In estinzione e in attesa di riconoscimento da diciotto anni: l'odissea dei restauratori


Il mestiere del restauratore è a rischio: in diminuzione nel numero, e da diciotto anni in attesa di una qualifica, i restauratori affrontano mille difficoltà e la loro situazione dovrà rappresentare una priorità per il prossimo ministro dei beni culturali.

“Restauratori in estinzione”: così titolava, lo scorso 30 marzo, un articolo a firma di Monica Pieraccini uscito sull’edizione fiorentina de La Nazione. La giornalista riportava come prima della crisi, nella sola Firenze, si contassero almeno quattrocento restauratori, oggi ridottisi a un centinaio, dacché molti di loro hanno cambiato professione (oppure sono finiti nella morsa della disoccupazione) a causa della mancanza di lavoro, dovuta per lo più al fatto che quello del restauro è un settore nel quale non s’investe. E i risultati di questa politica sono evidenti: al di là di alcuni restauri “spot”, della cui utilità spesso ci s’interroga, poco si fa, e a soffrirne è soprattutto il piccolo patrimonio diffuso sul territorio, che spesso necessita d’interventi di privati per far fronte anche a situazioni d’emergenza.

Per esempio, è notizia di oggi il salvataggio, da parte di dieci giovani restauratori diplomati all’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, uno dei maggiori istituti italiani del restauro, di duecentosessanta opere sottratte dai siti colpiti dal sisma del Centro Italia del 2016 e ricoverate presso il deposito di Santo Chiodo di Spoleto: un intervento che è stato possibile grazie a un contributo di centotrentamila euro stanziato da un ente privato, la Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze. E la differenza tra gli interventi post-terremoto del 1997 in Umbria e nelle Marche e quelli attuali è stata anche ben riassunta da Vittorio Emiliani in un suo recente articolo su Emergenza Cultura. Sono del resto i numeri che certificano come il Ministero dei Beni Culturali, negl’ultimi anni, abbia dimostrato un certo disinteresse nei confronti del patrimonio minore. E tutto questo è paradossale, se si pensa che il patrimonio artistico e il restauro vengono utilizzati “come vetrina e per le campagne elettorali”, come precisava, nel summenzionato articolo, Marco Benati del sindacato Fillea Cgil di Firenze.

Restauratrice all'opera nella basilica di Sant'Eustorgio a Milano. Ph. Credit Giovanni Dall'Orto
Restauratrice all’opera nella basilica di Sant’Eustorgio a Milano. Ph. Credit Giovanni Dall’Orto

Molti restauratori devono dunque misurarsi col precariato dei contratti di collaborazione o a tempo determinato, oppure con la libera professione, barcamenandosi tra consulenze esterne e incarichi a termine, spesso sporadici, dal momento che tutto il settore è in difficoltà. Alla crisi degl’investimenti occorre poi aggiungere la spinosa questione del riconoscimento della professione, un problema che il ministero, negl’ultimi tempi, non ha mai dimostrato di voler risolvere. Eppure, non si tratta di un nodo di poco conto, dal momento che il ministero stesso, attraverso due decreti (il 294 del 2000 e il 420 del 2001) ha individuato i requisiti dei soggetti che, in Italia, possono essere riconosciuti come restauratori di beni culturali, dimostrando dunque che i restauratori, nell’economia complessiva della tutela dei beni culturali, svolgono un ruolo d’importanza critica. Si tratta poi di requisiti che sono stati confermati con l’articolo 182 del Codice dei beni culturali (il decreto legislativo 42 del 2004), ovvero la legge fondamentale del settore dei beni culturali in Italia, ed estesi successivamente.

Secondo la legge, il professionista che voglia esser qualificato come restauratore deve dimostrare al ministero (cui spetta il compito di fare le opportune verifiche) di aver ottenuto un diploma in una delle scuole di restauro o di essersi laureato in uno dei corsi universitari (o delle Accademie di Belle Arti) riconosciuti dalla legge, oppure, qualora si tratti di professionista che già svolgeva la professione di restauratore prima dell’entrata in vigore dei decreti, di aver regolarmente lavorato per almeno otto anni (se non in possesso di diploma, altrimenti per quattro), e con responsabilità diretta nella gestione tecnica dell’intervento, nell’ambito di restauri certificati dagli enti preposti alla tutela. Così, nel 2009, vengono avviate le opportune verifiche di cui sopra, finalizzate a garantire il riconoscimento della professione. Inoltre, a seguito della delineazione del profilo professionale dome da decreto ministeriale 86 del 2009, viene anche individuato il percorso formativo universitario, della durata di cinque anni, che avrebbe dovuto formare i futuri restauratori. Nel 2010, una modifica ai criterî fa slittare la procedura, che deve attendere che “si realizzi l’iter parlamentare necessario alla revisione dell’articolo 182 del Codice”: peraltro il bando per il riconoscimento della qualifica aveva scadenza un giorno prima della sospensione, e possiamo solo immaginare la frustrazione di quanti avevano già inoltrato la domanda di riconoscimento al ministero.

Passano altri tre anni, la modifica viene varata e la fine della procedura è fissata per il 30 giugno del 2015. Questa volta, almeno in apparenza, non ci sono sorprese: il bando viene pubblicato, i restauratori inviano la loro documentazione (e una circolare del segretario generale del ministero, nel maggio del 2015, fa sapere che coloro che sono in possesso dei requisiti di legge possono comunque continuare a svolgere le loro attività lavorative, in attesa che il procedimento venga espletato) e a novembre del 2015 viene nominata la commissione di verifica che, per controllare le domande inviate da tutti i candidati, ha sei mesi di tempo, prorogabili di ulteriori due mesi (commissione di verifica che, peraltro, nel corso di tutto l’iter conoscerà ben quattro modifiche). La proroga scatta puntualissima, ma l’odissea dei restauratori deve ancora finire. A luglio, ovvero nel mese in cui è prevista la conclusione del procedimento, viene fatta scattare una proroga di un anno che rimanda tutto a giugno del 2017: e la proroga scatta, oltretutto, quando era già stato pubblicato un elenco parziale di abilitati, per consentire ai diplomati delle scuole ministeriali di partecipare al grande concorso del 2016, quello per l’assunzione di cinquecento funzionarî negli organi del ministero (ottanta dei quali restauratori). E non è finita: al 30 giugno, nuova data di scadenza, subentra una nuova proroga di sei mesi e tutto è rimandato al 31 dicembre. E se i restauratori pensavano che il loro calvario sarebbe terminato con le festività natalizie, si sbagliavano di grosso, dacché il 12 dicembre scorso è entrata in vigore una nuova proroga di tre mesi (la scadenza è dunque rimandata al 31 marzo), che però, si legge nel decreto direttoriale 220 del 2017, potranno essere ulteriormente prorogabili.

Questo significa che, in buona sostanza, al momento non esiste una data certa per il termine della procedura che dovrebbe garantire ai restauratori l’ottenimento della qualifica professionale. E questo succede a diciotto anni dall’individuazione dei requisiti necessarî per svolgere il mestiere, e a nove anni dalla pubblicazione del bando che avviava la procedura di riconoscimento. Si è giunti a questo punto per diverse ragioni: perché la normativa che identifica i requisiti è stata più volte sottoposta a modifica, perché nel frattempo sono nati nuovi corsi di laurea che hanno reso necessaria una revisione dei criterî, perché la documentazione prodotta dai restauratori (decine di migliaia di documenti) richiede tempistiche lunghe affinché possa essere valutata correttamente e in modo minuzioso (anche se, a tre anni dalla scadenza dell’invio delle domande, forse si potrebbe quanto meno garantire ai restauratori una data certa per l’espletamento della procedura).

Nel frattempo, molti restauratori denunciano che nel settore operano abusivi che non sono in possesso dei requisiti indicati nella normativa di settore, ma seguitano a operare indisturbati sfruttando l’attuale momento di scarsa chiarezza. E questo non crea solo situazioni di concorrenza sleale, ma comporta anche gravi rischi per il nostro patrimonio storico-artistico. Da un lato, dunque, una questione di rispetto nei confronti di una categoria di professionisti cui è stato promesso un riconoscimento, ma si è prorogato di anno in anno il termine del procedimento, e dall’altro la cura degl’interessi della tutela, dovrebbero far riflettere il nuovo ministro sul fatto che la qualifica dei restauratori sia una priorità improcrastinabile, che dovrà essere discussa con estrema urgenza. Anche perché la qualifica potrebbe costituire la base del rilancio d’una professione a rischio, ma ch’è d’importanza fondamentale per il nostro paese.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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