la Biennale del ’68
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Gianfranco Ferroni, Tutto sta per compiersi (1967; olio su tela, 165 x 140 cm; Milano, Collezione Porro)
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“Il mio lavoro si divide essenzialmente in tre periodi”, ebbe modo di dichiarare Ferroni al critico Davide Martinelli nel 1998: “dal 1955-1956 fino al ’62, dal 1963 al ’70, dal 1971 ad oggi. Quindi nel ’63-’64 si verifica un grande cambiamento”. Ma i grandi cambiamenti sono un qualcosa di connaturato alla poetica di Gianfranco Ferroni: la sua è un’arte in continua evoluzione, conosce brusche inversioni di direzione, cambi repentini, aperture improvvise, contrasti decisi. Quando la sua carriera ebbe inizio, tra la fine degli anni Quaranta e il principio dei Cinquanta, Ferroni era ancora un giovane profondamente segnato dal secondo conflitto mondiale: non partecipò alle operazioni belliche perché l’età acerba gliel’aveva impedito, ma era già comunque abbastanza grande per avvertire il peso delle violenze vissute. Un peso che s’evince, con tutto il suo fardello d’angoscia, dalle sue prime composizioni. È proprio dalle opere degli anni Cinquanta che prende avvio la mostra di Seravezza.
A quegli orrori evidentemente ancora vivi e presenti dinnanzi agli occhi dell’artista, s’aggiunse poi una difficile situazione economica: lasciata la famiglia nel 1952 per trasferirsi a Milano, dove avrebbe trovato un ambiente culturale sicuramente più stimolante di quello della Tradate dove la sua famiglia s’era spostata durante la guerra, Ferroni conobbe la povertà, ma riuscì comunque a ritagliarsi uno spazio importante (lui che, peraltro, appena ventitreenne, nel 1950, era già stato invitato a esporre alla Biennale di Venezia), a coltivare amicizie feconde, ad aggiornare il proprio linguaggio sui modelli più alti che la pittura italiana e quella europea potevano fornirgli all’epoca. La sua prima maniera si fonda su di un sostrato marcatamente espressionista: le opere degli anni Cinquanta sono caratterizzate da tinte cupe stese con pennellate nervose e quasi nevrotiche, forme sgraziate e quasi orripilanti, volti sfigurati dal dolore. Il Cieco in ascolto, opera del 1957, sembra quasi uscito da una delle tetre opere di Otto Dix sul tema delle atrocità della guerra, mentre la Donna siciliana dal viso spigolosissimo, pallida, emaciata, sfinita e sfibrata, è probabilmente il risultato più significativo del viaggo in Sicilia che Ferroni intraprese nel 1956, assieme al collega Tino Vaglieri: dopo quell’esperienza, l’espressionismo di Ferroni si fece vieppiù drammatico, dacché, spiegò lui stesso, “la visione di un’umanità sfruttata, indigente, provoca su di noi una profonda impressione. Milano, con i suoi problemi di immigrazione, di industrializzazione e di capitalismo (e di prossimo consumismo) a paragone di queste terre era un piacevole inferno”. Ferroni è un’artista profondamente sensibile, fin da ragazzo incline a solidarizzare con gli ultimi e a mettere a loro disposizione il suo impegno umano e artistico, tanto che, da giovane convinto della propria passione politica, s’iscrisse al Pci, salvo poi stracciare la tessera nel 1956, dopo che l’URSS represse nel sangue la rivolta ungherese e il Pci si schierò al fianco dell’Unione Sovietica (fu in quell’occasione che Togliatti ebbe a dire che “si sta con la propria parte anche quando sbaglia”). Un Ferroni disilluso produsse, a seguito di quell’esperienza, una delle opere fondamentali del suo percorso, Violenza, espressamente dedicata ai fatti d’Ungheria: un corpo riverso a terra, sanguinante, senza vita, per colpire il riguardante con brutalità.
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Gianfranco Ferroni, Cieco in ascolto (1957; olio su tela, 70 x 60 cm; Collezione privata)
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Gianfranco Ferroni, Donna siciliana (1956; olio su tela, 105 x 75 cm; Collezione privata)
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Gianfranco Ferroni, Violenza (1956-1957; olio su masonite, 76 x 102 cm; Bergamo, Collezione Ceribelli)
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Fu quella la prima vera svolta dell’arte di Gianfranco Ferroni, che dopo il 1957 conobbe un rapido cambio di paradigma. Ad alcune meditazioni che già, in certo modo, prefiguravano gli sviluppi futuri della sua arte e la necessità d’accedere a una riflessione più intima e quotidiana (si veda la natura morta Oggetti del 1958) s’affiancò in Ferroni l’interesse per la città: nelle sue vedute a volo d’uccello, memori in certa misura dei tetti e dei paesaggi informali di Nicolas de Staël, si sostanzia “l’ossessione” (così Giacomo Giossi nel suo saggio nel catalogo dell’esposizione di Seravezza) “per la città, con i suoi movimenti eccentrici e improvvisi, con i suoi ritmi brulicanti ma anche malinconici (il cinema di Michelangelo Antonioni Soprattutto”. Ma si tratta di una città “non come macchina, ma come corpo aggrovigliato: un corpo stanco, ma sempre costretto all’interno di un movimento obbligato eppur vibrante”. Una città che “esplode con i propri segni che si fanno incisioni oltre le grandi luci dello studio”. Una città che, in sostanza, è una sorta di grande teatro entro il quale va in scena “la condizione di disagio dell’uomo”. Un disagio che Ferroni tuttavia vuol continuare a far emergere, anche attraverso l’utilizzo di nuove modalità espressive: il linguaggio della pop art viene sfruttato per offrire un’immagine altra di quello scintillante mondo che diversi artisti pop celebravano (o criticavano) con le loro opere. I barattoli warholiani, in Ferroni, diventano semplicemente Rifiuti, l’altra faccia di quel consumismo e di quel capitalismo che, parlando del viaggio in Sicilia, l’artista identificava come problemi della Milano nella quale viveva e lavorava.
Non s’arrestava, dunque, l’impegno politico di Ferroni: solo, assumeva forme diverse. È questo il “grande cambiamento” del ’63-’64 cui l’artista alludeva: “c’è un periodo di anni, che va dal ’63 al ’70”, ebbe modo di dichiarare nel 1995 in un’intervista col critico Claudio Nembrini, “dove si politicizza di più il mio lavoro, il mio interesse, e la partecipazione non è più legata all’io, ma è legata a una situazione storica, quindi il Palestinese ferito, la partecipazione a ciò che avveniva in Medio Oriente. Laddove c’era un uomo che moriva per una ideologia, qualunque essa fosse, la mia partecipazione era immediata, istintiva”. Se fino a quel momento Ferroni aveva dipinto sì diversi drammi umani, ma che aveva per la maggior parte vissuto in prima persona, o ai quali era comunque prossimo, dai primi anni Sessanta ogni tragedia che si fosse consumata in qualsivoglia angolo del globo divenne in Ferroni simbolo universale del dolore. Arabo ferito, dipinto del 1967, è un’opera cruda e decisamente esplicita, mentre un lavoro come Cognizione della colpa, realizzato nel 1965, si pone come una riflessione sull’olocausto che, come anticipato, è per Ferroni simbolo di male universale: da qui anche l’uso d’adoperare spesso il motivo della J in diversi lavori. La “J” è l’iniziale di “Juden” in tedesco (“ebrei”), ma è anche, com’ebbe modo di spiegare l’artista stesso (che, come ormai si può facimente intuire, era sempre molto propenso a raccontare in prima persona la sua arte), ha la forma simile a quella d’un gancio, d’un “ferro che entra nella carne”.
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Gianfranco Ferroni, Oggetti (1958; olio su tela, 46 x 79,5 cm; Collezione privata)
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Gianfranco Ferroni, Città (1961; olio su tela, 50 x 59,5 cm; Bergamo, Collezione Ceribelli)
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Gianfranco Ferroni, Rifiuti (1964; olio su tela, 52 x 47 cm; Collezione privata)
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Gianfranco Ferroni, Arabo ferito (1967; olio su tela, 136 x 113 cm; Collezione privata, Courtesy Montrasio Arte)
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Gianfranco Ferroni, Cognizione della colpa (1965; olio su tela, 137,3 x 173 cm; Collezione privata, Courtesy Montrasio Arte) |
Fu poi la volta della Biennale del 1968, di cui s’è ampiamente parlato in apertura. E per Ferroni fu forse la delusione più cocente, capace di produrre una disillusione tale da indurlo ad abbandonare Milano per trovare una condizione più serena altrove: le aspirazioni di questo periodo, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, sono tutte riassunte in un’opera come Andare via, dove Ferroni ritrae se stesso, in posizione frontale, come se si stesse guardando a uno specchio per domandarsi che cosa fare adesso, dopo aver constatato che la lotta ha perso di senso. Ed esattamente come circa ottant’anni prima aveva fatto Plinio Nomellini, altro artista deluso dall’inefficacia della causa in cui aveva creduto, anche Ferroni trovò il proprio rifugio in Versilia: lasciata la Lombardia, l’artista originario di Livorno tornò nella regione d’origine, stabilendosi a Viareggio, dove trascorse le proprie giornate giocando a carte, frequentando i locali e le persone che in Versilia si trovavano o si recavano. Per Ferroni era un nuovo inizio, che in mostra è esemplificato da un dipinto come Albero: ripartire dagli oggetti, dall’intimo, dalla realtà.
Ferroni era un artista completamente nuovo: un artista che, maturata la consapevolezza che è difficile, se non impossibile, cambiare le cose attorno a sé, e sancita definitivamente la rottura con l’ideologia, smette di guardare all’esterno e inizia a osservare dentro se stesso. Ferroni amava immaginare questo cambiamento come una forma d’ateismo: si può essere atei nei confronti di Dio, ma anche atei nei confronti di un’ideologia. Il pittore inizia dunque a concentrarsi, con ossessività quasi maniacale, sui più banali oggetti quotidiani. Porte, tavoli, cavalletti, lettini sfatti, interni di studio cui Ferroni s’avvicina con animo indagatore, per elevare la quotidianità, come aveva fatto Morandi prima di lui, ma per tentare di cogliere anche il profondo mistero dietro le cose, con un approccio non dissimile rispetto a quello d’un De Chirico. L’oggetto stesso è per Ferroni un’entità misteriosa, alla quale l’artista è chiamato a dare nuovi significati. La dimensione diventa dunque quella dell’attesa, come Ferroni stesso, nota Andrea Zucchinali, “non ha mancato di sottolineare più volte in un insolito moto di condivisione di spunti critici relativi al suo lavoro: io, laico convinto, diceva, sono in attesa di un miracolo, di un’apparizione”. Attesa di un “evento che sa impossibile, e che sopraggiunga per dare un senso alle cose che abitano il vuoto limbico, sospeso nel quale viviamo”. Prende così forma quella pittura dove protagonista “è la memoria, l’assenza, la solitudine”, ma dove “la descrizione della realtà, verso cui l’artista si pone con uno sguardo non giudicante e più possibile acefalo, avviene secondo un metodo analitico di incredibile qualità formale” (così Nadia Marchioni). E strumenti privilegiati per cogliere il mistero diventano, per ammissione stessa dell’artista, lo spazio e la luce.
Queste idee affascinarono diversi giovani artisti, che si raccolsero attorno a Ferroni fondando il gruppo della Metacosa. Il riferimento era ovviamente De Chirico, l’idea era quella di “osservare il mondo con occhi nuovo”, spiega Nadia Marchioni, “nella speranza di cogliere l’attimo in cui il mistero che racchiude sia rivelato, finalmente, al nostro sguardo”. Ognuno degli artisti avrebbe poi mantenuto il proprio stile, ma non avrebbe rinunciato all’idea d’indagare la realtà per afferrare quell’ineffabile che si voleva scoprire, in una sorta di ricerca dai toni misticheggianti ma priva di qualsivoglia connotazione religiosa: e il misticismo, spogliato dal suo fanatismo religioso, scriveva Antonio Gnoli nel suo La luce dell’ateo, volume del 2009 che raccoglieva diversi scritti di Ferroni, “è sottrazione, cancellazione, progressiva ritirata dal mondo, una forma di assenza comunicativa”.
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Gianfranco Ferroni, Andare via... (1968; olio su tela, 105,5 x 102,7 cm; Bergamo, Collezione Ceribelli)
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Gianfranco Ferroni, Albero (1972; olio su tela, 110 x 84 cm; Bergamo, Collezione Ceribelli)
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Gianfranco Ferroni, Porta chiusa (1974; tecnica mista su carta applicata su tela, 83,5 x 83 cm; Collezione privata)
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Gianfranco Ferroni, Grande natura morta (1982; tecnica mista su tavola, 48 x 40 cm; Bergamo; Collezione Ceribelli)
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Gianfranco Ferroni, Analisi di un pavimento. Milano (1983; tecnica mista su carta, 43,4 x 41,4 cm; Collezione privata)
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Gianfranco Ferroni, Lettino (1984; olio su tavola, 29,5 x 41,3 cm; Collezione privata)
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Da tali riflessioni matura anche l’idea di riavvicinarsi ai grandi del passato. Mezzo privilegiato in questo caso è la fotografia, cui in catalogo è dedicato un ampio e lungo contributo, in forma di dialogo, di Marco Vallora e Alessio Zucchinali. A Palazzo Mediceo è invece possibile trovare diverse opere che Ferroni realizzò con questo mezzo e che vengono esposte per la prima volta al pubblico. Per cercare di comprendere la fotografia secondo Ferroni è possibile partire da uno scatto che l’artista realizzò alla Pinacoteca di Brera, concentrandosi sulla Cena in Emmaus di Caravaggio: l’immagine impressa sulla pellicola è il punto di partenza “per poi in fase di stampa manipolare il flusso luminoso, riducendone l’impatto sulle tre figure alla sinistra di Cristo, probabilmente attraverso l’uso di tempi di esposizione differenziati nelle diverse zone dell’immagine” (Zucchinali). Il risultato finale è una sorta di “conversione del fascio luminoso proveniente dal lato sinistro della rappresentazione in una singolare luce frontale”, che servirà a Ferroni nella trasposizione pittorica, l’Omaggio a Caravaggio, dove il Cristo è solo, davanti al tavolo, con soltanto il pane davanti a sé. La Cena Emmaus è stata, di fatto, trasposta in quella dimensione metafisica cara a Ferroni. E lo stesso l’artista avrebbe poi fatto con la Vocazione di san Matteo: anche qui, personaggi rimossi, la luce unica protagonista a dar forma alle cose.
Ma sarebbe riduttivo limitare a quanto sopra descritto la fotografia di Ferroni. Come la sua pittura, anche la sua fotografia si nutre d’assenza. Le sue fotografie sono “ossatura di un’intimità che si fa opera” (Giossi), sono sperimentazioni con le quali Ferroni dà seguito al suo intento d’indagare a fondo la realtà per cogliere quel mistero che non riuscirà mai a infrangere (e ne è convinto lui stesso), sono mezzi coi quali Ferroni s’aiuta a vedere: ma nelle sue fotografie la sostanza sembra quasi sbiadita, sfocata, al punto che spesso non ci si vede più niente. Tutto rimane sospeso, in attesa di quel miracolo che Ferroni aspettava ma che sapeva benissimo non sarebbe mai arrivato.
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Gianfranco Ferroni, Cena in Emmaus, da Caravaggio (s.d.; fotografia; Collezione privata)
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Gianfranco Ferroni, Omaggio a Caravaggio (Cena in Emmaus) (1996; tecnica mista su cartoncino, 25 x 23,55 cm; Collezione privata)
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Gianfranco Ferroni, Omaggio a Caravaggio (la vocazione di san Matteo) (1991; tecnica mista su carta, 28 x 36,8 cm; Collezione privata)
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Mostra antologica di spessore, Gianfranco Ferroni. Prima e dopo la Biennale del ’68. Tutto sta per compiersi restituisce l’importanza di questo grande artista, invero poco noto al grande pubblico, con un percorso denso, completo, coerente nel suo dipanarsi cronologico, preciso nel dar conto di tutte le evoluzioni della sua arte, intelligente nel comunicare l’essenza dell’arte di Ferroni inframezzando, alle opere, i brani tratti dagli scritti o dalle interviste. Pittore che cercava di trasfigurare il reale per avvicinarsi a un’idea (e che pertanto utilizzava le sue forme quasi iperrealiste non per descrivere, ma per immaginare), uomo pieno di dubbî, autore che andava cercando (e trovando) nel quotidiano le sue visioni metafisiche, Ferroni non fece mai mistero d’esperire proprio nell’attesa il suo ruolo d’artista. “Il significato che do al mio essere oggi come artista risiede nell’attesa, un’attesa sacrale, perché sacrale è il desiderio di avere una rivelazione e pur sapendo che non mi arriverà, io la cerco. Mi aspetto un significato che ancora mi sfugge, un significato che vada al di là della mia vita”.
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L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).