di
Federico Giannini
(Instagram: @federicogiannini1), scritto il 01/12/2017
Categorie: Recensioni mostre / Argomenti: Seicento - Barocco - Ferrara - Arte antica
Recensione della mostra 'Carlo Bononi. L'ultimo sognatore dell'officina ferrarese' a Ferrara, Palazzo dei Diamanti, dal 14 ottobre 2017 al 7 gennaio 2018.
C’è un aneddoto particolarmente idoneo a dar misura della grandezza del genio di Carlo Bononi (Ferrara, 1580 circa - 1632), il grande pittore cui Ferrara dedica quest’anno la prima mostra monografica, a Palazzo dei Diamanti. Sembra che Guido Reni (Bologna, 1575 - 1642), incaricato di terminare una Resurrezione lasciata incompiuta da Bononi alla sua scomparsa, avesse declinato l’invito affermando che non gli sarebbe stato possibile mettere mano a un’opera d’un artista “non ordinario”, e che sarebbe stato “in verità temerario” se avesse provato a intraprendere un’impresa simile. Ora, non sappiamo se la lettera di Guido Reni, citata nelle Vite de’ pittori e scultori ferraresi di Girolamo Baruffaldi, sia autentica (tuttavia sussistono motivi per ritenerla tale, a detta di diversi studiosi), ma di vero c’è che Carlo Bononi godette di un’altissima considerazione in vita, e anche dopo. Fu egli artista versatile, che seppe destreggiarsi tra morbidezze reniane, un naturalismo che non disdegnava sguardi a Caravaggio, atmosfere venete mutuate dal Veronese e da Palma il Giovane, una pittura vigorosa, forte, calda e profondamente sentita quale sapeva essere quella di maestri come il Tintoretto o Ludovico Carracci, e fu capace di raggiungere risultati sorprendentemente originali che gli garantirono fama e successo: naturale che, prima o poi, gli venisse dedicata una monografica.
Una mostra eccezionale, a partire dalla titolazione scelta: Carlo Bononi. Ultimo sognatore dell’officina ferrarese. Un titolo che riecheggia Longhi: fu lui, in un saggio del 1934, a coniare la definizione “officina ferrarese” con la quale venivano esaltati il senso di comunità degli artisti ferraresi, la loro propensione al confronto reciproco, e la coralità che connotò molte delle loro imprese, e fu sempre Longhi a riferirsi a Carlo Bononi come all’“ultimo sognatore” dell’officina. Il 1598 fu l’anno della devoluzione di Ferrara allo Stato Pontificio, la corte estense dovette trasferirsi a Modena e, per quanto l’ambiente artistico ferrarese non avesse smesso la propria intensa vitalità, Bononi dovette trascorrere la propria esistenza entro i confini d’un mondo venato da una sottile nostalgia e costretto a fronteggiare tutte le difficoltà tipiche di quei tempi ben altro che prosperi. Difficoltà alle quali però Carlo Bononi rispose con una pittura che “trasformava il sogno in energia vitale” e che “restava un sicuro antidoto alle angustie del presente” (così Daniele Benati). Si trattava, in sostanza, d’un mondo “declinante”, com’ebbe a chiamarlo un Longhi che, per dare un’idea, avanzò un efficace paragone con la letteratura di Torquato Tasso, poeta d’un paio di generazioni più anziano del pittore cui è dedicata la mostra. Una mostra riuscitissima, che si sviluppa su di una linea cronologica che tuttavia, talvolta, si concede interessanti variazioni di carattere tematico, che s’avvale dell’esperienza della Fondazione Ferrara Arte e della curatela di due storici dell’arte di grande spessore e ferraresi entrambi, Giovanni Sassu e Francesca Cappelletti, e che s’affida ad allestimenti in grado d’esaltare le opere esposte (un esempio, semplice ma non scontato, perché non di frequente avviene così: alle pale d’altare vien sempre concessa tutta una parete) e d’operare spesso “incursioni” nel contesto, con continui rimandi alla storia, alla letteratura, alla musica, alle scienze.
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Ingresso della mostra a Palazzo dei Diamanti. Ph. Credit Finestre sull’Arte |
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Una sala della mostra. Ph. Credit Finestre sull’Arte |
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Una sala della mostra. Ph. Credit Dino Buffagni |
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Una sala della mostra. Ph. Credit Dino Buffagni |
La rassegna parte da uno straordinario confronto tra Carlo Bononi, Ludovico Carracci (Bologna, 1555 – 1619) e il Guercino (Cento, 1591 – Bologna, 1666). Val la pena evidenziare come il pittore centese abbia spesso guardato a Bononi ai principî della propria carriera: un aspetto che veniva sottolineato anche dalla mostra sul Guercino tenutasi in primavera a Piacenza, dov’era peraltro esposto quello stesso Matrimonio mistico di santa Caterina che a Palazzo Farnese trovavamo in avvio, mentre a Ferrara verso metà percorso. Si comincia dunque da un prologo mirato per lo più a inquadrare la pittura di Carlo Bononi nel contesto del suo tempo: operazione dal sapore eminentemente divulgativo che risponde ottimamente all’esigenza di presentare ai visitatori un pittore la cui odierna fama presso il grande pubblico è tutt’altro che chiara. La Pietà, prima opera di Bononi che dunque incontriamo in mostra, è un’opera portata a termine nel 1624: il dramma di gusto caravaggesco (Bononi fu probabilmente a Roma: lo si vedrà meglio col prosieguo della rassegna), con la Madonna che, in lacrime, indica il figlio esanime all’osservatore, è ovviamente mediato da tutte le suggestioni che l’artista fin lì aveva raccolto, a cominciar proprio da quelle fornite da Ludovico Carracci, il cui Cristo morto che compare nella Trinità fornì spunti a Bononi per il suo Gesù, dotato d’una fisionomia forte ma venato di languidezze parmigiane. La luce calda e diffusa, l’ambientazione delle scene in paesaggi rurali che richiamano le campagne attorno a Ferrara, lo spiccato naturalismo sono dati che, come evidenzia il San Girolamo del Guercino, affascineranno non poco il giovane centese che, racconta ancora Baruffaldi, dopo aver visto per la prima volta le opere di Bononi in Santa Maria in Vado a Ferrara, si lasciò andare ad un commosso pianto di gioia.
I prodromi di quanto il visitatore trova nella prima sala vengono tracciati nell’ambiente immediatamente successivo, interamente dedicato agli esordî di Bononi: i curatori, peraltro, propongono di spostarne la data di nascita avanti d’un decennio, al 1580 circa, secondo un’idea più coerente con gli sviluppi della sua arte, le cui prime attestazioni risalgono agl’inizî del Seicento. Tra le prime opere documentate figura la Madonna col Bambino in trono e i santi Maurelio e Giorgio, dipinta tra il 1602 e il 1604 per la sede dei Consoli delle Vettovaglie, istituzione ferrarese competente in materia alimentare, e oggi conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna: opera di carattere devozionale dove tutti i personaggi (a proposito: si noti la finezza del gruppo della Madonna e del Bambino, ripetuto senza variazioni sul piviale di san Maurelio) si dispongono, con le loro ampie volumetrie memori della pittura del Bastianino, a occupare ogni possibile angolo della composizione (il gusto per le composizioni affastellate derivava da Ludovico Carracci: ne è un esempio la stessa Trinità di cui s’è fatta menzione) e dove il putto in posa classica, che guarda invece ad Annibale Carracci, regge il modello della città di Ferrara, dove si riconoscono senza particolari difficoltà il profilo del Castello Estense e il campanile della Cattedrale. Parimenti carraccesca è poi una Madonna col Bambino di collezione BPER, che palesa altresì evidenti influssi veneti tanto nell’impaginazione (appaiono quasi immediate le reminiscenze tizianesche, con la colonna a far da quinta e la disposizione in obliquo dei personaggi) quanto nella pienezza dei personaggi e nel colorito: vien da pensare a Palma il Vecchio, artista in cui peraltro è piuttosto frequente il tipo della Madonna che regge il Bambino sulle ginocchia. Alcuni motivi che accompagnano il visitatore nel seguito della mostra e nell’iter artistico di Carlo Bononi sono invece ravvisabili nella grande tela con i santi Lorenzo e Pancrazio proveniente dalla parrocchia di San Lorenzo a Casumaro, e restaurata in occasione dell’esposizione: in particolare, il groviglio d’angioletti che appare ai due santi in adorazione anticipa gruppi omologhi, con la differenza che, più avanti, gli angeli non saranno più morbidi putti (che qui sono memori di quelli che Palma il Giovane dipingeva nella Gloria di san Giuliano sul soffitto della chiesa di San Zulian a Venezia, benché Bononi risolva il tema con maggior sentimento), bensì muscolosi e sensuali giovani. Lo vediamo bene già nella sala successiva con gli angeli dell’Annunciazione di Gualtieri, dipinto attribuito per la prima volta a Bononi nel 1959 da Carlo Volpe, dove l’impostazione ancora tizianesca (la Madonna è identica a quella dell’Annunciazione oggi al Museo Nazionale di Capodimonte) si mescola a un’intimità domestica di evidente gusto baroccesco (Federico Barocci era solito disseminare ceste coi panni in scene del genere: tale presenza, in Bononi, si manifesta nell’angolo in basso a destra) e a una delicatezza e a un uso della luce (chiara in primo piano, nebbiosa sullo sfondo) che invece rimandano al Correggio.
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Carlo Bononi, Pietà (1621-1624; olio su tela, 244 x 124,5 cm; Ferrara, chiesa delle Sacre Stimmate, in deposito temporaneo presso il Palazzo Arcivescovile) |
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Ludovico Carracci, Trinità con Cristo morto (1592 circa; olio su tela, 172,5 x 126,5 cm; Roma, Città del Vaticano, Musei Vaticani) |
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Guercino, San Girolamo nell’atto di sigillare una lettera (1618 circa; olio su tela, 140,5 x 152 cm; Collezione privata) |
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Carlo Bononi, Madonna col Bambino in trono e i santi Maurelio e Giorgio (1602-1604; olio su tela, 163 x 114 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie) |
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Carlo Bononi, Madonna col Bambino (1604; olio su tela, 66 x 44 cm; Collezione BPER Banca)
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Carlo Bononi, I santi Lorenzo e Pancrazio (1608; olio su tela, 327 x 220 cm; Casumaro, San Lorenzo) |
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Carlo Bononi, Annunciazione (1611; olio su tela, 284 x 194 cm; Gualtieri, Santa Maria della Neve) |
Eppure, tracciare i confini degli spunti di Bononi è materia assai ardua, dacché si parla d’un artista straordinariamente versatile, in grado di rinnovarsi fino alle fasi estreme della sua carriera, e in tal senso la mostra ferrarese è una continua sorpresa che pone il visitatore di fronte a dati sempre nuovi. Si osservi, nella quarta sala, la pala con San Paterniano che risana la cieca Silvia, eseguita per la basilica di San Paterniano a Fano, dove l’artista si trattenne probabilmente a seguito d’un viaggio a Roma, al momento non evidente da riscontri documentarî, ma ipotizzabile per tangenze stilistiche. Senza contatti con Roma non si potrebbe altrimenti spiegare, giusto a titolo d’esempio, il personaggio che appare in basso a destra nella tela di Fano, palmare citazione della figura che, nel Martirio di san Matteo che il Merisi dipinse per la cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, compare in basso a sinistra. Ma si potrebbe chiamare in causa la stessa Vocazione di san Matteo, con il gesto del personaggio in piedi a sinistra nell’opera di Bononi che richiama quello di Gesù nella tela di Caravaggio, e financo Giovanni Lanfranco, da cui Bononi mutuò “la possibilità di rendere la tenebra caravaggesca ricca di sfumature d’ombra ottenute attraverso velature colorate” (così Giovanni Sassu in catalogo). Lanfranco, peraltro, è presente in mostra con una delle sue opere più note, la Visita di sant’Agata a san Pietro in carcere, efficace nell’offrire all’osservatore una lettura intimista della scena, esaltata dall’uso drammatico delle luci: tutti elementi che fornirono diverse occasioni di riflessione a Carlo Bononi.
Fa pensare a Caravaggio anche una delle opere-simbolo della mostra, il Genio delle arti della Collezione Lauro: un giovane alato che spiega le ali come l’angelo della Santa Cecilia di Carlo Saraceni (presente in mostra), che denota un erotismo neppure troppo velato, che appare circondato d’oggetti legati alle arti (un liuto, un trombone, una scultura, una tavolozza, uno spartito musicale, libri) e che si libera di un’armatura (la vediamo a destra) a simboleggiare il distacco dalle attività guerresche, antitetiche rispetto a quelle artistiche. Opera databile ai primi anni Venti, quindi dopo l’ipotizzabile soggiorno romano che, nel caso, andrebbe collocato verso la fine del decennio precedente, dimostra evidenti richiami all’Amor vincit omnia di Caravaggio, benché il catalogo faccia registrare un lieve moto di disaccordo tra i due curatori, con Giovanni Sassu che parla d’un dipinto che “rievoca bene lo spirito” del capolavoro caravaggesco “trasformando la sfacciata nudità in allusione”, “ripensando sapientemente la collocazione degli oggetti” e “reinventando totalmente la posa del protagonista”: il risultato sarebbe un capo d’opera “certo meno smaccato ma degno di rivaleggiare in sensualità con le altre derivazioni note dal prototipo caravaggesco”. Francesca Cappelletti, invece, nel suo saggio parla di “due soggetti in realtà piuttosto distanti”: in rapida sintesi, perché i riferimenti di Bononi sarebbero da individuare in precedenti che già esistevano in Ferrara, perché Bononi non s’azzardò a riprodurre la posa dell’Amore caravaggesco (e come lui, del resto, tutti gli altri pittori impegnati ad affrontare un soggetto simile), per la distanza iconografica (uno è un genio, l’altro un cupido), per il fatto che il protagonista di Caravaggio sembra irridere lo spettatore, mentre quello del pittore ferrarese al contrario intende quasi omaggiarlo. Che ci sia comunque una base romana risulta evidente anche dal confronto con un inedito d’omologo soggetto, conservato in collezione privata e a Ferrara esposto per la prima volta al pubblico, dove il riferimento a Caravaggio appare ancor più immediato per via del più marcato naturalismo, che peraltro legherebbe questo ulteriore Genio agli angeli del catino absidale di Santa Maria del Vado, impresa spartiacque nel percorso bononiano (nella rassegna di Palazzo dei Diamanti sono presenti alcuni disegni preparatorî).
Alla sensualità dei nudi maschili di Carlo Bononi è poi dedicata tutta una sala, la sesta, che espone alcuni dei capolavori in cui il pittore ferrarese forse maggiormente riversa la propria indole di “sognatore”. Il lettore ci conceda di definire emozionante il confronto tra il San Sebastiano di Bononi, eseguito per la Cattedrale di Reggio Emilia in un momento di grande soddisfazione professionale per l’artista, e quello celeberrimo di Guido Reni che è conservato a Genova in Palazzo Rosso e che, come ricorda anche Piero Boccardo nella scheda in catalogo, investì un giovanissimo Mishima col suo fascino d’icona omoerotica. Come anticipato in apertura, Bononi e Reni si conoscevano, e tra i due vigeva stima reciproca: naturale, dunque, che ci fossero punti di contatto. Qui si risolvono con due capolavori particolarmente intensi: il dipinto reggiano, rimandando a una pittura d’ambito caravaggesco, appare nondimeno stemperato dalla delicatezza reniana, di modo che il santo riveli tutta la prorompente armonia del suo corpo, minimamente scalfito dalle frecce (e il martire, col volto, sembra esprimere più stizzito disappunto che lacerante dolore) e colpito in pieno dalla luce che fa risaltare i muscoli ben torniti. Che Bononi amasse rappresentare in termini così muscolari e sensuali i suoi angeli risulta palese anche dall’Angelo custode proveniente dalla chiesa di Sant’Andrea di Ferrara e oggi in Pinacoteca Nazionale, opera nella quale Carlo Bononi risolve in termini decisamente sensuali un tema iconografico recentissimo, sul quale dunque il pittore ferrarese poteva esercitare tutta la propria originalissima inventiva: e qui lo fa con un imperioso angelo custode dal volto efebico ma dal corpo più che possente, che mostra a un giovane quasi intimorito la via da seguire verso la luce divina, mentre un diavolo di carnagione scura tenta, al contrario, d’irretirlo. Un angelo in posa teatrale, consapevole del fatto che oltre la tela ci sia qualcuno che lo sta ammirando: e lui, ovviamente, di certo non nasconde le proprie fattezze, anzi, le ostenta quasi orgoglioso.
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Carlo Bononi, San Paterniano che risana la cieca Silvia (1618-20; olio su tela, 310 x 220 cm; Fano, basilica di San Paterniano) |
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Giovanni Lanfranco, Sant’Agata visitata in carcere da san Pietro e un angelo (1613-1614 circa; olio su tela, 100 x 132 cm; Parma, Complesso Monumentale della Pilotta, Galleria Nazionale) |
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Carlo Bononi, Genio delle arti (1621-22; olio su tela, 120,5 x 101 cm; Collezione Lauro) |
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Carlo Saraceni, Santa Cecilia e l’angelo (1610 circa; olio su tela, 174 x 138 cm; Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica, Palazzo Barberini) |
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Carlo Bononi, Genio delle arti (1620 circa; olio su tela, 101 x 82 cm; Collezione privata) |
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Carlo Bononi, San Sebastiano (1623-24; olio su tela, 250 x 160 cm; Reggio Emilia, Cattedrale) |
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Guido Reni, San Sebastiano (1615-1616; olio su tela, 127 x 92 cm; Genova, Musei di Strada Nuova, Palazzo Rosso) |
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Confronto tra Guido Reni e Carlo Bononi |
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Carlo Bononi, Angelo custode (1625 circa; olio su tela, 240 x 141 cm; Ferrara, Pinacoteca Nazionale) |
Che Bononi conservasse un certo gusto per la teatralità appare evidente anche nelle opere di formato ridotto, cui è dedicata la penultima sala della rassegna di Palazzo dei Diamanti. Quello della pittura da cavalletto fu ambito in cui Carlo Bononi si trovò a rivaleggiare con lo Scarsellino (Ippolito Scarsella, Ferrara, 1550 circa - 1620), artista specializzatosi in tal genere di dipinti, mentre invece Bononi conquistò il “mercato” delle grandi tele pubbliche, per quanto dimostrasse notevole perizia anche in piccole opere destinate alla devozione privata. In tal senso, una delle prove più esaltanti è il Noli me tangere, opera probabilmente giovanile, con la scena ambientata in un idilliaco giardino decorato con tanto di pergolato: di grande effetto e delicatezza il particolare delle mani che si sfiorano, bizzarra la posa manierista di Gesù che si ritrae sulle punte dei piedi, pregna di ricordi parmigianineschi la figura della Maddalena, vividi i colori, che sono “accesi e vibranti, luminosi, stesi a campiture intere che sembrano liquefarsi quando, sulle creste delle pieghe, vengono lambite dalla luce” (così Enrico Ghetti nella scheda in catalogo). C’è anche il momento del confronto diretto tra lo Scarsellino e Carlo Bononi: del primo è esposto un Matrimonio mistico di santa Caterina che presenta un soggetto ricorrente nella produzione del più anziano pittore, mentre del secondo troviamo una Fuga di Enea da Troia (conservata nella stessa raccolta dell’opera dello Scarsellino) dove, pur in uno spazio ridotto, Bononi riesce a creare una scena caratterizzata da un forte gusto narrativo, con il Cavallo di Troia (quindi la causa della fuga) sullo sfondo, le fiamme degl’incendi che divampano in tutta la città, Enea che carica sulle spalle il vecchio padre Anchise sfinito (si notino le mani di padre e figlio sul bordo sinistro) e il piccolo Ascanio che corre spaventato.
Tutte opere grandi quelle invece esposte nell’ultima sala, dove il visitatore troverà le ultime realizzazioni di Carlo Bononi, tutte di carattere sacro. Qui, il dato interessante è la sensibilità in anticipo sul barocco che contraddistingue certe realizzazioni, a partire dalla cosiddetta Pala Estense dove la disposizione obliqua dei personaggi che ancora non è dimentica della pala Pesaro di Tiziano, con la Sacra Famiglia innalzata sul grande plinto che occupa metà composizione, è resa moderna dai loro atteggiamenti e dalla loro teatralità: di particolare effetto la gestualità di santa Barbara, bellissima col suo volto più che realistico, e la mano di san Giuseppe totalmente esposta alla luce e sapientemente collocata di là dalle architetture, svettante sulla nuvola che solca il cielo sullo sfondo. Naturalistica, complessa ed emozionante è anche la Santa Margherita in trono con i santi Francesco, Giovanni Evangelista e Lucia: la scena s’apre in alto con angeli assisi su soffici nubi per far piombare la luce divina sopra i protagonisti, resi ancora con eccezionale realismo (si osservi la santa Lucia, di carnagione perlacea e di bellezza tutta nordica) e disposti secondo uno schema che accentua il movimento che anima tutta la scena. E ancora forti accenti protobarocchi dimostra l’Apparizione della Madonna di Loreto ai santi Giovanni Evangelista, Giacomo Maggiore, Bartolomeo e Sebastiano (san Sebastiano è riemerso solo dopo un restauro di cui il catalogo dà puntualmente conto), con la Madonna che si fa largo tra le nubi mentre i santi paiono evidentemente sorpresi di tale epifania, con san Giacomo che addirittura volta le spalle sbirciando dietro di sé piuttosto che farsi avanti al pari di san Bartolomeo, al centro della scena. E protagonista è ancora quel cielo fatto di grandi nuvole grigie e blu scure che rappresenta forse l’unica costante di tutto il percorso bononiano.
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Carlo Bononi, Noli me tangere (1608-1614 circa; olio su tela, 69 x 91 cm; Collezione privata) |
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Scarsellino, Matrimonio mistico di santa Caterina (1610-1612 circa; olio su tavola, 37,5 x 26,5; Collezione Grimaldi Fava) |
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Carlo Bononi, Enea fugge da Troia in fiamme con Anchise e Ascanio (1615-18; olio su tavola, 32 x 20 cm; Collezione Grimaldi Fava) |
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Il confronto tra lo Scarsellino e Carlo Bononi |
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Carlo Bononi, Sacra Famiglia con le sante Barbara, Lucia e Caterina (Pala Estense) (1626; olio su tela, 261 x 161 cm; Modena, Galleria Estense) |
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Carlo Bononi, Santa Margherita in trono e i santi Francesco, Giovanni Evangelista e Lucia (1627; olio su tela, 303 x 185 cm; Reggio Emilia, Museo Diocesano) |
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Carlo Bononi, Apparizione della Madonna di Loreto ai santi Giovanni Evangelista, Giacomo Maggiore, Bartolomeo e
Sebastiano (1622-1623 circa; olio su tela, 259 x 170 cm; Tolosa, Musée des Augustins) |
Il viatico finale della mostra è una mappa tascabile che illustra tutti i luoghi della città (chiese, musei, edifici storici: indispensabile una visita a Santa Maria in Vado, distante qualche centinaio di metri da Palazzo dei Diamanti) in cui è possibile reperire opere di Carlo Bononi e di tutti i grandi protagonisti di quella stagione: Carlo Bononi. L’ultimo sognatore dell’officina ferrarese di certo non nasconde la propria natura di mostra intimamente legata al territorio. Occorre sottolineare che l’esposizione, al di là degl’indiscutibili meriti d’un progetto scientifico di notevole rigore filologico, si distingue anche per un efficace apparato comunicativo che, anche attraverso l’utilizzo di canali web e social, ha suscitato un grande interesse da parte del pubblico per l’arte di Carlo Bononi, tradottosi in riscontri che, per una mostra del genere, appaiono oltremodo lusinghieri. Tra le note positive, anche l’apparato didascalico, efficacissimo nel sintetizzare particolarità stilistiche e confronti a beneficio dei visitatori: i pannelli delle sale offrono un quadro complessivo che tiene conto di pressoché tutte le opere che il visitatore trova in ogni ambiente, non mancano approfondimenti dedicati al contesto storico e culturale, e degna di considerazione l’idea di mettere a disposizione del pubblico, gratuitamente, il racconto del curatore sul web. Un racconto dinamico, che accompagna letteralmente il visitatore lungo le sale, e senza approfondimenti slegati gli uni dagli altri come accade in pressoché tutte le audioguide, ma con una narrazione lineare che invoglia a soffermarsi sui dettagli, a scoprire particolari insoliti, ad ammirare le opere non come singole manifestazioni isolate, ma come testi in dialogo tra loro.
Per quanto concerne l’importante catalogo, compendio di tutte le più aggiornate notizie sull’artista, occorre segnalare, tra i contributi imperdibili, l’introduzione di Giovanni Sassu, il saggio di Francesca Cappelletti sulle “connessioni romane” dell’arte di Carlo Bononi, quello di Cecilia Valentini sui dipinti di piccolo formato, il sintetico ma particolarissimo contributo di Lara Scanu sui commenti dei viaggiatori circa l’arte di Bononi, e quello di Michele Danieli sull’attività grafica dell’artista. Da segnalare poi una piccola raccolta di tre saggi scritti da altrettanti eminenti studiosi che “hanno amato” Bononi (Andrea Emiliani, Erich Schleier e Daniele Benati) e che lo raccontano da un punto di vista personale, quasi intimo, e i percorsi di Giovanni Sassu che, tra le schede, inquadrano con dovizia e con formidabile chiarezza i varî momenti del percorso artistico del grande pittore di Ferrara.
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L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).