di
Federico Giannini
(Instagram: @federicogiannini1), scritto il 07/01/2018
Categorie: Recensioni mostre / Argomenti: Ottocento - Neoclassicismo - Venezia - Arte antica
Recensione della mostra 'Canova, Hayez e Cicognara. L'ultima gloria di Venezia' alle Gallerie dell'Accademia di Venezia fino all'8 luglio 2018.
Il modo più interessante, pregevole e proficuo per celebrare l’anniversario della fondazione d’un museo è quello di ripercorrerne i primi anni di storia attraverso una mostra sensata, lontana da qualsivoglia intento futilmente retorico, allestita su di un percorso capace d’essere anche altamente comunicativo nei confronti del grande pubblico atteso a visitarla, e per giunta forte d’un messaggio che si contraddistingue per la sua urgente attualità. Tale è la portata di Canova, Hayez e Cicognara. L’ultima gloria di Venezia, la rassegna che cade nel bicentenario delle Gallerie dell’Accademia di Venezia e della quale il pubblico si può giovare fino al 2 aprile prossimo. L’eccezionale trio che compare nel titolo, apparente concessione a una moda che vuole nelle titolazioni i nomi dei più grandi a puntellare l’impalcatura della mostra, in realtà funge da mappa che consente al visitatore d’orientarsi tra i temi dell’esposizione, fissando i punti attorno ai quali ruota il progetto scientifico curato da Paola Marini, Fernando Mazzocca e Roberto De Feo.
Antonio Canova (Possagno, 1757 - Venezia, 1822): uno dei protagonisti del recupero delle opere uscite dall’Italia durante le spoliazioni napoleoniche, il più celebrato artista del suo tempo, il grande animatore dei primi anni di vita delle Gallerie dell’Accademia. Leopoldo Cicognara (Ferrara, 1767 - Venezia, 1834): il raffinato intellettuale che, da presidente dell’istituto nei primi anni di vita, più d’ogni altro seppe dar corpo all’ambizioso sogno di far rinascere le arti dopo uno dei periodi più convulsi della storia veneziana. Francesco Hayez (Venezia, 1791 - Milano, 1882): l’astro nascente, il giovane di grandi speranze su cui Canova e Cicognara puntarono (con felice intuito, dati i risultati che dalla loro azione sarebbero sortiti) onde dar slancio al loro progetto. Né l’artista né l’intellettuale, infatti, s’adagiarono sui fasti della Venezia che fu: il disegno della loro Galleria prevedeva che, accanto a un momento per la conservazione, ci fosse anche un momento per il sostegno all’arte contemporanea. L’arte antica, in altri termini, era vista come linfa e nutrimento per l’arte contemporanea, che nei pressi del museo si produceva e tuttora si produce: le Gallerie nacquero infatti in seno all’Accademia di Belle Arti di Venezia (che anche al giorno d’oggi continua ad aver sede non lontano da qui), e la stessa collezione delle Gallerie inizialmente s’arricchì d’opere degli allievi dell’Accademia, oltre che di artisti contemporanei cui era dedicata un’apposita sala. Per le Gallerie, Cicognara immaginò una doppia funzione, l’una riservata agli studenti, che tramite gli esempî antichi potevano consolidare le proprie abilità e le proprie conoscenze, e l’altra al pubblico: le Gallerie erano state infatti concepite col preciso intento d’esser aperte alle visite da parte di qualsiasi cittadino, dato che il grande teorico aveva ben chiaro quale fosse il ruolo dell’arte per la formazione del senso civico.
L’operato di Cicognara era animato da convinzioni illuministiche: dopo il Congresso di Vienna e il ritorno in città d’alcune delle opere più simboliche tra quelle che i francesi avevano condotto a Parigi dopo aver causato, nel 1797, la fine della millenaria Repubblica, Venezia si trovò con un’ingente mole d’opere d’arte, provenienti per la più parte da chiese ed edificî appartenenti agli ordini ecclesiastici soppressi durante l’occupazione francese, alle quali occorreva dare una nuova vita. Dipinti, disegni, sculture, libri trovarono sistemazione nel complesso dell’antica Scuola della Carità, antica proprietà del soppresso ordine dei Canonici Lateranensi che fu individuata come sede delle Gallerie dell’Accademia: queste ultime aprirono le porte al pubblico nel 1817. Per i veneziani fu un evento significativo che, in certo modo, andava a rinvigorire gli animi dopo la caduta della Repubblica: caduta che, peraltro, Canova non perdonò mai a Napoleone, malgrado il futuro imperatore l’avesse chiamato in Francia ad eseguire il suo ritratto, quand’era ancora primo console. Scriveva Antonio D’Este, uno dei primi biografi del grande scultore di Possagno: “Maggior dolore provò per il trasporto dei cavalli di Venezia e della sovversione di quell’antica repubblica, dicendo al primo console, che quelle erano cose che l’avrebbero afflitto tutto il tempo di sua vita”.
|
L’ingresso delle Gallerie dell’Accademia di Venezia in occasione della mostra Canova, Hayez e Cicognara. L’ultima gloria di Venezia |
|
L’ingresso della mostra |
|
La prima sala della mostra |
Il racconto dell’esposizione s’apre proprio con l’importante episodio del ritorno dei cavalli bronzei di San Marco, rimossi dalla Basilica il 13 dicembre del 1797 e in seguito tradotti in Francia per esser dapprima collocati all’ingresso delle Tuileries e successivamente issati sulla sommità dell’Arc de Triomphe du Carrousel. I quattro grandi cavalli erano comunque a loro volta un bottino di guerra, dacché i veneziani li avevano sottratti nel 1204, nel corso della quarta crociata, a Costantinopoli (risalenti all’antichità classica, benché gli studiosi non siano concordi sulla datazione, i cavalli erano stati pensati per l’ippodromo di quella che diventò la capitale dell’Impero d’Oriente), ma la loro partenza per Parigi era vista come un intollerabile smacco, e il loro ritorno in laguna era considerato un’assoluta priorità. Così, a seguito della definitiva sconfitta di Napoleone, il governo austriaco poté offrire il suo sostegno alla città e, con cerimonia solenne celebrata nel 1815 (nella simbolica data del 13 dicembre), i cavalli furono nuovamente collocati sulle terrazze di San Marco. Le opere in mostra raccontano diversi momenti della vicenda dei cavalli: un’acquaforte di Carle Vernet (Bordeaux, 1758 - Parigi, 1836), artista tra i più vicini a Napoleone, narra l’ingresso dei francesi a Venezia (e li vediamo mentre, al centro, già portano via i cavalli di San Marco), un’altra incisione all’acquaforte, ma di Luigi Martens, a sua volta tratta da disegno di Giuseppe Borsato (Venezia, 1770 - 1849), ci restituisce i cavalli mentre sbarcano sulla piazzetta dietro Palazzo Ducale (arrivano su di una chiatta accompagnata da un gran numero d’imbarcazioni), e infine un olio di Vincenzo Chilone (Venezia, 1758 - 1839) offre testimonianza della solenne cerimonia di ricollocamento, coi cavalli sistemati su carri che vengono trascinati di fronte all’esercito austriaco, schierato su due ali ai lati di piazza San Marco, e alle autorità che invece trovano posto su di una tribuna sotto il campanile.
Fu questo l’evento che diede il via alle nuove ambizioni di gloria dei veneziani: su tutti spiccò, per passione, caparbietà, volontà e lungimiranza, l’allora presidente dell’Accademia di Belle Arti, Leopoldo Cicognara, cui è dedicata la successiva sezione della mostra. Il conte ferrarese viene presentato come l’uomo che perseguì l’obiettivo d’unire la tutela delle opere antiche alla promozione degli artisti contemporanei, attività nell’ambito delle quali ricevette il decisivo aiuto di Antonio Canova: a suggellare questa duratura amicizia, in mostra è presente il busto-ritratto di Cicognara, eseguito da Canova tra il 1818 e il 1822 e destinato a esser collocato sulla tomba del nobile, nella Certosa di Ferrara. Cicognara ci viene inoltre presentato come il formidabile scopritore di talenti che, primo tra tutti, s’accorse dell’estro di Francesco Hayez: in lui, il conte vide il candidato ideale per riportare la pittura italiana alle antiche glorie, una sorta di alter ego di Canova, che già aveva raggiunto lo scopo nella scultura. Il rapporto Canova-Cicognara-Hayez è esemplificato da un fondamentale dipinto, il ritratto della famiglia Cicognara, raffigurata dal giovane Hayez sotto al busto colossale di Canova, con il conte e la moglie Lucia Fantinati che tengono tra le mani una stampa della Religione cattolica (anch’essa esposta in mostra), scultura che il genio di Possagno aveva immaginato (e mai realizzato) per la Basilica di San Pietro, onde celebrare il ritorno a Roma di Pio VII, prigioniero in Francia dopo l’occupazione napoleonica della Città Eterna. Il ruolo di Hayez come continuatore della grande tradizione veneta è invece sottolineato dagli affreschi strappati di Palazzo Ducale: l’artista, lavorando nel Palazzo con incarico ottenuto proprio grazie a Cicognara, poté misurarsi coi più insigni pittori veneti dei tempi andati, e la rassegna delle Gallerie dell’Accademia, con il Tritone che suona la buccina su cavallo marino e la Venere tra Eros e Anteros, ci dà anche conto degli alti modelli (Raffaello, Giulio Romano) ai quali Hayez guardò nelle prime fasi della sua carriera, e il cui studio perfezionò con un soggiorno a Roma fortemente caldeggiato dallo stesso Cicognara.
In un piccolo vano che il visitatore trova dopo la grande aula che ospita le prime sezioni della mostra, è documentato uno dei momenti fondamentali dei primi anni di vita delle Gallerie dell’Accademia: l’arrivo a Venezia della raccolta di disegni appartenuta a Giuseppe Bossi (Busto Arsizio, 1777 - Milano, 1815), che il governo austriaco acquistò (dietro suggerimento di Cicognara: quasi superfluo specificarlo) col preciso scopo di girarla all’Accademia. Bossi aveva radunato un’enorme raccolta grafica che consisteva in circa mille e cinquecento fogli di grandi artisti del passato, e l’acquisto andava a soddisfare la necessità di dotare l’Accademia di Venezia di un patrimonio grafico sul quale far studiare gli allievi, e di cui all’epoca non disponeva in alcun modo. La collezione di Giuseppe Bossi era la candidata ideale per ampiezza del raggio (l’artista lombardo aveva raccolto opere che spaziavano dal Quattrocento all’epoca contemporanea) e per vastità: nella sala troviamo dunque bozzetti di Mantegna, del Parmigianino, di Rembrandt, di Giulio Cesare Procaccini, del Perugino. Per ragioni meramente conservative la rassegna ha dovuto rinunciare a esporre il foglio più famoso della raccolta: l’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci, conservato presso le Gallerie proprio in quanto anch’esso incluso nella collezione Bossi.
|
Carle Vernet, L’entrata dei francesi a Venezia (1799; acquaforte; Venezia, Fondazione Musei Civici di Venezia, Gabinetto Stampe e Disegni del Museo Correr) |
|
Luigi Martens da Giuseppe Borsato, Lo sbarco dei cavalli alla piazzetta (1815; acquaforte; Venezia, Fondazione Musei Civici di Venezia, Gabinetto Stampe e Disegni del Museo Correr) |
|
Vincenzo Chilone, La cerimonia del ricollocamento dei cavalli bronzei sul pronao della basilica di San Marco (1815; olio su tela; Collezione privata) |
|
Francesco Hayez, Venere tra Eros e Anteros (1819; affresco strappato; Venezia, Museo Correr) |
|
Antonio Canova, Ritratto di Leopoldo Cicognara (1818-1822; marmo; Ferrara, Musei Civici di Arte Antica) |
|
Francesco Hayez, Ritratto della famiglia Cicognara (1816-1817; olio su tela; Venezia, Collezione privata) |
|
Francesco Hayez, Ritratto della famiglia Cicognara, dettaglio |
|
Domenico Marchetti da Antonio Canova, La religione cattolica (1816; acquaforte a bulino; Bassano del Grappa, Musei Biblioteca Archivio) |
|
Andrea Mantegna, San Giovanni Evangelista (penna e inchiostro bruno su carta bianca; Venezia, Gallerie dell’Accademia, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe) |
Storia dell’arte e politica s’intrecciano nella sala in cui i curatori han voluto rievocare l’omaggio delle province venete alla corte di Vienna, altro episodio che ci dà contezza dell’intelligenza e della sottigliezza di Leopoldo Cicognara. Nel 1817, quando l’imperatore Francesco I d’Austria sposò Carolina Augusta di Baviera, alle province venete fu imposto un ingente tributo di diecimila zecchini d’oro, a titolo d’omaggio ai novelli sposi: si trattava però d’un gravame insostenibile per il territorio. Cicognara, con una brillantissima mossa diplomatica, adducendo come motivazione il fatto che l’erario austriaco era già stato abbondantemente rimpolpato con le imposte assicurate dalle province lombarde e austriache, propose al governo di Vienna di convertire l’onerosa tassa in donazioni d’opere d’arte, onde ornare gli appartamenti della corte austriaca. Le opere, prodotte per un valore che corrispondesse all’equivalente dell’ammontare richiesto, sarebbero state realizzate dai migliori artisti del Veneto: l’impero accolse la proposta. La mostra, a duecento anni esatti di distanza dall’evento, riporta in Italia alcune delle sculture che gli artisti veneti realizzarono per gli appartamenti viennesi, riuscendo financo a suggerire al visitatore, col verde giada degli allestimenti, i colori dell’appartamento della Hofburg, la residenza imperiale, per il quale i lavori eran stati immaginati. È di sicuro l’ambiente più spettacolare della rassegna.
Certo, a convincere il governo austriaco fu anche la possibilità d’includere, nel lotto delle opere, una scultura di Canova: nella fattispecie, la Musa Polimnia, opera di grande raffinatezza che lo scultore realizzò come ritratto di Elisa Bonaparte Baciocchi, ma che mai consegnò all’ex granduchessa di Toscana, dacché alla caduta del regime napoleonico l’opera non era ancora stata completata. L’omaggio concesse a Canova l’opportunità di condurre a termine il lavoro, che prima d’esser inviato a Vienna fu esposto all’Accademia di Venezia. La musa della storia di Canova non mancò di suscitar meraviglia in quanti ne osservassero il fine modellato, la levigatezza delle superficî, la leggiadria della posa, l’estrema cura con la quale lo scultore aveva reso i panneggi, la delicatezza del volto e della mano sinistra che col dito indice sfiora il collo carezzandolo con eleganza. Uno dei maggiori letterati del tempo, Melchiorre Missirini, ebbe a scrivere che “questa statua della Musa Polimnia è posta dai Maestri dell’arte fra le più belle opere del Canova [...]. Il monumento è di un pregio singolare, o si riguardi la bellezza massima e divina della sembianza, o l’eleganza di tutta la persona sedente in un suo atto grazioso e pieno insieme di dignità, o il panneggiamento condotto con un gusto squisitissimo, o l’esecuzione tratta a quell’ultimo finimento di morbidezza, di soavità e di verità, che può aver la materia”. Tra le altre sculture degne di nota occorre citare un Chirone che ammaestra Achille nella musica di Bartolomeo Ferrari (Marostica, 1780 - Venezia, 1844), opera di raffinatezza tutta neoclassica e, al pari d’altri lavori eseguiti per l’omaggio, uscita poi dall’Hofburg per andare a decorare altre residenze della corte austriaca, nonché i due vasi, eseguiti l’uno da Giuseppe de Fabris (Nove, 1790 - Roma, 1860), l’altro da Luigi Zandomeneghi (Colognola ai Colli, 1778 – Venezia, 1850) sul modello dei grandi vasi antichi, come il vaso Borghese, e al pari di quest’ultimo decorati sul bordo con bassorilievi (in questo caso, stanti le vicissitudini sentimentali della committenza, con nozze dell’antichità).
|
La sala della mostra dedicata all’omaggio delle province venete |
|
Antonio Canova, Musa Polimnia (1812-1817;
marmo; Vienna, Hofburg, Kaiserappartements) |
|
Bartolomeo Ferrari, Chirone ammaestra Achille nella musica (dopo il 1826; Artstetten, Collezione del Castello)
|
|
Giuseppe De Fabris, Vaso con le nozze di Alessandro e Rossane (1817; marmo; Vienna, Hofmobiliendepot, Möbel Museum) |
|
Luigi Zandomeneghi, Vaso con le nozze Aldobrandini (1817; marmo; Vienna, Hofmobiliendepot, Möbel Museum) |
La sala successiva intende presentare al pubblico alcuni dei migliori artisti che s’alternarono tra le aule dell’Accademia di Venezia tra il 1815 e il 1822, il ristretto periodo che l’esposizione prende in esame. Gli allievi avevano facoltà di concorrere a una borsa che garantiva loro un pensionato a Roma onde studiare gli alti esempî che la capitale dello Stato Pontificio poteva offrir loro, e una volta ottenuto l’agognato soggiorno eran tenuti a dar conto dei loro progressi inviando saggi a Venezia: il potente Ercole al bivio che vediamo in questa sala è giustappunto uno dei saggi che Giovanni De Min (Belluno, 1786 - Tarzo, 1859) elaborò a Roma, e si distingue per il vigore dell’Ercole al centro e per la veridica sensualità della Venere, rappresentata sulla destra nel tentativo di convincere il mitologico eroe a intraprender la strada delle passioni terrene, al contrario della Minerva che invece lo invita a percorrere la più tortuosa via della virtù. Tra i punti più alti della mostra è il paragone tra il Rinaldo e Armida di Francesco Hayez e il Cefalo e Procri di Fabio Girardi (1792 - 1866/68): un confronto dal quale Hayez risulta senz’alcun dubbio vincitore per la freschezza del nudo che guarda alle sculture canoviane (il braccio poggiato è lo stesso della Paolina Borghese) oltre che alla procacia delle eroine tizianesche, per la posa allo stesso tempo naturale e ingegnosa, per il modo di trattare i tessuti, per la profondità del paesaggio e l’inserimento delle figure al suo interno, per il marcato erotismo, anticipatore di molti dipinti che renderanno Hayez uno dei pittori più sensuali di tutto l’Ottocento.
Superato il piccolo “intermezzo” sulla figura di lord Byron, presente a Venezia tra il 1816 e il 1819, la mostra passa a esaminare il mito di Canova “gloria nazionale e icona universale”, celebrato quasi come un eroe moderno, poiché non fu soltanto sommo artista che sopravanzò tutti i suoi contemporanei, ma col suo impegno diplomatico in Francia fu salutato anche in qualità di abile politico che riuscì a riportare in Italia buona parte dei tesori sottratti durante l’occupazione napoleonica. Meriti che gli valsero l’innalzamento d’un monumento nella basilica dei Frari, progettato da due allievi dell’Accademia, Antonio Bernatti e Antonio Lazzari, sulla falsariga di quello che lo stesso Canova, nel 1790, aveva immaginato per Tiziano, ma che non fu mai realizzato per via delle traversie politiche cui la Serenissima andò incontro. Sorte più fortunata ebbe invece il monumento pensato per Canova: lo vediamo oggi maestoso, con la sua piramide in marmo di Carrara al cui centro è situata la porta della finta camera mortuaria verso la quale s’avvicinano, a destra, le personificazioni della scultura, della pittura e dell’architettura accompagnate da tre genî, mentre a sinistra incontriamo, afflitti, il genio di Canova e il leone di Venezia. L’idea d’ispirarsi al modello di quello che avrebbe dovuto diventare il monumento a Tiziano fu proposta da Cicognara: un dipinto di Giuseppe Borsato mostra il conte mentre, all’interno della basilica, illustra il monumento, che oggi accoglie il cuore di Canova. Interessante sottolineare come, secondo un’usanza che solitamente si riserva ai santi, i resti di Canova siano conservati in diverse sedi: del cuore s’è già detto, il corpo è custodito nel tempio di Possagno, e la mano destra in un’urna all’Accademia di Venezia.
La mostra s’avvia verso la conclusione con un corridoio interamente dedicato a Francesco Hayez. Il 1822 è l’anno che vide la scomparsa di Canova e la partenza di Hayez dalla città natale, e per tali ragioni è anche l’anno che conclude il discorso della rassegna: a Milano, dove si sarebbe successivamente trasferito, Hayez ebbe modo di coltivare idealmente il progetto di Cicognara dando vita a quell’originale romanticismo storico che connotò la cifra stilistica dell’artista e orientò i temi della sua pittura (una pittura alla quale, peraltro, molti vollero attribuire significati politici). Uno dei dipinti più significativi della sua intera produzione, il Pietro Rossi della Pinacoteca di Brera, è tra le opere più importanti del secolo, dacché introdusse una fondamentale novità: per la prima volta un artista andava a pescare nel repertorio della storia moderna piuttosto che in quella antica. L’episodio narrato risale infatti al quattordicesimo secolo e raffigura il momento in cui Pietro Rossi, signore di Parma, viene invitato dai veneziani ad assumere il comando dell’esercito della Serenissima contro gli Scaligeri, che lo avevano spogliato dei suoi dominî. Il tutto mentre, all’interno del castello di Pontremoli in cui si svolge la vicenda, moglie e figlie lo supplicano di non partire. Il resto del corridoio è una carrellata d’opere di Hayez, che termina col disegno della Maddalena inserito nel percorso per documentare come i contatti tra il pittore e Cicognara fossero proseguiti anche dopo la partenza per Milano: Hayez inviò il foglio al conte onde dargli modo d’arricchire l’album in cui conservava i disegni degli artisti coi quali aveva mantenuto rapporti.
|
Giovanni De Min, Ercole al Bivio, particolare (1812; olio su tela; Venezia, Gallerie dell’Accademia) |
|
Il confronto tra Francesco Hayez e Fabio Girardi |
|
Francesco Hayez, Rinaldo e Armida (1812-1813; olio su tela; Venezia, Gallerie dell’Accademia) |
|
Francesco Hayez, Rinaldo e Armida, dettaglio |
|
Fabio Girardi, Cefalo e Procri (1817;
olio su tela; Venezia, Gallerie dell’Accademia) |
|
Antonio Canova, Monumento a Tiziano (1790; modello in legno e terracotta; Venezia, Gallerie dell’Accademia) |
|
Antonio Bernatti e Antonio Lazzari, Monumento a Canova (1827; acquaforte e acquatinta; Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, Fondo Stampe) |
|
Giuseppe Borsato, Leopoldo Cicognara illustra il monumento di Canova ai Frari (1828; olio su tela; Parigi, Musée Marmottan Monet) |
|
Francesco Hayez, Pietro Rossi a Pontremoli (1818-1820; olio su tela; Milano, Pinacoteca di Brera) |
|
Francesco Hayez, Studio per la Maddalena penitente (matita e biacca su carta; Venezia, Fondazione Musei Civici di Venezia, Gabinetto Stampe e Disegni del Museo Correr) |
Proprio Cicognara, nel 1828, si trovò a lamentarsi con Hayez della scarsità di lavoro che Venezia offriva ai suoi artisti più capaci: “Il fatto sta che li poveri giovani che riescono debbono sempre andar via per guadagnarsi il pane”. S’è detto di come l’Accademia fosse costretta, a partire già dagli anni Venti, a confrontarsi con un mercato che, dopo l’occupazione, ancora stentava a ripartire, e con una committenza pubblica che, nei confronti dell’arte, nutriva molto meno interesse rispetto al passato. Questa situazione di stallo fu dunque deleteria per Venezia, che negli anni successivi vide ridurre sempre più l’importanza del proprio ruolo nelle vicende artistiche internazionali e anche nazionali, e prova ne è il fatto che la carriera di Francesco Hayez dovette proseguire lontano da Venezia e fiorire nella città che, nell’Ottocento, assunse il primato, almeno nel nord Italia: Milano.
I temi della mostra non s’esauriscono con le otto sale del pian terreno. Tutto il percorso delle Gallerie dell’Accademia è costellato di pannelli che estendono il discorso iniziato con la rassegna, e financo di prestiti giunti per l’occasione: il pubblico potrà dunque ammirare la Madonna col Bambino e un coro di cherubini di Andrea Mantegna, che torna a Venezia (i francesi l’avevano infatti asportata dalla chiesa di Santa Maria Maggiore e l’avevano inviata a Brera al fine d’arricchire le collezioni della locale pinacoteca, dov’è tuttora conservata) per esser posta in confronto con la Madonna dei cherubini rossi di Giovanni Bellini. Una mostra completa sull’inizio d’una storia lunga duecento anni, una rassegna capillare che consente al visitatore di rileggere anche diverse opere della collezione, una mostra che rivolge al pubblico (lo si ribadisce, dal momento che è di sicuro uno degli aspetti più interessanti) un messaggio di grande attualità, in un momento storico in cui la tutela non passa certo buoni momenti e l’arte contemporanea sconta picchi d’incomunicabilità sui quali occorre interrogarsi sempre più a fondo. Ammantare l’arte del passato d’una portata che possa aiutarci a sondare il presente è uno dei punti che dovrebbero guidare l’azione d’un museo: in tal senso, Canova, Hayez e Cicognara. L’ultima gloria di Venezia, mostra intelligente, riuscita e filologicamente corretta, può dirsi operazione in grado, almeno, di farci domandare se quanto oggi facciamo per l’arte possa esser ritenuto degno di coloro che ci han preceduto.
Se ti è piaciuto questo articolo abbonati a Finestre sull'Arte.
al prezzo di 12,00 euro all'anno avrai accesso illimitato agli articoli pubblicati sul sito di Finestre sull'Arte e ci aiuterai a crescere e
a
mantenere la nostra informazione libera e indipendente.
ABBONATI
A
FINESTRE SULL'ARTE
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).