La mostra di Bernini alla Galleria Borghese di Roma, tra alti e bassi


Recensione della mostra 'Bernini' a Roma, Galleria Borghese, dal 1° novembre 2017 al 20 febbraio 2018.

Sono passati quattrocento anni esatti da quando un appena diciannovenne Gian Lorenzo Bernini (Napoli, 1598 - Roma, 1680) consegnò, al cardinal Maffeo Barberini, il futuro papa Urbano VIII, il San Sebastiano oggi al Thyssen-Bornemisza di Madrid: tanto giovane era l’artista, che fu il padre a dover riscuotere il pagamento. “A dì 29 dicembre scudi cinquanta moneta buoni al sudetto [Pietro Bernini] pagati per prezzo di una statua di marmo bianco di un san Bastiano”: così recita, in maniera inequivocabile, il documento rinvenuto nel 1998 che ha permesso di datare l’opera in seguito finita in Spagna, nonché di confermarne senza dubbio alcuno la committenza barberiniana. È invece trascorso un ventennio dal giorno d’inizio estate in cui il luogo che accoglie la più alta e densa concentrazione mondiale d’opere berniniane, ovvero la Galleria Borghese di Roma, riaprì i battenti dopo un lungo restauro che per sedici anni l’aveva tenuto chiuso. Naturale, dunque, attendersi che questo doppio anniversario venisse celebrato nella maniera più acconcia: una grande mostra su Bernini, che giunge nelle sale della Galleria Borghese vent’anni dopo la mostra sul Bernini giovane allora organizzata al fine di festeggiare la riapertura di quella che fu un tempo la residenza del cardinal Scipione Borghese.

Una mostra su Bernini è probabilmente l’unica che abbia senso allestire nei pressoché intatti locali della Borghese, che negli ultimi anni ci ha peraltro abituati ad azioni alquanto arrischiate, tra sussiegose esibizioni d’abiti di stilisti à la page, improbabili confronti tra artisti antichi e artisti moderni, esposizioni di singoli capolavori, straordinari ma lontanissimi per ambiente storico e culturale dal contesto della storica dimora romana. Certo: il problema di qualunque mostra allestita nella Galleria (un problema dal quale anche le mostre più necessarie e scientificamente fondate non sono esenti) è rappresentato dalla difficoltà di far coesistere le ragioni pratiche e logistiche d’una mostra con gli ambienti storici della Galleria dacché, da una parte, ogni operazione provvisoria finirebbe con l’alterare il delicato equilibrio storico-artistico della Borghese, e dall’altra l’esposizione, al fine d’esser la meno possibile invasiva nei confronti della Galleria stessa, potrebbe esser costretta a rinunciare alla coerenza del proprio percorso. Diverso, almeno per certi aspetti, il discorso per una mostra dedicata a Bernini: gran parte del materiale su cui impostare il discorso è già presente nella Galleria, tanto che le immagini più spettacolari diffuse per presentare l’evento al pubblico, altro non sono che le immagini dei più significativi capolavori della collezione permanente. E ci saremmo invero stupiti del contrario.

Eppure, anche la mostra Bernini (questo il laconico titolo, forse giustificato dal fatto che, dinnanzi a un nome simile, non occorre aggiungere altro) presenta quei limiti coi quali ogni rassegna allestita alla Galleria Borghese deve necessariamente misurarsi. S’aggiunga poi la perplessità suscitata da alcuni passaggi, dei quali si dirà meglio nel prosieguo del presente contributo, e s’arriverà alla conclusione che, forse, presentare al pubblico una straordinaria ed eccezionale parata di capolavori come quella abilmente e intelligentemente raccolta grazie al lavoro dei curatori Andrea Bacchi e Anna Coliva, non è condizione sufficiente per lasciar uscire il visitatore senza qualche dubbio di troppo sull’efficacia e la coerenza della rassegna. Se volessimo utilizzare un superlativo tanto elementare quanto efficace, potremmo definir la mostra “bellissima”: ci sono quasi tutti i capolavori amovibili del grande artista che inaugurò la stagione barocca, e merito ulteriore dei curatori è stato quello d’estendere gli argomenti della mostra a includere degli approfondimenti sul padre di Gian Lorenzo, Pietro Bernini (Sesto Fiorentino, 1562 - Roma, 1629), la cui fortuna critica parrebbe essere in costante ascesa. Tuttavia, per quanto la mole di capidopera abbia mosso tutti noi a espressioni di gioioso stupore, è necessario domandarsi se le emozioni che indubbiamente si provano di fronte a opere simili riescano a emendare le tortuosità d’un percorso talvolta poco soddisfacente.

Galleria Borghese, ingresso allestito per la mostra Bernini
Galleria Borghese, ingresso allestito per la mostra Bernini


Prima sala della mostra Bernini alla Galleria Borghese
Prima sala della mostra Bernini alla Galleria Borghese


La sala con i bozzetti della Fontana dei Fiumi: evidente lo stridore degli allestimenti col contesto
La sala con i bozzetti della Fontana dei Fiumi: evidente lo stridore degli allestimenti col contesto

L’esposizione prende il via dal salone con gli affreschi di Mariano Rossi, all’interno del quale è stata allestita una grande sezione sulla primissima attività di Gian Lorenzo: nella fattispecie, questa parte della rassegna intende illustrare l’apprendistato col padre Pietro, esponendo diverse delle sculture che padre e figlio realizzarono assieme, benché non manchino lavori eseguiti da Pietro solo. Si comincia col Satiro a cavallo di una pantera, una scultura da giardino in marmo che fu commissionata all’artista dalla famiglia Corsi di Firenze, e che finì poi sul mercato antiquario (oggi è conservata a Berlino): il movimento a spirale di questo gruppo, che doveva adornare una fontana, è ancora legato a schemi manieristi cui anche il giovane Gian Lorenzo, nelle imprese realizzate assieme al padre, non può in alcun modo sottrarsi. Ne è un chiaro esempio un’opera sarcastica e divertente come il Fauno molestato dai putti (imperdibile il dettaglio del putto che infastidisce il satiro facendogli la linguaccia), la cui assegnazione alla mano di Pietro e Gian Lorenzo Bernini fu merito di Federico Zeri, dopo che, in asta, era passata dapprima come anonima scultura della seconda metà del Cinquecento, quindi come opera ottocentesca. Complicato lavoro che trasuda virtuosismo da ogni suo singolo brano (stupefacente l’alternarsi di pieni e vuoti che quasi disorienta l’osservatore) e anch’esso, come il Satiro a cavallo di una pantera, pensato per esser visto da ogni angolazione possibile, presenta non poche difficoltà nell’individuazione delle mani dei due artisti, argomento sul quale s’è a lungo dibattuto senza però arrivare a conclusioni definitive: la scultura, debitrice tanto nei confronti della tradizione antica quanto del classicismo carraccesco, dimostra un’invenzione ancora legata a stilemi tardocinquecenteschi, ma al contempo manifesta una straordinaria vitalità che sarà propria delle sculture di Gian Lorenzo e che, assieme ad altri particolari (i pannelli in sala ci invitano a osservare la resa del tronco e delle epidermidi, per esempio, ma si potrebbero aggiungere anche il movimento degli arti e le diagonali su cui è impostata la composizione), tradisce la presenza dello scultore, che all’epoca aveva attorno ai diciassette anni.

Parimenti frutto della collaborazione tra Bernini senior e Bernini iunior è il ciclo delle stagioni Aldobrandini, realizzato attorno al 1620, almeno secondo la non recentissima ipotesi di Andrea Bacchi che, pur senza l’approvazione unanime della critica a causa dei riferimenti troppo vaghi del documento, ha voluto collegare le opere a un pagamento corrisposto nel 1622 da Leone Strozzi, esponente della nota famiglia fiorentina, che risulterebbe così essere il committente. Questione comunque di pochi anni, dal momento che, prima del rinvenimento della nota, la critica era solita datare all’incirca al 1615 le Stagioni Aldobrandini, anch’esse sorprendenti per la vivacità e l’originalità di alcune invenzioni: il visitatore non potrà cancellare il ricordo dell’Inverno, avvolto in un pesante mantello di montone e col capo coperto da un ampio copricapo, al punto che riusciamo a scorgere della figura soltanto gli occhi. Un “pastore della campagna romana”, come l’aveva ribattezzato Federico Zeri, “a mezza via tra il burino e i prigioni con berretto frigio dell’arco di Settimio Severo”: è opera da ascrivere a Pietro Bernini. Se l’Estate, goffa e pesante, è la meno riuscita delle quattro sculture che compongono la serie, altrettanto non si può dire della Primavera e dell’Autunno, entrambe opere che gli studiosi hanno ritenuto eseguite a quattro mani (e fu ancora Zeri a lanciare per primo questa proposta): straordinario il bouquet che la Primavera tiene in mano e i cui fiori scendono a ornare il toro ai suoi piedi, ardita la posa dell’Autunno, col braccio che sorregge un inverosimile festone che diventa una sorta di pergolato che fa quasi sembrare il personaggio una sorta di stravagante architettura e ci porta a tentare paragoni con il Fauno del Metropolitan. Questo primo confronto tra Pietro e Gian Lorenzo è uno dei principali motivi d’interesse della mostra: il pubblico ha l’opportunità di seguire il giovane Gian Lorenzo nelle sue prime opere assieme al padre, riesce a individuare con certa facilità i motivi che ne identificano le rispettive personalità, e con la continuazione del percorso ha modo di vedere, con opere disposte entro una buona e graduale progressione, il modo in cui il figlio riuscirà a superare il padre. E per gli studiosi, la possibilità d’operare confronti diretti tra opere altrimenti conservate in musei lontani tra loro.

Stride invece la presenza, in questa prima sezione, della Verità svelata, opera della maturità di Gian Lorenzo per l’occasione spostata di qualche sala, e soprattutto della Santa Bibiana, che oltre a esser fuori dai confini cronologici della sezione (è infatti opera della metà degli anni Venti, e forse si trova nel primo salone, assieme alla Verità, perché i locali della Borghese non avrebbero permesso soluzioni diverse) si trova anche fuori contesto, poiché la scultura è conservata nella chiesa di Santa Bibiana a Roma, che dista tre chilometri dalla Galleria Borghese e che rappresenta il luogo per il quale l’opera fu concepita: si potrà poi giustificare la presenza in mostra per via del recente restauro cui l’opera è stata sottoposta (stante l’ormai consolidata usanza d’avviare importanti campagne di restauro in prossimità di mostre), e di sicuro l’importanza dell’evento viene accresciuta dalla possibilità d’ospitare la prima opera pubblica eseguita da Gian Lorenzo Bernini, con la quale si registra un notevole cambio di registro stilistico, improntato sulla resa dei sentimenti e su quei panneggi mossi e quasi vibranti che diverranno una costante dell’arte berniniana, ma forse la mostra non avrebbe risentito d’una presenza della Santa Bibiana all’interno della sua chiesa. È sempre questione di sottili equilibrî.

Pietro Bernini, Satiro a cavallo di una pantera
Pietro Bernini, Satiro a cavallo di una pantera (1595-1598; marmo, 138 x 80 x 85 cm; Berlino, Staatliche Museen zu Berlin, Skulpturensammlung und Museum für Byzantinische Kunst)


Pietro e Gian Lorenzo Bernini, Fauno molestato da putti
Pietro e Gian Lorenzo Bernini, Fauno molestato da putti (1615 circa; marmo, 132,4 x 73,7 x 47,9 cm; New York, The Metropolitan Museum of Art)


Pietro e Gian Lorenzo Bernini, Primavera
Pietro e Gian Lorenzo Bernini, Primavera (1620 circa; marmo, 125 x 34 x 39,5 cm; Collezione privata)


Pietro Bernini, Estate
Pietro Bernini, Estate (1620 circa; marmo, 126 x 38 x 35 cm; Collezione privata)


Pietro e Gian Lorenzo Bernini, Autunno
Pietro e Gian Lorenzo Bernini, Autunno (1620 circa; marmo, 127 x 47 x 50 cm; Collezione privata)


Pietro Bernini, Inverno
Pietro Bernini, Inverno (1620 circa; marmo, 127 x 50 x 37 cm; Collezione privata)


Gian Lorenzo Bernini, Santa Bibiana
Gian Lorenzo Bernini, Santa Bibiana (1624-1626; marmo, 185 x 86 x 55 cm Roma, Santa Bibiana)

Nella Sala del Sileno, quella che abitualmente ospita le opere di Caravaggio, il pubblico incontrerà altre notevoli e fondamentali opere giovanili di Bernini: una di queste è proprio quel San Sebastiano di cui si diceva in apertura, colto nell’atto d’abbandonarsi, col suo corpo così finemente modellato, al deliquio provocato dalle frecce che, stando alle agiografie, non lo uccideranno, ma si limiteranno a ferirlo. In mostra l’opera viene presentata come la “prima statua compiutamente barocca della storia dell’arte”, affermazione di certo non incontrovertibile, dacché altri studiosi hanno spesso dimostrato sentimenti differenti (per esempio, qualche anno fa Francesco Petrucci, uno degli autori dei saggi in catalogo, attribuiva il primato al San Longino della basilica di San Pietro): ad ogni modo, il San Sebastiano è opera in cui s’apprezza la già trovata autonomia dai modelli paterni, con l’intensità di quel molle abbandono e con la delicatezza del modellato (quasi correggesco o baroccesco, come hanno sottolineato diversi studiosi) che riescono a superare definitivamente la lezione di Pietro. Il ricorso a una scultura caratterizzata da quel forte impatto emozionale che sarà tipico del barocco è ormai pieno nell’Anima beata e soprattutto nell’Anima dannata, con il volto di quest’ultima sconvolto da un urlo più belluino che umano: un’opera che va oltre il mero coinvolgimento del senso della vista (sembra quasi di udirlo, quel grido straziante), che Bernini probabilmente modellò ponendosi di fronte a uno specchio a mimare l’espressione del suo terribile personaggio, e che Cesare Brandi suggeriva d’accostare alle sperimentazioni naturalistiche di Caravaggio (come la Medusa oggi agli Uffizi, che poté costituire un precedente per l’Anima dannata).

Con la Sala Egizia si torna a indagare il rapporto tra Pietro e Gian Lorenzo con il Putto sopra a un drago, che arriva dal Getty Museum di Los Angeles, e soprattutto con la celeberrima Capra Amaltea, la scultura che raffigura il mitologico animale che allattò Zeus sul monte Ida: nel percorso della mostra viene assegnata a un giovanissimo Gian Lorenzo, con datazione anteriore al 1615, ma il visitatore è comunque informato dei dubbî sull’attribuzione della scultura a causa della difficoltà di conciliazione con le altre opere giovanili dell’artista. La scheda di catalogo redatta da Stefano Pierguidi illustra con maggior dovizia come "il carattere quasi sgrammaticato di certi passaggi della Capra, in particolare i capelli dei due putti, si spiegherebbe con l’inesperienza del giovanissimo Gian Lorenzo, magari davvero lasciato completamente da solo dal padre Pietro a maneggiare quel pezzo che doveva mostrarne a Scipione [Borghese] il genio precocissimo". Se dunque molti hanno accolto l’ipotesi di un’opera riferibile alla mano d’un Gian Lorenzo bambino e databile al 1609 circa, Andrea Bacchi s’è addirittura spinto ad avanzare perplessità sull’autografia del gruppo, tanto più che in antico la Capra figurava come scultura anonima: questa incertezza non è stata tuttavia sufficiente a impedire che la Capra non figurasse, in mostra, con l’ormai consueta attribuzione a Gian Lorenzo.

Quanto alla sezione sui restauri, occorre segnalare la presenza dell’Ermafrodito, che torna a Roma proprio nella sala in cui si trovava prima d’esser venduto agli occupanti francesi che lo portarono poi a Parigi (è oggi conservato al Louvre): il soffice materasso in marmo bianco di Carrara, donato all’antica scultura risalente al secondo secolo dopo Cristo, è opera del giovane Bernini (risale al 1620), che con tale inserto compì certo un’operazione ardita, ma seppe aumentare la grande sensualità che caratterizza la scultura. Superata la Sala dell’Ermafrodito, ci si può gettare in quel tripudio berniniano che sono le sale in cui sono conservati i gruppi borghesiani, icastiche icone dell’indiscutibile genio berniniano: in rapida successione, l’Enea e Anchise, il Ratto di Proserpina, l’Apollo e Dafne, il David. L’Enea e Anchise (1618-1619) è opera che palesa suggestioni raffaellesche (il riferimento è alla Stanza dell’Incendio di Borgo, ma torna anche un certo legame coi modi del padre nel movimento a spirale dei protagonisti) e che viene posta in un suggestivo dialogo con la Fuga di Enea da Troia di Federico Barocci, solitamente esposta in pinacoteca: primo dei gruppi scultorei commissionati a un Bernini allora ventenne dal cardinale Scipione Borghese, sarà seguito a stretto giro dal Ratto di Proserpina (1621-1622), ancora memore di virtuosismi manieristi, opera davanti alla quale si perde la cognizione del tempo, e scultura che lascia sempre sbalorditi, ogni volta che la si ammira, per la morbidezza del marmo che si fa carne viva e pulsante. Si giunge poi alla sala dove troviamo l’Apollo e Dafne (1622-1625), opera in cui la teatralità barocca giunge alle sue forme più alte e dove il dramma, al pari del Ratto di Proserpina, tocca la sua acme più emozionante, e s’arriva infine al David (1623-1624), diversissimo da tutti quelli che l’avevano preceduto in quanto colto in un attimo, in una frazione di secondo, nella tensione d’un momento preciso. E alla fine del percorso, le due opere di Pietro che incontriamo nella Sala della Paolina, l’Andromeda e la Virtù che sottomette il vizio, totalmente fuori posto a meno che non si voglia compiere un percorso forzato tra le sale, faticano non poco a tenere il passo.

Gian Lorenzo Bernini, San Sebastiano
Gian Lorenzo Bernini, San Sebastiano (1615; marmo, 98 x 42 x 49 cm; Madrid, Collezione privata in deposito al Museo Thyssen-Bornemisza)


Gian Lorenzo Bernini, Anima Beata
Gian Lorenzo Bernini, Anima Beata (1619; marmo, 38 cm senza base, base di giallo antico 19 cm; Roma, Ambasciata di Spagna presso la Santa Sede, Palazzo di Spagna)


Gian Lorenzo Bernini, Anima Dannata
Gian Lorenzo Bernini, Anima Dannata (1619; marmo, 38 cm senza base, base di giallo antico 19 cm; Roma, Ambasciata di Spagna presso la Santa Sede, Palazzo di Spagna)


Gian Lorenzo Bernini, La Capra Amaltea
Gian Lorenzo Bernini, La capra Amaltea (prima del 1615; marmo, 45 x 60 cm; Roma, Galleria Borghese)


Gian Lorenzo Bernini, Materasso dell'Ermafrodito
Gian Lorenzo Bernini, Materasso dell’Ermafrodito (1620; marmo di Carrara, 16 x 169 x 89 cm; Parigi, Musée du Louvre)


Gian Lorenzo Bernini, Enea e Anchise
Gian Lorenzo Bernini, Enea, Anchise e Ascanio fuggono da Troia (1618-1619; marmo, 220 x 113 cm, misura base 99 x 79 cm; Roma, Galleria Borghese)


Gian Lorenzo Bernini, Ratto di Proserpina
Gian Lorenzo Bernini, Ratto di Proserpina (1621-1622; marmo, 255 x 109 cm; Roma, Galleria Borghese)


Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne
Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne (1622-1625; marmo, 243 cm esclusa la base di cm 115, base 130 x 88 cm; Roma, Galleria Borghese)


Gian Lorenzo Bernini, David
Gian Lorenzo Bernini, David (1623-1624; marmo, 170 x 103 cm; Roma, Galleria Borghese)


Pietro Bernini, Andromeda
Pietro Bernini, Andromeda (1610-1615 circa; marmo, 105 x 45 x 38 cm; Bergamo, Accademia Carrara)

Le scale che conducono al piano superiore, quello della pinacoteca, ci consentono di riorganizzare le idee e di prepararci alla sfilata di busti e di dipinti che troviamo nella Loggia di Lanfranco. Difficile dar conto di tutta la poderosa serie di ritratti che i curatori hanno, con gran merito, portato alla Galleria Borghese, ma è possibile partire da un’interessante osservazione di Francesco Petrucci nel suo saggio a catalogo. Lo studioso, in particolare, suggerisce di suddividere in tre grandi gruppi i ritratti di Gian Lorenzo Bernini: “una prima tipologia corrisponde ai busti giovanili, ove prevale una preoccupazione per la verosimiglianza e la conformità al naturale; una seconda è incentrata sulla ricerca di istantaneità e di turbamento emozionale; una terza persegue una dimensione extratemporale di superiore dignità del soggetto, approdando alla cosiddetta ’maniera grande’”. Alla prima fattispecie si può far appartenere il Busto di Antonio Cepparelli (1622-1623), nel quale un Bernini ventiquattrenne si preoccupa di rendere il suo soggetto nel modo più possibile aderente alla realtà. Alla seconda ascriviamo invece una delle più emozionanti opere della mostra, il Ritratto di Costanza Bonarelli (1635 circa): la giovane, nata Piccolomini, aveva sposato lo scultore lucchese Matteo Bonarelli, ma era diventata amante di Gian Lorenzo e al contempo di suo fratello Luigi, situazione che comportò un’accesa lite tra i due e che finì per degenerare in modo violento (Bernini ordinò a un suo servitore di sfregiare la povera Costanza). Tuttavia, quando ancora le cose tra i due amanti filavano per il verso giusto, Gian Lorenzo raffigurò Costanza in uno dei ritratti più sensuali di tutta la storia dell’arte: la ragazza è visibilmente emozionata, i capelli spettinati, la camicia generosamente aperta, quasi che la giovane si stia appena rivestendo dopo un incontro amoroso. Un ritratto vivo, colmo d’una passione sincera e diretta, che rappresenta uno degli apici dell’intera produzione berniniana. Infine, nel terzo gruppo possiamo inserire il busto del cardinale Richelieu (1640-1641) che, eseguito a partire da un dipinto, mostra quel carattere solenne tipico della ritrattistica più tarda di Bernini. Accanto ai busti è poi esposta una serie di dipinti di Bernini, su alcuni dei quali però la critica è in disaccordo nel riconoscere la paternità al grande artista.

Le ultime due sale sono quelle che forse meglio ci rendono consci di tutta l’inadeguatezza della Galleria Borghese come sede di mostre temporanee. La Sala di Elena e Paride ospita i bozzetti e i modelli della Fontana dei Fiumi, unica sezione dedicata alle grandi opere pubbliche dell’artista: le opere sono state posizionate al centro esatto della sala, col risultato che i preziosi modelli finiscono per disturbare la visione dei capolavori presenti nell’ambiente, primo tra tutti la mai troppo lodata Caccia di Diana del Domenichino. E lo stesso vale per la Sala di Psiche, dove l’Amor sacro e Amor profano di Tiziano è quasi ridotto a quinta dell’allestimento che fa conoscere al pubblico l’ultimo Bernini. Sono quattro le opere esposte in questa sala: i due crocifissi, quello dell’Escorial (1654-1657) e quello in bronzo della Art Gallery of Ontario di Toronto (1659 circa), e i due busti del Salvator Mundi, quello di San Sebastiano fuori le mura e quello di Norfolk (1679). Questo doppio confronto, al netto dello stridore con il contesto che lo ospita, è di sicuro uno dei punti più alti della mostra: dal confronto tra i due crocifissi esce nettamente vincitore quello dell’Escorial, un conclamato autografo berniniano, al confronto di quello di Toronto che invece evidenzia un modellato decisamente più debole, tanto da aver condotto alcuni storici dell’arte a dubitare dell’autografia berniniana. Le mostre, del resto, servono anche a mettere in scena confronti simili onde offrire agli studiosi contributi per provare a chiarire questioni particolarmente spinose: e spinosissima è quella che riguarda il Salvator Mundi, dal momento che le fonti parlano d’un Salvatore che lo scultore donò alla regina Cristina di Svezia, e si è a lungo ritenuto che tale opera fosse il busto di Norfolk. La scoperta, nel 2001, del busto di San Sebastiano, ha avuto l’effetto di dividere la critica tra quanti sostengono la paternità totalmente berniniana del Salvatore di Norfolk, e quanti invece affermano il contrario: la mostra sembra dar credito alla teoria della paternità berniniana del busto romano, ponendo invece un punto interrogativo accanto a quello inglese.

Ripercorrendo a ritroso le sale della pinacoteca, si può terminare il discorso con la Sala di Ercole, dove trovano spazio numerosi bozzetti per illustrare al visitatore il “mestiere dello scultore”: modelli in cartapesta, in cera, in bronzo, in terracotta e in legno erano fondamentali per fissare un’idea e per avere un quadro chiaro degli aspetti tecnici da affrontare durante l’esecuzione dell’opera finita. “Quello che contava al di sopra di tutto”, scrive Maria Giulia Barberini nel suo saggio dedicato proprio al mestiere dello scultore, “era il concetto, l’intuizione, l’idea illuminante. Un concetto che pone la ’totalità e integralità’ della produzione di Bernini nel pieno sviluppo dell’immaginazione risolta in forme derivate dalla tradizione per raggiungere innovazioni fantastiche, o anche propriamente tecniche, il cui obiettivo era comunque l’unità delle arti visive”. Tra i modelli che troviamo nella sala figura anche quello, in terracotta, per il San Longino, la prima opera colossale di Gian Lorenzo Bernini, che risultò dall’assemblaggio di quattro diversi blocchi di marmo, uniti per mezzo di perni: il modello proveniente dal Museo di Roma, coi suoi tagli netti all’altezza delle giunture, mostra le porzioni da unire così come Bernini le aveva immaginate.

Il salone dei busti
Il salone dei busti


Gian Lorenzo Bernini, Busto di Antonio Cepparelli
Gian Lorenzo Bernini, Busto di Antonio Cepparelli (1622-1623; marmo, 70 con peduccio x 60,5 x 28,5 cm; Roma, Museo di Arte Sacra San Giovanni dei Fiorentini)


Gian Lorenzo Bernini, Costanza Piccolomini Bonarelli
Gian Lorenzo Bernini, Costanza Piccolomini Bonarelli (1635 circa; marmo, 74,5 x 64,2 x 5 cm; Firenze, Museo Nazionale del Bargello)


Gian Lorenzo Bernini, Busto del cardinale Armand-Jean du Plessis, duca di Richelieu
Gian Lorenzo Bernini, Busto del cardinale Armand-Jean du Plessis, duca di Richelieu (1640-1641; marmo, 83 x 70 x 32 cm; Parigi, Musée du Louvre)


L'autoritratto di Gian Lorenzo Bernini e il busto di Costanza Bonarelli
L’autoritratto di Gian Lorenzo Bernini e il busto di Costanza Bonarelli


Gian Lorenzo Bernini, Cristo crocifisso
Gian Lorenzo Bernini, Cristo crocifisso (1654 - 1657; bronzo, 145 x 119 x 34 cm; Madrid, Colecciones Reales, Patrimonio Nacional, Real Monasterio)


Gian Lorenzo Bernini, Cristo crocifisso
Gian Lorenzo Bernini, Cristo crocifisso (1659 circa; bronzo, 174 x 120,7 x 36,8 cm; Toronto, Art Gallery of Ontario)


Gian Lorenzo Bernini?, Busto del Salvator Mundi
Gian Lorenzo Bernini?, Busto del Salvator Mundi (1679 circa; marmo, 96,5 x 79 x 28 cm, base 29 x 44,5 x 44, 5 cm; Norfolk, Chrysler Museum of Art)


Gian Lorenzo Bernini, Busto del Salvator Mundi
Gian Lorenzo Bernini, Busto del Salvator Mundi (1679; marmo, 103 x 100 x 48,5 cm; Roma, San Sebastiano fuori le Mura)


La sala dedicata al mestiere dello scultore
La sala dedicata al mestiere dello scultore


Gian Lorenzo Bernini, San Longino
Gian Lorenzo Bernini, San Longino (1633 - 1635; modello in terracotta, 48,5 x 20 cm; Roma, Museo di Roma)

La mostra si muove quindi tra alti (i capolavori, alcuni approfondimenti tematici come quello sulla produzione giovanile e sul mestiere dello scultore, i busti, i confronti dell’ultima sala) e bassi (le interferenze con le opere della collezione permanente, la sezione sulla pittura, lo stacco troppo netto tra le sale del pianterreno e quelle della pinacoteca, i passaggi poco coerenti del percorso, dovuti alla conformazione della Galleria): tuttavia, è anche vero che ripercorrere la carriera di Bernini avendo a disposizione il patrimonio della Galleria Borghese è occasione davvero oltremodo interessante, specie se il percorso può contare su molti dei lavori fondamentali per comprendere la poetica dell’eccelso scultore che inaugurò la stagione del barocco, del grande virtuoso che ha contribuito a definire per sempre il profilo di Roma, dell’illustre scultore che Maffeo Barberini definì “uomo raro, ingegno sublime, e nato per disposizione divina, e per gloria di Roma a portar luce al secolo”.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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