Grande Damien Hirst: col tuo show a Venezia, ci hai preso in giro tutti


Recensione della mostra 'Treasures from the wreck of the Unbelievable' a Venezia, Palazzo Grassi e Punta della Dogana, dal 9 aprile al 3 dicembre 2017.

La storia dei finti ritrovamenti archeologici è vecchia almeno quanto l’interesse nei confronti dell’archeologia. Già Ascanio Condivi, primo biografo di Michelangelo, raccontava che il genio di Caprese “si pose a far di marmo un Dio d’amore”, così simile alle statue antiche che Lorenzo il Magnifico gli disse che “se tu l’acconciassi che paresse stato sotto terra, io lo manderei a Roma, et passerebbe per antico, et molto meglio lo vendesti”. Il Cupido (oggi perduto) fu così spacciato per opera antica, e come tale venduto, per l’eccezionale somma di duecento ducati, al potente cardinale Raffaele Riario, al quale poi giunse la voce dell’inganno: ma il grande talento di quel giovane scultore, così abile a contraffare un’opera, destò non ire furibonde ma unanime apprezzamento, e l’artificio servì ad aprirgli le porte delle alte sfere dello Stato pontificio.

Insomma: la storia che Damien Hirst s’è inventato per la sua fanfaraonica mostra di Venezia, nelle due sedi di Punta della Dogana e di Palazzo Grassi, parte già da presupposti tutt’altro che nuovi. Ma non è questo il punto. Il punto è che l’artista inglese è stato in grado di orchestrare uno scherzo, tanto mastodontico quanto sottile, a danno di tutti i visitatori del suo grande show: e solo per questo, l’ormai incanutito bad boy di Bristol merita applausi a scena aperta. Lo storytelling escogitato per l’imponente rassegna, intitolata Treasures from the wreck of the Unbelievable (“Tesori dal relitto dell’Incredibile”), ci parla di un liberto di Antiochia, Cif Amotan II (scontato anagramma di “I am a fiction”), che raggiunse un livello di benessere tale da consentirgli di radunare un’impressionante collezione d’opere d’arte, oggetti, monili, gioielli provenienti da ogni parte del mondo antico, quindi caricati tutti assieme su di una nave, l’“Incredibile”, malauguratamente affondata al largo della costa orientale dell’Africa. Una campagna di recupero, avviata nel 2008 e finanziata da Hirst in persona, avrebbe consentito di tirar fuori le opere dalle profondità dell’oceano e di esporle a Venezia in una grande mostra, accompagnata da copie contemporanee delle presunte antichità riemerse. Ad accompagnare il percorso espositivo, fotografie di subacquei intenti nel lavoro di recupero delle opere dalle acque.

Una sala della mostra di Damien Hirst a Punta della Dogana
Una sala della mostra di Damien Hirst a Punta della Dogana. Ph. Credit Finestre sull’Arte


Una sala della mostra di Damien Hirst a Punta della Dogana
Una sala della mostra di Damien Hirst a Punta della Dogana. Ph. Credit Finestre sull’Arte


Damien Hirst, The diver
Damien Hirst, The diver. Ph. Credit Finestre sull’Arte


Damien Hirst, Hydra and Kali
Damien Hirst, Hydra and Kali. Ph. Credit Finestre sull’Arte

Questo il racconto della mostra, così come viene anche snocciolato dalle guide, evidentemente istruite a spacciar per vera la storia del liberto, della collezione e del ritrovamento, e a svelare al pubblico la finzione man mano che la mostra avanza (o almeno in tali termini s’è svolta la visita guidata seguita dal sottoscritto). Negli intenti di Hirst la storia dovrebbe esser inizialmente credibile e, col procedere delle sale, alcuni elementi (una sorta di transformer dorato, un faraone egizio con i connotati di Pharrell Williams, la dea Ishtar con le sembianze di Yolandi Visser degli Antwoord) dovrebbero instillare alcuni dubbî nel visitatore: verso la fine (se si vuol iniziare da Punta della Dogana), un gruppo composto da due personaggi, ovvero Damien Hirst e Topolino, rende palese a tutti (anche a quelli che, a pochi giorni dalla chiusura, erano rimasti totalmente all’oscuro delle macchinazioni di Hirst) la burla cui l’artista ha voluto sottoporre il pubblico. Ovviamente poi le opere “ritrovate” appaiono fin dall’inizio talmente poco credibili (a meno che non si abbia mai messo piede in un museo archeologico, o non si abbia mai sfogliato un libro di storia dell’arte) che ogn’intento di sviluppare una riflessione seria cade inesorabilmente nel vuoto. Quello che si dipana dinnanzi allo sguardo del visitatore di Palazzo Grassi e Punta della Dogana è un mega-accrocchio, i cui costi sono incredibili quanto il nome della finta nave affondata, e che è fatto di continue citazioni che spesso sfociano nella scopiazzatura: c’è la schiava la cui posa richiama quella del Prigione ribelle di Michelangelo al Louvre, c’è il Minotauro che rimanda a Picasso, ci sono le dorature e il kitsch di Jeff Koons, ci sono le smorfie che dilaniano i volti e che sembrano arrivare dalle sculture di Messerschmidt, c’è il gigantesco mostro di Palazzo Grassi che altro non è che il “fantasma di una pulce” di William Blake, c’è financo la pesca a piene mani dal repertorio di Daniel Spoerri, con opere come The sadness e i teschi d’unicorno messi in circolo prese di peso da precedenti lavori dell’artista svizzero-rumeno. Tant’è che c’è pure chi ha parlato di plagi (più che evidenti le somiglianze con le “sculture subacquee” di Jason deCaires Taylor, peraltro presentate alla Biennale di quest’anno, al padiglione di Grenada, ma non si tratta dell’unico caso).

Come hanno osservato in molti, in piena epoca di post-verità, la mostra di Damien Hirst rappresenta il prodotto artistico (di consumo) più adatto ai nostri tempi: una specie di fake news per frequentatori di mostre alla moda, una storia verosimile dove tutto può esser vero, ma può allo stesso tempo esser falso, come denuncia la grande scritta che accoglie il visitatore all’ingresso di Punta della Dogana e che recita “Somewhere between lies and truth lies truth” (gioco di parole in inglese, intraducibile in italiano, che suona “La verità giace da qualche parte tra le bugie e la verità”, dove il verbo “lies” può voler dire “giace”, ma anche “mente”): una sorta di rielaborazione pop dell’assunto picassiano “l’arte è una bugia che ci permette di realizzare la verità, o almeno la verità che possiamo comprendere”. Pertanto, se ci credi, va benissimo così. Se non ci credi, avrai speso un’ora ad aggirarti tra la noiosa distesa di opere kitsch che, tra mitologia spicciola da puntata di Voyager, realizzazioni tecniche dozzinali (probabilmente in maniera voluta per rendere lo scherzo ancora più sadico) e boriose esibizioni di ori e materie pregiate assortite, altro scopo non hanno che quello di glorificare l’ego titanico del loro ideatore (e di procacciargli nuovi acquirenti). E se per Picasso la menzogna dell’arte è il modo per conoscere la verità, per Hirst, interessato meno di niente a quello che tutti noi abbiamo da dire su di lui, è semplicemente il modo per rilanciare se stesso in un momento d’affanno, il tutto col sostegno dell’amico François Pinault che ha gentilmente messo a disposizione risorse e offerto ospitalità al sontuoso scherzo fine a se stesso che si fa beffe di chiunque, a partire da tutti quei gonzi che sono andati e continuano ad andare a vedere la mostra giusto perché qualcuno l’ha presentata come un “evento da non perdere”.

Una delle tante foto dei finti ritrovamenti
Una delle tante foto dei finti ritrovamenti


Damien Hirst, Cat
Damien Hirst, Cat. Ph. Credit Finestre sull’Arte


La schiava ispirata al Prigione ribelle di Michelangelo
La schiava ispirata al Prigione ribelle di Michelangelo. Ph. Credit Finestre sull’Arte


Il teschio di unicorno preso da Spoerri
Il teschio di unicorno preso da Spoerri. Ph. Credit Prudence Cuming Associates © Damien Hirst and Science Ltd. All rights reserved, DACS/SIAE 2017


Il Transformer
Il Transformer. Ph. Credit Finestre sull’Arte

Insomma: in tutti i casi, Hirst s’è preso gioco di te. A maggior ragione se sei uscito dalla mostra entusiasta e disposto a cavar profonde riflessioni da un Mickey Mouse ricoperto di finte incrostazioni o se, viceversa, riverserai sull’artista britannico tutta la tua bile per esserti fatto prendere in giro dall’ipertrofica baracconata veneziana. E nel frattempo, Damien Hirst, fregandosi le mani nell’immaginar le torme di danarosi buzzurri che nutrono mire nei confronti dei pezzi esposti (chiaramente, dalla prossima settimana le opere finiranno in collezioni sparse in mezzo mondo: come ha giustamente scritto Scott Reyburn sul New York Times, si tratta d’una mostra tagliata su misura per “la mentalità da cacciatori di trofei dei collezionisti facoltosi”), starà sicuramente ridendo di me che scrivo di lui, dei miei colleghi che si sono riversati in massa a Venezia per far lo stesso, di quelli che hanno parlato della mostra pur non avendoci neppure messo piede, degli hipster ignoranti a caccia di selfie molesti che per tutta la durata dell’esposizione ci hanno ammorbato con la loro fastidiosa presenza e coi quali toccava battagliare in ogni singola sala, dei turisti idioti che, con tre giorni a disposizione nell’intera vita per vedere Venezia, ne hanno sprecato mezzo per Treasures from the wreck of the Unbelievable, e ovviamente anche di te, che hai partecipato di buon grado a questo circo, una sorta di kolossal hollywoodiano ricco d’effetti speciali ma estremamente povero di sostanza (e che però, quanto meno, ha dato lavoro a decine di scultori che hanno lavorato per anni col fine di dar corpo alla beffarda megalomania di Hirst). Come impresa artistica, non lascerà alcun segno, ed è giusto che sia così, dato che di sicuro neanche Hirst s’era prefissato l’obiettivo di lasciare un segno indelebile nella storia dell’arte. L’unica eco che probabilmente risuonerà dopo questa mostra sarà quella degli “wow” di stupore di chi è andato a Punta della Dogana ma non ha mai messo piede in San Giovanni Crisostomo per vedere le opere di Giovanni Bellini e Sebastiano del Piombo. E magari anche quella dei doverosi complimenti a un grande Damien Hirst, per aver saputo organizzare uno scherzo tanto raffinato.

Il faraone con le sembianze di Pharrell Williams
Il faraone con le sembianze di Pharrell Williams. Ph. Credit Finestre sull’Arte


La dea Ishtar con le sembianze di Yolandi Visser
La dea Ishtar con le sembianze di Yolandi Visser. Ph. Credit Prudence Cuming Associates © Damien Hirst and Science Ltd. All rights reserved, DACS/SIAE 2017


Damien Hirst, Collector and friend
Damien Hirst, Collector and friend. Ph. Credit Finestre sull’Arte


Il Topolino... ritrovato negli abissi
Il Topolino... ritrovato negli abissi. Ph. Credit Finestre sull’Arte


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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