Uno degli aspetti salienti della mostra Colori e forme del lavoro di Palazzo Cucchiari a Carrara (dal 16 giugno al 21 ottobre 2018) riguarda l’accento che l’esposizione ha posto sul lavoro femminile nel periodo preso in esame (ovvero i decennî dall’Unità d’Italia fino alla prima decade del Novecento) e sulla condizione della donna negli ambiti lavorativi del tempo. Sul tema si è sviluppata un’ampia letteratura scientifica e settoriale (meno frequenti sono invece le pubblicazioni destinate al grande pubblico), che ci ha restituito l’immagine di un’Italia in cui il ruolo delle donne nel lavoro era fondamentale e determinante, tanto nelle città industrializzate quanto nelle campagne che ancora vivevano secondo tradizioni e ritmi antichi. Per dare un’idea di quanto fosse importante il lavoro femminile, è possibile citare il numero delle lavoratrici, di età superiore ai dieci anni, censite nella città di Milano: si scopre che nel 1881 aveva un impiego il 54% della popolazione femminile, sceso poi al 50,5% nel 1901 e al 42% nel 1911. Tuttavia, a fronte di un così vasto numero di donne che lavoravano, le loro condizioni salariali non erano neppure paragonabili a quelle degli uomini: tipicamente, a metà del XIX secolo era normale che una donna, a parità di ore lavorate (o lavorando poco meno rispetto alla controparte maschile), ricevesse la metà dello stipendio di un uomo. Un uso che avrebbe caratterizzato tutto il tardo Ottocento, che sarebbe continuato fino agli anni precedenti il primo conflitto mondiale, e che non era tipico di un’area precisa: era diffuso in diversi paesi europei, Italia inclusa. Peggio delle donne se la passavano solamente i ragazzi, i minori, che com’è noto riempivano i campi e le fabbriche dell’Italia postunitaria e avrebbero continuato a farlo per molto tempo.
Questa discriminazione, come ha ben spiegato la compianta storica Simonetta Ortaggi, una delle più acute studiose italiane di storia dell’organizzazione del lavoro, scaturiva tanto dal modo in cui era strutturato il lavoro all’epoca (e dalla conseguente mentalità che ne derivava), quanto dai costumi e dalle usanze. Qualche esempio: le donne delle classi popolari potevano trovare più facilmente marito se avevano un impiego (per il fatto che così la donna avrebbe pesato di meno sul bilancio familiare, oppure per il fatto che in tal modo avrebbe potuto mettere da parte il denaro necessario per la dote senza gravare sui genitori: in Piemonte c’era un proverbio che recitava “donna al telaio, marito senza guaio”), ed erano ritenute socialmente più meritevoli d’attenzioni di quelle che non lavoravano. Quanto alla mentalità del tempo, vigeva l’uso di corrispondere un salario inferiore alle donne anche in considerazione del fatto che gli imprenditori valutavano quello che a loro modo di vedere era un rischio: il fatto che le donne, una volta trovato marito e quindi distratte dal lavoro domestico o dalla cura dei figli (secondo la mentalità dell’epoca, il ruolo di madre e quello di lavoratrice esterna all’ambito familiare erano praticamente incompatibili), potessero abbandonare l’impiego in fabbrica o nei campi. Di conseguenza, la gran parte delle impiegate nelle fabbriche spesso aveva un’età che non superava i trent’anni, anche perché esisteva comunque, nell’Italia d’inizio Novecento, una legge, promulgata nel 1902 (la Legge Carcano), che non consentiva alle donne che avevano appena partorito di tornare a lavorare prima di un mese dal parto, ma al contempo non dava loro garanzie sulla possibilità di riottenere il lavoro che svolgevano (queste ultime sarebbero arrivate solo qualche anno più tardi). Eppure, in molte industrie spesso il numero delle donne superava quello degli uomini: ciò avveniva per ragioni connesse alla considerazione che all’epoca si aveva dell’indole femminile, oltre che al tipo di attività da svolgere nel contesto lavorativo. Le donne, infatti, venivano spesso preferite agli uomini perché ritenute più diligenti, facilmente controllabili e mansuete (e ovviamente perché, per i motivi elencati sopra, erano meno costose), e perché si pensava fossero meglio predisposte a svolgere alcuni lavori (quelli semplici, meccanici e ripetitivi, ma non per questo meno pesanti di quelli maschili) che le nuove macchine richiedevano, mentre agli uomini venivano riservati per lo più i lavori di fatica.
Una sala della mostra Colori e forme del lavoro a Carrara, Palazzo Cucchiari |
Ad ogni modo, studî recenti hanno anche dimostrato come la fitta presenza di donne nel sistema lavorativo di fine Ottocento abbia contribuito a formare e modellare una nuova identità femminile: i contatti con realtà esterne allo stretto ambito familiare, e la partecipazione ai movimenti operai e alle agitazioni condussero progressivamente le donne (europee e italiane, specialmente nelle grandi città industriali) a prendere coscienza della propria condizione, ad acquisire consapevolezza dei proprî diritti, e a garantirsi una maggior autonomia rispetto ai ruoli cui l’istituto della famiglia intendeva relegarle. Fu soprattutto l’esperienza nelle fabbriche a spingere le donne verso una nuova coscienza di sé: in simili contesti, le lavoratrici potevano rendersi conto delle proprie abilità, e vivere nuovi tipi di relazioni che erano loro preclusi nello stretto ambito familiare (si pensi a cosa potesse significare, per una donna di fine Ottocento, fino ad allora sostanzialmente relegata alle mura domestiche o ai semplici rapporti di vicinato, condividere la propria esperienza con le colleghe all’interno di una realtà grande). Si assistette anche a un aumento della presenza femminile nelle associazioni sindacali per quanto, tuttavia, ancora a inizio Novecento, e anche all’interno degli stessi sindacati, fosse radicato il pregiudizio secondo cui il lavoro nelle fabbriche non era adatto alle donne, che avrebbero dovuto, semmai, dedicarsi alla cura della casa.
E proprio all’interno delle case, peraltro, si svolgeva gran parte del lavoro femminile. Il lavoro domestico, pur godendo di scarsa considerazione sociale, era vitale per l’economia familiare: dal lavoro domestico si traevano importanti risorse per il sostentamento della famiglia, sia quando le donne lavoravano per lo stretto fabbisogno familiare, sia quando eseguivano lavori su commissione (anche se la storiografia ha ormai ampiamente riscontrato che, molto spesso, il lavoro a domicilio era comunque insufficiente per garantire alla donna e alla sua famiglia un’esistenza dignitosa). Si trattava soprattutto di lavori legati a saperi artigianali che ci si tramandava di generazione in generazione e per i quali si registrò, tra Otto e Novecento, e soprattutto nel nord Italia e nelle grandi città, un forte aumento della domanda, dovuto al fatto che la nuova borghesia urbana, ha scritto la storica Alessandra Pescarolo, “alimentava una domanda incredibilmente variegata di oggetti, funzionali o ornamentali, plasmati comunque da una sensibilità estetica carica di decorativismo, che erano prodotti manualmente a domicilio senza alcuna preoccupazione per la razionalizzazione e la standardizzazione che la meccanizzazione avrebbe successivamente imposto”. Le donne, dunque, lavorano spesso a casa come sarte, cucitrici, filatrici, ricamatrici, legatrici, fabbricanti di giocattoli, addette alla lavorazione di trine, pizzi, merletti, accessorî assortiti. Si trattava tuttavia di attività a bassissimo costo che facevano leva, secondo Pescarolo, sulla “disponibilità delle donne del proletariato urbano allo spreco estremo di se stesse e delle proprie energie”.
I curatori della summenzionata mostra di Carrara, Ettore Spalletti e Massimo Bertozzi, hanno deciso di aprire la rassegna proprio con una sezione dedicata al lavoro domestico. Quello che appare evidente osservando molti dei dipinti che ritraggono le donne al lavoro a casa, è l’assenza di ogni intento di critica sociale: questo perché, ha scritto Bertozzi nel catalogo dell’esposizione, la scarsa rilevanza di cui il lavoro domestico godeva presso i contemporanei fece sì che tali attività fossero guardate dai pittori “come aspetti del costume piuttosto che contesti sociali: inevitabilmente il lavoro domestico, così come quello prestato a domicilio, quello svolto a bottega e quello rurale, rimarranno ancora molto a lungo esclusi da ogni legislazione di tutela e previdenza sociale”. L’aspetto triste e dimesso della Filatrice dipinta dal milanese Gerolamo Induno (Milano, 1825 - 1890), che attende al proprio lavoro di filatura in un interno domestico spoglio e sporco, con le pareti scrostate e con gli oggetti gettati per terra che insozzano il pavimento, è una sorta di manifesto involontario della condizione della lavoratrice domestica femminile negli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia (involontario perché probabilmente l’artista, con la sua minuzia narrativa riconosciutagli anche dai critici suoi contemporanei, mirava a riprodurre fedelmente un momento di vita quotidiana, a dipingere una scena di genere scevra di qualsiasi connotato politico, più che a fare denuncia sociale). Lo stesso si potrebbe pensare per la Filatrice di Niccolò Cannicci (Firenze, 1846 - 1906), animato dalla volontà di restituire al riguardante un fedele ritratto di una popolana in piedi con in mano un fuso, strumento tipico del suo mesteire. E se il Gomitolo di Egisto Ferroni (Lastra a Signa, 1835 - Firenze, 1912), col tenero bambino che tenta di rubacchiare alla mamma il gomitolo con la quale lei sta lavorando, introduce una delicata vena affettuosa che lega indissolubilmente all’ambito della famiglia il lavoro a casa, il grande Silvestro Lega (Modigliana, 1826 - Firenze, 1895) raffigura una Bigherinaia (una fabbricante di bigherini, guarnizioni di trina per abiti femminili) che attende al proprio lavoro solitaria e malinconica, davanti a un grande telaio. Se si considera che in uno studio del 1880 condotto da Vittorio Ellena (che dodici anni dopo sarebbe diventato ministro delle finanze nel primo governo Giolitti) erano stati censiti, in quasi tutta l’Italia, ben 229.538 telai casalinghi, si può facilmente immaginare quanto fossero comuni scene come quelle dipinte dai pittori sopra elencati.
Alla mostra carrarese, il lavoro necessario per la famiglia viene esemplarmente descritto da due artisti come Eugenio Cecconi (Livorno, 1842 - Firenze, 1903) e Llewelyn Lloyd (Livorno, 1879 - Firenze, 1949), il primo con le Lavandaie a Torre del Lago e il secondo con le Acconciatrici di reti. Le lavandaie, che per lo più lavavano i vestiti dei componenti del nucleo familiare (ma che non di rado lavoravano su commissione), nel dipinto di Cecconi vengono raffigurate mentre compiono il loro lavoro sfruttando le acque del lago di Massaciuccoli, in gruppo (il lavaggio dei panni era in fondo uno dei più importanti momenti di socializzazione delle donne dell’epoca, che avevano in tal modo l’occasione di scambiare qualche parola con le vicine). Lloyd, artista livornese di origini gallesi, testimonia un momento importante della vita di un borgo marinaro: la rammendatura delle reti da parte delle mogli dei pescatori (le reti erano strumento fondamentale per l’economia di questi luoghi, e la rammendatura era necessaria per evitare che i pescatori dovessero comprarne di nuove, gravando sul bilancio della famiglia).
Gerolamo Induno, La filatrice (1863; olio su tela, 65,5 x 52,2 cm; Genova, Galleria d’Arte Moderna) |
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Niccolò Cannicci, La filatrice (1885-1890; olio su cartone, 57 x 24 cm; Milano, Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci) |
Egisto Ferroni, Il gomitolo o Scena di famiglia o Le tre età (1874; olio su tela, 145 x 120 cm; Bologna, Collezione privata) |
Silvestro Lega, La bigherinaia (1883; olio su tela, 33,7 x 24,7 cm; Viareggio, Società di Belle Arti) |
Eugenio Cecconi, Lavandaie a Torre del Lago (1880; olio su tela, 50,5 x 106,5 cm; Milano, Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci) |
Llewelyn Lloyd, Vecchie acconciatrici di reti (1907; olio su tela, 93,4 x 129,5 cm; Viareggio, Società di Belle Arti) |
Quanto al lavoro nelle campagne, si trattava di un altro settore sostanzialmente privo di tutele per le lavoratrici, anche perché la stragrande maggioranza di loro prestava attività sempre in ambito familiare, magari fornendo aiuto al marito o al padre, cui spettavano le incombenze più dure. E spesso si trattava di donne che si recavano nei campi dopo aver atteso a lavori di filatura e di ricamo in casa: anche in virtù di questa ambiguità nel definirsi filatrici o contadine si rendeva difficile, per chi all’epoca si occupava dei censimenti dei lavoratori, ottenere statistiche affidabili sull’impiego delle donne nell’agricoltura. Le donne venivano destinate a lavori ritenuti facili, anche se in realtà spesso non era così, e benché certi lavori avessero la fama d’esser leggeri, eseguiti per un’intera giornata divenivano duri e logoranti: si pensi, per esempio, al lavoro delle mondine (forse le più “famose” lavoratrici agricole dell’epoca), le donne che, sul finire della primavera, si recavano nelle risaie allagate per eseguire la “monda”, ovvero l’eliminazione delle erbacce che avrebbero arrecato danno alle colture impedendo lo sviluppo delle giovani piantine di riso (un lavoro poi superato grazie all’introduzione dei diserbanti). Alle donne erano dunque affidati incarichi come la raccolta (di uva, olive, castagne, frutta, ortaggi, legna), la spigolatura (ovvero la raccolta da terra delle spighe di grano sfuggite alla mietitura), la pulitura di certe piante, la sarchiatura (la disinfestazione dalle erbacce nei campi arati).
I pittori furono attenti osservatori della realtà del tempo: spesso erano asettici e distanti, come imponevano i canoni della pittura realista e verista del tempo, ma la presenza diffusa di soggetti umili, come i lavoratori dei campi, nelle loro opere, col passare degli anni portò le nuove generazioni a elaborare forme d’arte più vicine alle istanze dei soggetti raffigurati e capaci di una più forte critica sociale. Un artista come Telemaco Signorini (Firenze, 1835 - 1901) si muoveva tra questi due poli: capace di lavori pregni di critica sociale alimentata dalle sue letture (un caso esemplare è l’Alzaia conservata in collezione privata), subiva però anche il fascino delle campagne di Settignano, località nei dintorni di Firenze che l’artista frequentava abitualmente. Ne consegue che un’opera come La raccolta delle olive risulti permeata da un afflato poetico (la bellezza del paesaggio, l’atmosfera, il particolare, pur frequente in Signorini, del bambino seduto sul prato) che fa quasi dimenticare quale fosse la condizione della donna nei campi. Animato da intenti più descrittivi è invece D’ottobre verso sera, dipinto di Adolfo Tommasi (Livorno, 1851 - Firenze, 1933) che testimonia la fine di una giornata lavorativa nei campi: è molto interessante perché la donna che trascina faticosamente il carro al centro della scena, in lontananza, testimonia come spesso anche alle donne toccassero lavori faticosi (per esempio quando il marito doveva assentarsi dai campi per i più svariati motivi, o comunque qualora scarseggiasse la manodopera maschile). Di Adolfo Tommasi sono anche le Boscaiole a riposo, altro dipinto che si colloca nella pittura di genere e che dimostra in maniera inequivocabile come il lavoro femminile (anche in questo caso piuttosto faticoso: era alle donne che toccava raccogliere la legna in fascine e trasportarla al riparo) spettasse tanto alle giovani quanto alle anziane. Anzi: spesso, una donna d’età avanzata era considerata una lavoratrice migliore di una più giovane, sia per l’esperienza maturata, sia (soprattutto) perché non rischiava d’assentarsi dal lavoro per badare ai figli.
Telemaco Signorini, La raccolta delle olive (1862-1865 circa; olio su tela, 51,3 x 36,2 cm; Bari, Pinacoteca Metropolitana Corrado Giaquinto) |
Adolfo Tommasi, D’ottobre verso sera (1885-1888 circa; olio su tavola, 50 x 100 cm; Viareggio, Società di Belle Arti) |
Adolfo Tommasi, Due boscaiole a riposo (1893; olio su tela, 115 x 120 cm; Livorno, Galleria d’Arte Goldoni) |
Molte donne trovavano impiego anche nel settore del commercio: tuttavia si parla quasi sempre di vendita minuta di prodotti alimentari, di articoli di artigianato oppure di oggetti per la casa e per la vita di tutti i giorni. Le vendite venivano effettuate presso i banchi del mercato oppure, più semplicemente, con banchetti nelle piazze o per le strade. Spesso inoltre il commercio si configurava quasi come un’attività complementare rispetto a quella degli uomini: è evidente in un dipinto come La pescheria vecchia del pittore veneziano (ma di origini napoletane) Ettore Tito (Castellammare di Stabia, 1859 - Venezia, 1941). È una scena di genere affrontata dal pittore con piglio verista, e nella quale le donne dei pescatori della laguna veneta, dopo l’arrivo dei loro uomini, espongono il pescato in grosse ceste in una specie di mercato allestito direttamente sulle rive di un canale. Anche gli impieghi nel commercio spesso sfuggivano alle tutele o a forme di associazionismo: solo tra il 1907 e il 1910 le donne commercianti (che, secondo un censimento del 1911, in Italia erano oltre tredicimila) sarebbero state ammesse all’elettorato attivo e passivo degli organi delle Camere di Commercio, e sempre alla stessa epoca risalivano le prime norme che sottraevano all’autorità del marito la donne sposate che intendevano lavorare nel campo della vendita (il marito, infatti, doveva esprimere il proprio consenso qualora la moglie avesse voluto intraprendere un’attività commerciale). Quello delle donne rimaneva comunque, quasi sempre, un commercio povero, ampiamente documentato dagli artisti del tempo: particolarmente esemplificative sono opere come le Cenciaiole livornesi di Eugenio Cecconi, dipinto che raffigura le venditrici di stracci dei quartieri poveri di Livorno (e dipinto che, ha scritto la storica dell’arte Valentina Gensini, manifesta evidenti “preoccupazioni di natura sociale ed etica” proponendo un’immagine non estranea “all’accostamento pateticamente affettuoso e sofferente praticato dagli artisti toscani nei confronti della natura e delle sue manifestazioni indipendenti dalla soggettività dell’osservatore”), i Coronari a San Carlo dei Catinari di Luigi Serra (Bologna, 1846 - 1888), che raffigura un commercio tipico dei quartieri di Roma vicini al Vaticano (nei dintorni di piazza Navona esiste anche una famosissima “via dei Coronari”), quello degli oggetti sacri come crocifissi, rosarî e corone che venivano venduti ai pellegrini diretti a San Pietro (l’opera di Serra è un capolavoro dove l’autore sembra, come Cecconi, simpatizzare con la condizione degli umili commercianti, chini e malinconici davanti ai proprî poveri banchetti), o la Venditrice di frutta di Libero Andreotti (Pescia, 1875 - Firenze, 1933), scultura già proiettata verso la modernità.
Infine, il lavoro delle donne nelle fabbriche, nelle industrie e negli stabilimenti è magnificamente rappresentato da un artista come il lombardo Eugenio Spreafico (Monza, 1856 - 1919), particolarmente interessato al tema del lavoro femminile, cui dedicò diversi dipinti. Nel suo Dal lavoro. Il ritorno dalla filanda, Spreafico raffigura un gruppo di donne che camminano insieme sulla via del ritorno dalla filanda in cui lavorano, stagliandosi coi loro profili sullo splendido tramonto della campagna lombarda, in un viale che scorre tra i campi ripreso orizzontalmente dall’artista. È un dipinto pregno di suggestioni, e tali da aver forse ispirato un celeberrimo capolavoro come il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo (che ha un taglio identico a quello di Spreafico, benché più ravvicinato e malgrado, ovviamente, si tratti di un’opera animata da ben altre intenzioni), ma al contempo è privo di qualsivoglia volontà di denuncia sociale. L’incedere delle lavoratrici, infatti, si fonde con il magnifico paesaggio sul quale si diffonde la luce crepuscolare che si riflette sui canali ai margini del viale e sulle pozzanghere che si sono formate nei solchi lasciati dai carri, e ciò contribuisce a stemperare ogni eventuale momento di tensione: l’opera di Spreafico, pittore verista, è tesa a presentare all’osservatore un brano di realtà, documentato secondo toni oggettivi. Ma è altresì interessante pensare che queste donne, stanche e affaticate dalle ore di lavoro in filanda e comunque liete di condividere la via del ritorno chiacchierando e magari scherzando con qualche collega, potrebbero anche rappresentare una metafora, ha suggerito la storica dell’arte Elisabetta Piazza, di “un futuro migliore, verso il quale esse camminano fiduciose”.
Ettore Tito, La pescheria vecchia (1893; olio su tela, 130 x 200 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea) |
Eugenio Cecconi, Cenciaiole livornesi (1880; olio su tela, 88 x 170 cm; Livorno, Museo Civico Giovanni Fattori) |
Luigi Serra, I coronari a San Carlo dei Catinari (1885; olio su tela, 57 x 129 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi) |
Libero Andreotti, Venditrice di frutta (1917; bronzo, 70 x 42 x 27 cm; Firenze, Collezione privata) |
Eugenio Spreafico, Dal lavoro. Il ritorno dalla filanda (1890-1895; olio su tela, 101 x 194,5 cm; Monza, Musei Civici) |
Eugenio Spreafico, Dal lavoro. Il ritorno dalla filanda, dettaglio |
Sulla scorta dell’attività di artisti sempre più animati da istanze sociali (si pensi al sopraccitato Pellizza da Volpedo, ma anche a grandi pittori e scultori come Plinio Nomellini, Angelo Morbelli, Vincenzo Vela, Patrizio Fracassi e molti altri), oltre che dei letterati del tempo, il periodo immediatamente a cavallo tra i due secoli fece segnare miglioramenti delle condizioni lavorative, e fu anche l’epoca in cui la cosiddetta questione femminile s’affermò come oggetto di discussioni pubbliche. Da tempo giornalisti, artisti, filosofi e scrittori denunciavano le condizioni cui le donne erano costrette: rimanendo nel campo della letteratura si potrebbero citare le opere di John Stuart Mill che nel 1869, con The Subjection of Women, diffuse il messaggio secondo il quale la subordinazione della donna all’uomo altro non era che una forma di schiavitù, o quelle di Jules Michelet che, pur criticato dalle femministe per il suo ideale di donna “dolce mediatrice tra la natura e l’uomo”, ebbe comunque il merito di rivendicare per lei diritti fondamentali, primo tra tutti quello di non essere una sorta di oggetto passivo totalmente dipendente dall’autorità degli uomini e privo di una propria capacità di autodeterminazione. Ancora, si potrebbero menzionare gli scritti di Jules Simon, che nella sua L’ouvrière del 1861, benché ancora legato, seppur in buona fede, all’idea di donna soggetta alla potestà del marito, denunciò le condizioni del lavoro delle donne nelle fabbriche, suggerendo che il lavoro nelle industrie non fosse adatto per loro, e che la donna andasse semmai protetta. In Italia furono fondamentali gli studî di Salvatore Morelli, convinto e modernissimo sostenitore, in anticipo rispetto ai tempi, dell’uguaglianza tra uomo e donna: già nel 1867 Morelli lamentava che le donne non potessero votare, che in ambito lavorativo fosse loro preclusa ogni possibilità di far carriera, che non potessero dare il loro cognome ai figli, e nel 1869, nella sua fondamentale opera La donna e la scienza, scrisse che l’esclusione “della donna da tutti gli uffici è un disprezzo marcato alla dignità d’un essere morale, è sottrazione all’umana famiglia di quattrocento cinquanta milioni d’intelligenze, e se si vuol toccare un po’ il summum jus, dirò, è un aperto invalidamento degli atti dell’uomo come persona giuridica. Delle due l’una, o si ritiene quale metà dell’uomo la donna, ed allora tutti gli atti eseguiti finora debbono giudicarsi imperfetti, perché la perfezione umana si compie col concorso della donna [...] o si deve considerare come contenente in sé personalità propria, ed allora la donna è parte della società, se anche ella è cittadino, se nei rapporti sociali vi sono pure per lei degli interessi”.
Grazie all’iniziativa diretta di Morelli (che fu anche deputato per quattro legislature), una legge del 1877 consentì alle donne di diventare testimoni negli atti pubblici e privati. Occorsero però molti altri anni prima che, in Italia, si cominciassero a registrare i primi progressi nella condizione del lavoro femminile. La Legge Carcano del 1902 fissava a dodici ore il limite massimo della giornata lavorativa femminile (con una pausa di due ore), vietava alle minorenni il lavoro notturno e a tutte il lavoro sotterraneo, introduceva il congedo obbligatorio di quattro settimane dopo il parto e permetteva l’allattamento sul posto di lavoro, imponendo alle industrie che impiegavano almeno cinquanta operaie l’allestimento di ambienti appositi, oppure la concessione di appositi permessi. Con la legge 520 del 1910 fu istituita una Cassa di Maternità che garantiva un sussidio alle donne in congedo obbligatorio secondo la legge del 1902. Infine, si dovette attendere il 1919 (con la Legge 1176, “Norme circa la capacità giuridica della donna”) per l’abolizione del diritto di opposizione del marito e per veder riconoscere alle donne la possibilità di accedere a tutte le professioni e a tutti i pubblici impieghi. Erano i primi passi delle donne sulla lunga strada verso la parità.
Bibliografia di riferimento
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo