Il fascino bizzarro delle opere dell'Arcimboldo, in mostra a Roma


Recensione della mostra 'Arcimboldo' a Roma, Galleria Nazionale d'Arte Antica di Palazzo Barberini, fino all'11 febbraio 2018.

Una delle ultime opere che conosciamo di Giuseppe Arcimboldi, il grande artista cinquecentesco noto anche, più semplicemente, come Arcimboldo (Milano, 1527 - 1593), è un suo originalissimo autoritratto su carta, conservato oggi presso il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe di Palazzo Rosso a Genova. Mantenendosi fedele al genere che gli aveva procurato fama in vita e gli avrebbe concesso gloria imperitura dopo, l’Arcimboldo evitò d’optare per un autoritratto tradizionale, e dipinse anche se stesso sotto forma di testa composta, ovvero accumulando una serie d’oggetti per dar forma alla propria figura. Da lontano parrebbe un autoritratto normale, ma se ci s’avvicina si noterà che la testa del pittore è interamente composta da fogli di carta, e guardando meglio le rughe della fronte l’osservatore s’accorgerà di come l’artista abbia celato un 6 e un 1 tra le pieghe della pelle: sessantuno erano infatti gli anni che l’artista aveva quando dipinse l’opera. La realizzò al momento del suo ritorno nella città natale, dopo aver trascorso due decenni presso la corte del Sacro Romano Impero. “È evidente”, scriveva Giacomo Berra nel 1996 in un saggio interamente dedicato all’Autoritratto, "che l’Arcimboldi appena giunto definitivamente a Milano, nel proporre ai suoi concittadini il proprio Autoritratto ne esaltava quasi il valore di sintesi della sua formula pittorica illustrando anche visivamente attraverso il disegno la sua peculiare cifra stilistica". Ma non solo: quel particolarissimo Autoritratto si configurava come una sorta di dichiarazione d’intenti.

Ed è anche per questa ragione che l’opera apre il percorso della mostra Arcimboldo, in corso a Roma, a Palazzo Barberini, fino all’11 febbraio. Dopo che fu tornato a Milano, Giuseppe Arcimboldi si circondò d’intellettuali e letterati come Paolo Morigia, Giovanni Paolo Lomazzo (ch’era anche un valente pittore) e Gregorio Comanini, e cominciò ad affidare a loro il racconto delle sue memorie, in particolare di ciò che aveva fatto alla corte imperiale, non senza mancare d’autocelebrarsi. “Un pittore rarissimo, unico nell’inventioni, leggiardo e miracoloso ne’ ghiribizzi, e bizzarrie”, lo definiva Comanini, e dello stesso avviso era Morigia, che scriveva “questo è un pittore raro, et in molte altre virtù studioso, et eccellente; et dopo l’haver dato saggio di lui, e del suo valore, così nella pittura come in diverse bizzarrie, non solo nella patria, ma anco fori, acquistossi gran lode, di maniera, che il grido della sua fama volò sino nell’Alemagna”. Il significato dell’opera appare dunque più chiaro: quei fogli bianchi, vuoti, con cui l’Arcimboldo costruisce il proprio autoritratto, saranno da riempire con parole che potranno celebrare la sua arte, esaltando i successi che il pittore milanese seppe ottenere. Il racconto della rassegna romana comincia proprio da qua: dobbiamo immaginarci dunque l’artista preso a ripercorrere la propria vita e la propria carriera, raccontando le proprie memorie, ricordando le persone incontrate, le celebrazioni cui aveva preso parte, le splendide opere che dipinse per i suoi raffinati committenti. E tutto all’insegna di quelle “bizzarrie” che caratterizzarono la sua produzione.

Ingresso della mostra su Giuseppe Arcimboldi a Roma
Ingresso della mostra su Giuseppe Arcimboldi a Roma. Ph. Credit Finestre sull’Arte


Una sala della mostra
Una sala della mostra. Ph. Credit Gallerie Nazionali d’Arte Antica


Una sala della mostra
Una sala della mostra. Ph. Credit Gallerie Nazionali d’Arte Antica

“Bizzarrie” è una parola che ricorre di frequente negli scritti di chi s’è occupato della pittura di Giuseppe Arcimboldi: il suo è un caso pressoché unico nella storia dell’arte occidentale, dacché pochi artisti ebbero un estro fantasioso come il suo, e a nessuno era mai venuto in mente di realizzare stranezze come ritratti composti da oggetti, piante, animali. Nell’immaginario collettivo s’è dunque diffusa l’immagine d’un ingegno sostanzialmente fuori dal tempo e fuori da ogni contesto, sviluppatosi probabilmente grazie a qualche altrettanto strana congiuntura. Quelle “bizzarrie” invece sono ben radicate nel sostrato culturale della Milano di metà Cinquecento, e la mostra parte bene ricostruendo la genesi dei “ghiribizzi” arcimboldeschi. Occorre sottolineare che sappiamo molto poco degli anni milanesi dell’artista, anche perché, al ritorno in città nel 1587, Giuseppe Arcimboldi preferì glissare sulla prima parte della sua carriera, e si concentrò sugli anni trascorsi alla corte degli Asburgo. Certo è che l’Arcimboldo dovette essere immerso nell’arte fin da piccolo, dacché il padre Biagio era anch’egli pittore ed era da anni attivo presso la Veneranda Fabbrica del Duomo. L’arte lombarda s’era contraddistinta, fin da epoche più antiche, per il gusto della narrazione vivace e per la grande attenzione alla realtà e alla natura: una predisposizione peraltro alimentata dall’arrivo a Milano di Leonardo da Vinci e dalla diffusione delle sue teorie sull’osservazione della natura come base per il progresso scientifico e come fondamento della conoscenza, e sul disegno come mezzo privilegiato per condurre tale studio. Studiare la natura significava indagarne anche gli aspetti più insoliti e paradossali: una lezione che Leonardo da Vinci impartì ai suoi allievi e agli artisti della sua cerchia, cui spettò il compito di conservarla e diffonderla. È proprio in Leonardo da Vinci e nei leonardeschi che occorre trovare i più diretti precedenti delle teste di Arcimboldo: il grande artista toscano, al fine di consolidare i propri studî nell’ambito della fisiognomica e per migliorare dunque la conoscenza del volto umano, e probabilmente spinto, come suggerito in catalogo, dalle burlesche facetiae letterarie diffuse presso la corte di Ludovico il Moro, aveva preso a disegnare teste grottesche, caricaturali ritratti dai connotati esagerati e deformati fino all’inverosimile. Gli allievi non furono da meno: ne sono esempio, in mostra, due disegni in arrivo da Montréal, uno attribuito a Francesco Melzi (Milano, 1491 circa – Vaprio d’Adda, 1570 circa), e l’altro a un anonimo seguace.

Probabilmente ispirato da queste inusuali figurazioni, e volendo inventare un genere che unisse il gusto per il bizzarro allo studio attento del naturale, ambito nel quale Giuseppe Arcimboldi eccelse (ne sono prova anche i diversi disegni a soggetto naturalistico che di lui ci sono rimasti), l’artista, poco prima di trasferirsi a Vienna, cominciò a produrre le sue teste composte, i cui primi esempî sono forse da rintracciare nelle Stagioni oggi a Monaco di Baviera. Si tratta d’un ciclo completo (ancorché l’Autunno versi in condizioni molto precarie: è quindi conservato nei depositi della Alte Pinakothek della città tedesca), particolarmente problematico: un tempo le opere che lo compongono erano ritenute eseguite durante il soggiorno presso la corte asburgica, se non addirittura copie d’invenzioni concepite in Austria. Con la mostra sull’Arcimboldo tenutasi a Palazzo Reale nel 2011, lo studioso Francesco Porzio aveva proposto per la prima volta la suggestiva ipotesi dell’assegnazione delle Stagioni di Monaco agli anni milanesi, accolta adesso anche dalla curatrice della rassegna romana, Sylvia Ferino-Pagden: la qualità inferiore rispetto a quella di altre teste composte di Giuseppe Arcimboldi ma comunque totalmente compatibile con i risultati raggiunti dell’artista, nonché i debiti nei confronti del naturalismo lombardo, sono i principali indizî che hanno portato a una datazione al 1555-1560 circa. Una datazione che colmerebbe un’importante lacuna all’interno della carriera di Arcimboldo e che contribuirebbero a spiegare il motivo del suo trasferimento a Vienna.

Del primo periodo milanese di Giuseppe Arcimboldi, del resto, sappiamo pochissimo, e gran parte di ciò che ci è noto è racchiuso tra le sale della mostra. L’artista cominciò a lavorare assieme al padre relativamente tardi, all’età di ventidue anni, affiancandolo nella realizzazione dei cartoni per le vetrate del Duomo e seguitando per diversi anni a occuparsi della stessa mansione: in mostra abbiamo due vetrate, quelle con Santa Caterina condotta al carcere e l’Esecuzione di santa Caterina, realizzate su disegno autonomo di Giuseppe Arcimboldi. Si tratta di opere convenzionali, certo raffinate e aggiornate, così come il grande arazzo della Dormitio Virginis, anch’esso presente in mostra, per il quale l’Arcimboldo disegnò il cartone (la scena è trattata in maniera tradizionale, benché il gusto del pittore si possa cogliere nei grandi festoni di frutta e fiori che fanno da cornice alla composizione), o come gli affreschi con l’Albero della vita nel Duomo di Monza: quelle appena elencate sono tra le rarissime opere che conosciamo del pittore fino alla data del trasferimento a Vienna, e di sicuro possiamo ritenerle insufficienti per aver mosso la curiosità dell’imperatore Massimiliano II d’Asburgo (Vienna, 1527 – Ratisbona, 1576), che chiamò l’artista in Austria nel 1562, epoca in cui il sovrano si stava adoperando per radunare attorno a sé uno degli ambienti culturali e umanistici più fecondi dell’Europa del tempo. L’Arcimboldo evidentemente lavorò molto per clienti privati, eseguendo opere di cui non è rimasta traccia, oppure, dal momento che gli Asburgo gli affidarono anche l’organizzazione delle feste di corte, è ipotizzabile che già a Milano il pittore abbia potuto distinguersi come abile scenografo, capace d’attirare l’attenzione dei suoi futuri illustri committenti. Certo è che già a Milano l’artista dovette emergere per le sue opere stravaganti, come lascerebbe intendere Morigia nel passo delle Storie di Milano citato poco sopra, in cui dice che a causa delle bizzarrie che l’Arcimboldo seppe realizzare, “il grido della sua fama volò sino nell’Alemagna”: forse, proprio le teste di Monaco di Baviera sono da includere nel novero delle “bizzarrie” milanesi capaci di far volare “il grido della sua fama”.

L'inizio della mostra
L’inizio della mostra. Ph. Credit Gallerie Nazionali d’Arte Antica


Giuseppe Arcimboldi, Autoritratto cartaceo
Giuseppe Arcimboldi, Autoritratto cartaceo (1587; tracce di matita, penna e inchiostro, pennello e inchiostro acquerellato, acquerello grigio su carta bianca controfondata; 442 × 318 mm, Genova, Gabinetto Disegni e Stampe di Palazzo Rosso)


Francesco Melzi (attribuito a), Due teste caricate (da Leonardo da Vinci)
Francesco Melzi (attribuito a), Due teste caricate (da Leonardo da Vinci) (Penna e inchiostro bruno, 43 × 103 mm; Montréal, Rolando Del Maestro)


Seguace di Leonardo da Vinci, Caricature
Seguace di Leonardo da Vinci, Caricature (Penna e inchiostro bruno, 202 × 150 mm; Montréal, Rolando Del Maestro)


Giuseppe Arcimboldi, l'Estate e l'Inverno di Monaco di Baviera
Giuseppe Arcimboldi, l’Estate e l’Inverno di Monaco di Baviera


Giuseppe Arcimboldi, L’Estate
Giuseppe Arcimboldi, L’Estate (1555-1560 circa; olio su tela, 68,1 × 56,5 cm; Monaco di Baviera, Bayerische Staatsgemäldesammlungen)


Giuseppe Arcimboldi, L’Inverno
Giuseppe Arcimboldi, L’Inverno (1555-1560 circa; olio su tavola, 67,8 × 56,2 cm; Monaco di Baviera, Bayerische Staatsgemäldesammlungen)


Giuseppe Arcimboldo, Santa Caterina viene condotta in carcere
Giuseppe Arcimboldi, Santa Caterina viene condotta in carcere (ante 1556; pannello di vetrata; Milano, duomo, vetrata di santa Caterina d’Alessandria)


Giuseppe Arcimboldi, Esecuzione di santa Caterina
Giuseppe Arcimboldi, Esecuzione di santa Caterina (ante 1556; pannello di vetrata; Milano, duomo, vetrata di santa Caterina d’Alessandria)


Giovanni Karcher su cartone di Giuseppe Arcimboldi, Dormitio Virginis
Giovanni Karcher su cartone di Giuseppe Arcimboldi, Dormitio Virginis (1561-1562; lana e seta, 423 × 470 cm; Como, Cattedrale)

La sala successiva è probabilmente la più evocativa della mostra, dal momento che i curatori l’hanno immaginata per dare al visitatore la sensazione di trovarsi all’interno di una delle sale del palazzo imperiale di Vienna, con i dipinti di Arcimboldo sulle pareti così com’erano stati immaginati. Troviamo dunque affiancati i quattro dipinti delle Stagioni e i quattro dipinti degli Elementi, tutte teste composte ottenute, nel primo caso, giustapponendo ortaggi, fiori e frutti delle rispettive stagioni dell’anno, e nel secondo caso oggetti o animali atti a richiamare l’idea di ciascuno dei quattro elementi. Certo: onde permettere tale ricostruzione è stato necessario far ricorso a singoli dipinti provenienti da cicli diversi, col risultato che i supporti sono diversi (vi troviamo, all’interno delle due serie, tele e tavole mescolate), che le dimensioni talvolta differiscono e non di poco, e che si registra qualche divagazione cronologica (per la Primavera s’è scelta la tavola di Monaco di Baviera che, come detto, sarebbe da ascrivere al primo periodo milanese). Ma è altrettanto vero che, in una mostra dotata di grande valore divulgativo, possiamo considerare pienamente accettabile una piccola concessione sul piano filologico se il fine è quello di ricostruire un contesto (uno dei punti di forza della rassegna è, del resto, la grande capacità di saper creare un appropriato contesto storico e culturale per ogni sala). Tra i dipinti figura l’Inverno del 1563, opera appartenente al ciclo delle Stagioni che l’artista eseguì subito dopo il suo arrivo a Vienna. Il pubblico non potrà far a meno d’apprezzare la straordinaria inventiva di Giuseppe Arcimboldi: l’Inverno è un vecchio realizzato a partire da un tronco d’albero spoglio, con rami secchi e foglie d’edera a formare i capelli, un fungo per le labbra, e una stuoia come veste. Allo stesso modo, la Primavera è composta dalle più belle e colorate varietà di fiori (rose, margherite, garofani, anemoni, nontiscordardimé e diversi altri: ne sono state individuate un’ottantina di varietà), l’Estate dai frutti e dagli ortaggi tipici della stagione (pesche, susine, ciliegie, cetrioli, e una veste formata da spighe di grano), mentre l’Autunno è una grande botte ricolma di funghi, uva e zucche. Questi dipinti, scrive Sylvia Ferino-Pagden, “sono una straordinaria combinazione di mimesi e fantasia: i due concetti fondamentali per l’invenzione artistica divulgati dai teorici dell’arte del Cinquecento”.

I letterati della corte imperiale probabilmente suggerirono a Massimiliano II d’integrare il ciclo delle Stagioni con quello degli Elementi, sulla base delle antiche teorie che associavano a ogni stagione dell’anno uno dei quattro elementi. Giuseppe Arcimboldi li eseguì affinché venissero posti ognuno di fronte alla propria stagione, come se i personaggi si stessero guardando: alla Primavera è associata l’Aria, un’ingegnosissima composizione di soli uccelli, l’Estate è contrapposta al Fuoco, risultante dall’unione di torce, fiaccole, lampade e altri strumenti, l’Autunno è situato di fronte alla Terra, che come l’Aria è composta da soli animali (cavalli, leoni, elefanti, pecore, cervi, cani, conigli, cinghiali e molti altri), e infine l’Inverno è abbinato all’Acqua, costituita da oltre sessanta specie di pesci e animali acquatici. Si tratta di composizioni interessanti non solo per la loro indiscutibile originalità, ma anche per altri aspetti meno noti ma che ne arricchiscono il senso: primo tra tutti, il fatto che gli Asburgo consideravano le teste composte serissime opere celebrative, che, per quanto scherzose, alludevano alle loro qualità di governanti, sulla base del principio del serio ludere evidentemente capace di trovare buona accoglienza alla corte imperiale. Il Fuoco porta dunque al collo il collare del Toson d’Oro, nell’Aria osserviamo l’aquila imperiale e il pavone, uccello che fa parte di alcuni stemmi dinastici degli Asburgo e, come suggerisce ancora la curatrice, “la varietà di specie animali e vegetali che convive armoniosamente nelle teste composte di Arcimboldo simboleggia la pace e la prosperità del regno di Massimiliano”. Un altro aspetto fondamentale consiste nel fatto che le teste composte richiedevano un accurato studio dei singoli elementi che le componevano: Giuseppe Arcimboldi ci ha lasciato in tal senso un buon numero di disegni di piante e animali, e nella sua attività di studio fu certo favorito dal clima della corte asburgica.

La sala delle stagioni
La sala delle stagioni. Ph. Credit Gallerie Nazionali d’Arte Antica


Giuseppe Arcimboldi, La Primavera
Giuseppe Arcimboldi, La Primavera (1555-1560 circa; olio su tavola, 68 × 56,5 cm; Monaco di Baviera, Bayerische Staatsgemäldesammlungen)


Giuseppe Arcimboldi, L’Estate
Giuseppe Arcimboldi, L’Estate (1572; olio su tela, 91,4 × 70,5 cm; Denver Art Museum Collection, lascito dal fondo Helen Dill, inv. 1961.56)


Giuseppe Arcimboldo, L’Autunno
Giuseppe Arcimboldo, L’Autunno (1572; olio su tela, 91,4 × 70,2 cm; Denver Art Museum Collection, lascito di John Hardy Jones, inv. 2009.729)


Giuseppe Arcimboldi, L’Inverno
Giuseppe Arcimboldi, L’Inverno (1563; olio su legno di tiglio, 66,6 × 50,5 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie, inv. GG 1590)


Giuseppe Arcimboldi (?), L’Aria
Giuseppe Arcimboldi (?), L’Aria (post 1566; olio su tela, 74 × 55,5 cm; Svizzera, collezione privata)


Giuseppe Arcimboldi (?), Il Fuoco
Giuseppe Arcimboldi (?), Il Fuoco (post 1566; olio su tela, 74 × 55,5 cm; Svizzera, collezione privata)


Giuseppe Arcimboldi, La Terra
Giuseppe Arcimboldi, La Terra (1566?; olio su tavola, 70,2 × 48,7 cm Vienna, Liechtenstein - The Princely Collections, inv. GE2508)


Giuseppe Arcimboldi, L’Acqua
Giuseppe Arcimboldi, L’Acqua (1566; olio su legno di ontano, 66,5 × 50,5 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie, inv. GG 1586)


L'Inverno e l'Acqua
L’Inverno e l’Acqua. Ph. Credit Finestre sull’Arte

Questo clima è ben rievocato nella sezione successiva, dedicata agli studi naturalistici e alle Wunderkammer. Il successore di Massimiliano II, Rodolfo II (Vienna, 1552 – Praga, 1612), spostò nel 1583 a Praga la capitale dell’impero e vi allestì un’imponente camera delle meraviglie nella quale raccolse oggetti provenienti da ogni angolo del mondo: strumenti, piante, animali, opere d’arte, cimeli, automi, e più questi oggetti erano strani o curiosi, maggiore era l’interesse che suscitavano nell’imperatore. L’uso delle Wunderkammer aveva la precisa finalità di dotare la corte d’un importante strumento di conoscenza che potesse assommare quanto di più vario esistesse al mondo, tanto che camere siffatte erano sempre affiancate da biblioteche, come notiamo osservando, in mostra, la Vista del Museo di Ferrante Imperato a Napoli, stampa che riproduce l’eccezionale Wunderkammer del naturalista partenopeo Ferrante Imperato (Napoli, 1550 – 1631). Nella biblioteche imperiale erano conservate le opere dei naturalisti, delle quali anche l’Arcimboldo poté giovarsi: la rassegna romana ne ospita alcuni esempî, a cominciare dalla Historia animalium di Conrad Gessner, uno dei maggiori scienziati della corte asburgica. Una parte della mostra prova peraltro a ricostruire un cabinet da camera delle meraviglie: vi troviamo eccentriche lampade a forma di testa di satiro, stranissime coppe create con noci di cocco, zanne di tricheco e mascelle di squalo, e l’immancabile rametto di corallo. Non è azzardato immaginare che anche qualche dipinto di Giuseppe Arcimboldi fosse destinato a una Wunderkammer, anche perché, scrivono Giuseppe Olmi e Lucia Tomasi Tongiorgi in catalogo, “i quadri delle teste di Arcimboldo erano oggetti quanto mai consoni alla ‘filosofia’ delle Wunderkammern: non solo in quanto genericamente ‘ghiribizzosi, e rari al mondo’, ma anche perché i soggetti naturalistici resi abilmente e realisticamente, cioè ‘cavati dal naturale’, dal pittore, li rendeva, in fondo, amalgami di arte e natura e infine compendi in spazio ridotto di realtà ampie e diversificate (la flora, la fauna acquatica e quella terrestre)”.

L’acume arcimboldesco trova poi una delle sue vette nelle cosiddette teste reversibili: composizioni che, viste da un lato, appaiono semplici nature morte di frutta e fiori, e se ribaltate diventano sorprendenti ritratti. Si tratta di opere evidentemente immaginate per suscitare stupore alle feste di corte, ma c’è anche altro: si tratta infatti di dipinti che contribuirono a definire il nascente genere della natura morta, e questo loro ruolo è ben sottolineato in mostra. Giuseppe Arcimboldi conobbe Giovanni Ambrogio Figino (Milano, 1553 – 1608), considerato l’inventore della natura morta, e Fede Galizia (Milano, 1578 - 1630), anch’ella abile pittrice di nature morte, le cui opere furono introdotte alla corte di Rodolfo II proprio dall’Arcimboldo: i legami con questi due importanti artisti potrebbero suggerirci un ruolo determinante del pittore milanese per la nascita del nuovo e fortunato genere pittorico. Un genere cui avrebbe guardato, qualche anno dopo, anche il grande Caravaggio, sicuramente incuriosito dalle opere di Arcimboldo e colleghi e affascinato dal loro spiccato senso per il naturalismo.

L’esposizione prosegue con l’auletta dedicata al “bel composto”, nella quale sono sistemate alcune opere di artisti che, recependo la lezione arcimboldesca o anticipandola, lavorarono di fantasia per dar vita a composizioni altrettanto originali: imperdibili il paesaggio antropomorfo di Wenceslaus Hollar, e soprattutto l’ironica e gustosa “testa di cazzi”, una ceramica, attribuita a Francesco Urbini (documentato negli anni Trenta del Cinquecento), raffigurante una testa composta esclusivamente da falli di varie dimensioni, accompagnata da pungente cartiglio che recita “ogni homo me guarda come fosse una testa de cazi”, e in anticipo sulle opere di Arcimboldo, dacché si tratta di un’opera del 1536, probabilmente eseguita per meri scopi burleschi. L’ultima sala è invece riservata alle cosiddette “pitture ridicole”, dirette discendenti delle teste grottesche di Leonardo da Vinci e di Francesco Melzi: si tratta ancora di teste composte, ma realizzate con intenti caricaturali. Così, se il Giurista, col suo volto formato da polli arrosto e pesci, si fa probabilmente beffe di Johann Ulrich Zasius, il rigido cancelliere di Massimiliano II, il Bibliotecario potrebbe prendere in giro lo storico Wolfgang Laz, con i tanti libri sovrapposti a voler dire che la sua produzione si sarebbe distinta più per quantità che per qualità. Anche la satira fu uno strumento che l’Arcimboldo seppe padroneggiare con destrezza.

La sezione sulla Wunderkammer
La sezione sulla Wunderkammer. Ph. Credit Gallerie Nazionali d’Arte Antica


Oggetti nel cabinet della Wunderkammer
Oggetti nel cabinet della Wunderkammer. Ph. Credit Finestre sull’Arte


In alto: Brocca con noce di cocco. In basso: Coppetta sferica con noce di cocco
In alto: Brocca con noce di cocco (secondo quarto del XVII secolo; noce di cocco, montatura in argento in parte dorato, altezza 31 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum, Kunstkammer, inv. KK 9047). In basso: Coppetta sferica con noce di cocco (XVII secolo; noce di cocco, montatura in argento, 10 × 8 cm; Collezione Koelliker, LKWA0002). Ph. Credit Finestre sull’Arte


Vista del Museo di Ferrante Imperato a Napoli
Vista del Museo di Ferrante Imperato a Napoli, in Ferrante Imperato, Dell’historia naturale…, Vitale, Napoli 1599 (Roma, Biblioteca Universitaria Alessandrina, Y.h.38)


Giuseppe Arcimboldi, L’Ortolano (Priapo) / Ciotola di verdure
Giuseppe Arcimboldi, L’Ortolano (Priapo) / Ciotola di verdure (1590-1593 circa; olio su tavola, 35,8 × 24,2 cm; Cremona, Museo Civico “Ala Ponzone”)


Fede Galizia, Natura morta
Fede Galizia, Natura morta (fine del XVI - inizi del XVII secolo; olio su tavola; Milano, collezione privata)


Wenceslaus Hollar, Paesaggio antropomorfo
Wenceslaus Hollar, Paesaggio antropomorfo (ante 1662; Acquaforte, 128 × 199 mm; Oxford, The Ashmolean Museum, lascito di Francis Douce, 1834, inv. WA1863.6452)


Francesco Urbini (attribuito a), Piatto con testa composta di falli
Francesco Urbini (attribuito a), Piatto con testa composta di falli noto anche come Testa di cazzi (1536; Maiolica, diametro 23,2 cm; Oxford, Ashmolean Museum, University of Oxford, inv. WA1863.3907)


Giuseppe Arcimboldi, Il Giurista
Giuseppe Arcimboldi, Il Giurista (1566; olio su tela, 64 × 51 cm; Stoccolma, Nationalmuseum)


Copia da Giuseppe Arcimboldi, Il Bibliotecario
Copia da Giuseppe Arcimboldi, Il Bibliotecario (olio su tela, 97 × 71 cm; Svezia, castello di Skokloster)

La mostra sull’Arcimboldo prosegue l’opera di ricollocazione critica dell’artista cominciata almeno a partire dalla doppia mostra di Vienna e Parigi nel 2008 e proseguita con la rassegna di Palazzo Reale a Milano nel 2011. Un’operazione che negli anni ha garantito a Giuseppe Arcimboldi un’eccezionale popolarità, testimoniata dal crescente numero di richieste di prestiti per mostre allestite nei luoghi più impensabili (per esempio, è adesso in corso una mostra su Arcimboldo anche in Spagna, a Bilbao). Anche per la mostra di Palazzo Barberini sono ovviamente del tutto assenti i legami col territorio, dacché Roma non comparve mai nel radar di Arcimboldo: semplicemente, l’artista sta sperimentando la sorte che tocca a tutti i grandi del passato che diventano vere star delle mostre, tant’è che la rassegna di Palazzo Barberini è, pur con qualche differenza, la stessa che è stata ospitata nell’estate del 2017 al Museo Nazionale di Arte Occidentale di Tokyo, che ha offerto il supporto alla realizzazione della mostra romana.

Mancano alcune opere che avrebbero potuto fornire un panorama più completo (su tutte, il celeberrimo Vertumno), ma i saggi del catalogo compensano ciò che manca nelle sale della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini (e del resto si può aggiungere che l’ultima mostra di grande respiro su Arcimboldo risale a sei anni fa, quindi aveva poco senso riproporla: quella di Roma è una rassegna più piccola, ma molto approfondita e interessante). Non ci sono novità scientifiche, ma la mostra si fonda su un ottimo progetto divulgativo che vede nel suo principale punto di forza la contestualizzazione storica e culturale di tutto il percorso: puntuali quasi tutti i confronti, accurate le informazioni offerte al visitatore, un percorso che non ha mai cedimenti di qualità. E malgrado si tratti d’una mostra su di un artista popolare, non si ha la sensazione di trovarsi a visitare un blockbuster: l’approccio è quello tipico di una mostra di ricerca, benché si tratti di un’esposizione divulgativa, la cui qualità è assicurata dal buon lavoro svolto dalla curatrice, grande esperta di Arcimboldo e direttrice della Pinacoteca del Kunsthistorisches Museum di Vienna, e dal comitato scientifico che raduna diversi studiosi del periodo. In definitiva, la mostra Arcimboldo unisce un suggestivo viaggio all’interno dell’ingegno e delle opere dell’artista milanese, esaltate da un allestimento moderno che garantisce una buona leggibilità, a un’immersione nella storia della cultura del tardo Cinquecento, raccontata in toni chiari e avvincenti: caratteristiche che concorrono a renderla una rassegna di sicuro fascino per ogni tipo di pubblico.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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