Genovesino a Cremona, la prima volta di un estroso e versatile pittore del Seicento


Recensione della mostra 'Genovesino. Natura e invenzione nella pittura del Seicento a Cremona', a Cremona, Museo Civico Ala Ponzone, dal 6 ottobre 2017 al 6 gennaio 2018.

Nell’autunno del 1647, la tranquilla esistenza della città di Cremona, che dopo la grande peste manzoniana aveva vissuto quasi un ventennio di relativa calma, si trovò a esser turbata dagli eventi della guerra franco-spagnola. Cremona, la più importante città filospagnola subito a sud di Milano, nell’ottobre di quell’anno fu assediata dal duca di Modena, Francesco I d’Este, comandante delle forze francesi in Italia, che tuttavia sottovalutò la fiera resistenza dei cremonesi. La città infatti non era dotata di mura, né di fortificazioni: ciò nondimeno, narra Lorenzo Manini nelle sue Memorie storiche della città di Cremona, “furono innalzati de’ ripari, scavate delle fosse, abbattuti gli alberi, diroccati i borghi, tagliati i ponti sul canale lungo la strada detta della Cerca, perché non si accostassero i nemici [...]. La milizia urbana prese l’armi, e fu rinforzata di parecchie schiere di contadini”, ai quali s’aggiunsero “i poveri e gli artigiani”. Gli abitanti, aiutati anche dalle forti piogge di quell’autunno che causarono allagamenti diffusi nelle campagne, costrinsero i nemici alla tregua: i franco-modenesi passarono dunque l’inverno a Casalmaggiore, e provarono ad attaccare nuovamente la città nell’estate del 1648, subendo la sconfitta definitiva, anche perché i cremonesi avevano passato l’inverno a fortificare la città ed erano supportati da migliaia di soldati spagnoli. Gli assedianti dovettero contentarsi di far scempio delle campagne. Dal contado giungevano, pertanto, notizie inquietanti: i nemici derubavano, tormentavano e imprigionavano gli abitanti, e non facevano che sottoporre a saccheggio le chiese di campagna, trafugando le opere d’arte che v’erano conservate.

In quello stesso anno, il più grande artista attivo a Cremona, Luigi Miradori detto il Genovesino (Genova?, 1605-1610 circa - Cremona, 1656), dipingeva, per la parrocchiale di San Clemente, la pala con il Miracolo di san Giovanni Damasceno: il santo aveva lottato con vigore contro gl’iconoclasti dell’imperatore Leone III, e in tutta risposta i suoi avversarî avevano infierito su di lui tagliandogli una mano, che nel dipinto gli viene letteralmente riattaccata al braccio dalla Madonna e da Gesù Bambino. Il dipinto è uno dei protagonisti della grande mostra, la prima monografica mai dedicata al Genovesino, intitolata Genovesino. Natura e invenzione nella pittura del Seicento a Cremona, che si tiene proprio a Cremona, al Museo Civico “Ala Ponzone”: per Valerio Guazzoni, che insieme a Francesco Frangi e Marco Tanzi è uno dei curatori dell’importante rassegna, il dipinto che Luigi Miradori eseguì nel 1648 poteva ricoprire un elevatissimo significato simbolico, date le circostanze del momento in cui fu realizzato. I saccheggi cui i franco-modenesi sottoposero le campagne attorno a Cremona non furono certo dettati da fervori iconoclasti, ma i risultati apparivano del tutto simili, e piace pensare che l’artista abbia voluto offrire agli abitanti della sua città d’adozione un dipinto davanti al quale riunirsi onde scongiurare il pericolo di veder la città andare incontro allo stesso angosciante trattamento che i nemici riservarono ai villaggi rurali.

L'ingresso della mostra sul Genovesino al Museo Civico Ala Ponzone di Cremona
L’ingresso della mostra sul Genovesino al Museo Civico Ala Ponzone di Cremona


Luigi Miradori detto il Genovesino, Miracolo di san Giovanni Damasceno
Luigi Miradori detto il Genovesino, Miracolo di san Giovanni Damasceno (1648; tela, 207 x 140 cm; Cremona, Santa Maria Maddalena)

L’opera giunge quasi alla fine del percorso espositivo, ma s’è scelto di presentarla in apertura perché particolarmente esemplificativa dei tempi in cui visse il Genovesino (e la sua è un’arte che risente pesantemente del clima dell’epoca), e anche in quanto importante testimone d’un rapporto stretto con una città che lo accolse dopo una vita non particolarmente fortunata: neanche trentenne, Luigi Miradori aveva perso la moglie, Girolama Veronesi, genovese come lui, e due figli, e aveva dapprima lasciato Genova (anche se non conosciamo i motivi), e poi Piacenza, città nella quale non era riuscito a trovare abbastanza lavoro. Il definitivo trasferimento a Cremona ebbe però effetto risolutore: nella città lombarda, il Genovesino ottenne il successo che meritava. La fama, tuttavia, non gli arrise allo stesso modo dopo la sua scomparsa: ben presto dimenticato, scarsamente citato dalle fonti, fu risollevato dall’oblio solo grazie al lavoro d’una grande cremonese, Mina Gregori, che al Genovesino dedicò, nel 1949, la propria tesi di laurea discussa all’Università di Bologna, dando il via alla riscoperta di uno dei più versatili artisti del Seicento, che proseguì nel 1954 con un nuovo studio da lei stessa firmato, e poi con diversi contributi nati nel solco tracciato dai fondamentali saggi dell’insigne studiosa. E per quanto il catalogo del Genovesino si sia arricchito nel corso dei decennî, e benché le sue opere abbiano cominciato a essere esposte con insistenza in mostre dedicate al Seicento, era finora mancata una monografica che potesse fornire, tanto agli studiosi quanto al grande pubblico, un panorama completo e aggiornato sull’artista.

La partenza della rassegna cremonese è decisamente intrigante: non soltanto perché la prima sala presenta alcune opere che rendono manifesti i legami del Genovesino con la sua terra natale (benché, dati anche gli evidenti spunti lombardi, sia quanto mai difficile riuscire a collocarli cronologicamente), ma anche perché i dipinti qui esposti costituiscono una prima introduzione critica e storica all’artista. La prima opera che ci troviamo dinnanzi è la Suonatrice di liuto, riconosciuta per la prima volta come opera del Genovesino da Roberto Longhi nel 1951, quando lo storico dell’arte s’accingeva a preparare la celeberrima Mostra del Caravaggio e dei caravaggeschi a Milano, rassegna nella quale un posto spettò anche alla Suonatrice di Luigi Miradori. L’opera, tuttavia, si conosceva già da tempo, e il fatto che un grande studioso quale fu Wilhelm Suida (cui spetta il merito d’esser stato il primo a menzionarla) la ritenesse opera d’un giovane Caravaggio, dovrebbe essere eloquente indice delle capacità dell’artista nonché qualità di questa tela, che induce l’osservatore a riflettere sulla fugacità della vita: la giovane si dedica ai piaceri mondani, simboleggiati tanto dal liuto quanto dai gioielli sparsi sul tavolo e dal sacco di monete, ma su di lei incombono il foglio strappato e soprattutto il minaccioso teschio situato in alto a destra. Un tema, quello della vanitas, che ricorrerà, in tutta la sua lugubre visionarietà, a punteggiare in maniera costante la produzione del pittore. E oltre al dato iconologico (la riflessione sulla caducità dell’uomo era tipica del tempo) interessante, come per tutti i dipinti del Genovesino, è quello stilistico: evidenti i riferimenti caravaggeschi (modellato, atmosfere, luci, panneggi), probabilmente mediati da un Orazio Gentileschi conosciuto a Genova, ma i legami con la città natale potrebbero risultare anche dal profilo della suonatrice che dimostra più d’un debito nei confronti dell’arte di Bernardo Strozzi, uno dei grandi nomi del Seicento ligure (tuttavia in mostra, occorre sottolineare, non ci sono opere d’altri artisti).

E di sentore ligure è anche un altro dipinto presente nella stessa sala: il soggetto potrebbe esser la Punizione di Core, Dathan e Abiram, tre personaggi biblici che, si legge nel libro dei Numeri, si ribellarono all’autorità di Mosè e Aronne e furono per tal ragione puniti da Dio (sussistono però alcune incongruenze col testo religioso). I personaggi si radunano attorno all’ara sulla quale Mosè aveva deciso d’offrire, assieme ad Aronne e ai tre ribelli, sacrifici a Dio: la divinità avrebbe poi scelto chi fosse degno d’incensarla, riservando punizioni agli altri. Così, puntualmente, vediamo che alcuni dei ribelli vengono risucchiati dalla terra, mentre il cielo è squarciato dal fulmine di Dio che illumina la notte e muove a stupore tutti gli astanti (di particolare effetto il brano delle due donne che, nell’angolo in basso a destra, assistono meravigliate all’accadimento). L’opera è un altro caposaldo della critica: assegnata al Genovesino nel 1939 da Armando Quintavalle dietro spunto suggerito da Longhi, fu poi con dovizia analizzata da Mina Gregori che ne sottolineò la dipendenza dai modi di Gioacchino Assereto, nonché dal naturalismo lombardo.

Luigi Miradori detto il Genovesino, Suonatrice di liuto
Luigi Miradori detto il Genovesino, Suonatrice di liuto (tela, 138 x 100 cm; Genova, Musei di Strada Nuova, Palazzo Rosso)


Luigi Miradori detto il Genovesino, Punizione di Core, Dathan e Abiram?
Luigi Miradori detto il Genovesino, Punizione di Core, Dathan e Abiram? (tela, 71,8 x 117,7 cm; Parma, Galleria Nazionale)

Con la sala successiva (un ambiente buio e raccolto), cominciamo a conoscere alcuni dei punti fermi della produzione di Luigi Miradori. Il primo di questi è una Sacra Famiglia, oggi conservata all’Istituto Gazzola di Piacenza, firmata e datata 1639 (vediamo firma e data sul biglietto che l’artista inserisce sotto alla sedia della Madonna): si tratta della prima opera databile con sicurezza del pittore ligure. È una gustosa e toccante narrazione d’un idillio familiare: il piccolo Gesù muove i primi passi davanti alla Vergine che, come farebbe ogni madre che vede il proprio figlio camminare per le prime volte, tende le mani in avanti per non farlo cadere. Sopra, un san Giuseppe più giovane dei soliti s’appoggia con le mani sul bastone e osserva la scena compiaciuto. Sotto, due conigli, uno bianco e uno nero, affiancati a un paio di penne e a un calamaio il cui significato simbolico ci sfugge, e che costituiscono un chiaro omaggio alla pittura animalista che si diffuse nella Genova del Seicento e che aveva visto in Sinibaldo Scorza il primo rappresentante di spicco, poi seguito e superato da Giovanni Benedetto Castiglione, meglio noto come il Grechetto. Rimandi genovesi dimostrerebbero anche le figure della Vergine e del Bambino, che somigliano alle omologhe figure di Anton van Dyck, artista che, com’è noto, soggiornò a Genova agl’inizî del Seicento. Di diverso accento è la decisamente più affollata Adorazione dei magi, con i personaggi che s’infilano a occupare ogni angolo possibile della scena: rimane aperto esclusivamente uno spazio in alto, quello ingombrato dal tetto della capanna. Altro dipinto di provenienza incerta (come tutti quelli sinora visti), l’Adorazione dei magi è opera che s’alimenta dei contrasti tra il tono dimesso della Sacra Famiglia (si noti san Giuseppe: guarda il corteo, ma par quasi si voglia far in disparte) e il lusso del corteo dei magi, che giungono con tanto di paggetto e levriero. Quest’ultimo è preso da un’incisione di Albrecht Dürer, ma nordica è anche l’impostazione della scena, che deriva da una stampa di Hendrick Goltzius: è noto che opere del genere circolassero in abbondanza nelle botteghe e nelle scuole delle città artisticamente più aggiornate. E ci riporta ancora a Genova un’ulteriore opera di cui si sa molto poco: un San Sebastiano curato da Irene ancora d’intonazione caravaggesca: il modello qui è Simon Vouet, che nel capoluogo ligure dipinse, nel 1622, un dipinto d’analogo soggetto, oggi in collezione privata, per Giovan Carlo Doria. La figura in basso a destra è poi di nuovo in rapporto con Bernardo Strozzi: potrebbero esserci indizî sufficienti per indicare in questo dipinto una delle rare opere eseguite dal Genovesino nella sua città d’origine.

Si passa quindi a una sala che espone dipinti di piccolo formato, i quali evidenziano uno stile ancora a metà strada tra Genova e la Lombardia. Sono dipinti di difficile collocazione, ma che offrono palese dimostrazione della versatilità dell’artista: di particolare interesse un’Ultima cena inedita, che rivisita l’episodio evangelico “con l’originalità inventiva che Genovesino sempre mette in campo, anche quando deve affrontare i temi più frequentati” (così Francesco Frangi in catalogo): spazio dunque a un diavolo che spunta dal terreno per metter le catene a Giuda traditore, che stringe ancora tra le mani il sacchetto coi trenta denarî, spazio alla più che inusuale scelta di rappresentare tredici apostoli, anziché dodici (figura già san Mattia chiamato al posto di Giuda), spazio a personaggi che conversano in evidente stato d’ebbrezza (e vedremo come non è questo l’unico caso della produzione del Genovesino in cui l’ultima cena è trattata come fosse una cena in un’osteria: crudo realismo lombardo, qui trattato con colori liguri). E ancora: i resti del pollo sul piatto, un apostolo che versa vino per terra (il perché, non è dato sapere), san Giovanni che s’addormenta scomposto sul braccio di Cristo. Meno sguaiata, e viceversa più meditativa, è la tavoletta con i Funerali della Vergine, opera del Museo Civico di Cremona: forse parte di una predella, è dipinto cupo, solcato dalle lugubri figure dei ceri i cui profili bianchi guizzano sul fondo scuro, e velato dalla palpabile mestizia degli apostoli, disposti “come su un palcoscenico” attorno a quel “catafalco blu di una solidità geometrica perfetta” che sta al centro di un “impianto compositivo marcatamente prospettico, dominato da volumetrie precise e ben scandite” (Beatrice Tanzi nella scheda di catalogo).

Luigi Miradori detto il Genovesino, Sacra Famiglia
Luigi Miradori detto il Genovesino, Sacra Famiglia (1639; tela, 182 x 134 cm; Piacenza, Fondazione Istituto Gazzola)


I conigli della Sacra Famiglia
I conigli della Sacra Famiglia


Luigi Miradori detto il Genovesino, Adorazione dei Magi
Luigi Miradori detto il Genovesino, Adorazione dei Magi (tela, 240 x 178 cm; Parma, Galleria Nazionale)


Luigi Miradori detto il Genovesino, 
San Sebastiano curato da Irene
Luigi Miradori detto il Genovesino, San Sebastiano curato da Irene (tela, 130 x 111 cm; Genova, Museo dei Beni Culturali Cappuccini)


Luigi Miradori detto il Genovesino, I funerali della Vergine
Luigi Miradori detto il Genovesino, I funerali della Vergine (tavola, 35,5 x 92,3 cm; Cremona, Museo Civico Ala Ponzone)


Luigi Miradori detto il Genovesino, Ultima cena
Luigi Miradori detto il Genovesino, Ultima cena (tavola, 27 x 44,5 cm; Collezione privata)

Le due sale successive c’introducono ai dipinti più insoliti della produzione del Genovesino. Si comincia con un’intera sala dedicata alla vanitas, tema tra i più frequentati dagli artisti in un’epoca di guerre, carestie diffuse, epidemie e sfiducia generalizzata, tema che costituì il macabro contraltare della magniloquenza barocca, e tema che Luigi Miradori, da uomo del suo tempo, praticò con assiduità, disinvoltura, e soprattutto con sensibilità tutta personale. I memento mori del Genovesino non hanno la freddezza funerea degli omologhi fiamminghi, non suscitano ribrezzo come quelli orripilanti di Jacopo Ligozzi, né includono momenti d’azione, o mirano a muovere a stupore l’osservatore. Le sue variazioni sul tema sono tutte contraddistinte da una grande leggerezza: accanto al macabro figura sempre un elemento delicato, che addolcisce la scena ottenendo, grazie a tal sapientissimo gioco di contrasti, il risultato di catturare l’osservatore inducendolo a soffermarsi su ogni singolo dettaglio della composizione. Un effetto simile suscita un’opera come il Cupido dormiente che s’addormenta appoggiandosi a un teschio con la bocca spalancata, dalla quale, particolare raccapricciante, fuoriesce un rospo (che riveste, in maniera più gentile, lo stesso ruolo che in dipinti simili d’altri artisti è ricoperto dagl’insetti: simbolo, dunque, di corruttibilità): la composizione potrebbe nuovamente derivare da incisioni di Goltzius, ma l’inventiva miradoriana riesce a rendere il tutto molto più soave garantendo alla nostra vista un paffuto Cupido dalle gote arrossate, addormentato, e un vaso di fiori (entrambi simboli di beni destinati a svanire: l’amore e la bellezza) che alleggeriscono la tetra presenza del teschio. Non mancano, tuttavia, memento mori più terrificanti: la Vanitas di Breno, acquisizione recente del catalogo del Genovesino, è semplicemente e terribilmente costituita da un teschio poggiato sopra una superficie insanguinata e accompagnato da un cartiglio che, in latino, recita “morieris” (“morirai”).

Che il pittore genovese avesse una certa inclinazione verso i temi insoliti, lo dimostrano diversi dipinti che notiamo nella sala successiva. Vale la pena citarne un paio: il primo è un Ritratto di Sigismondo Ponzone, piccolo membro della famiglia cremonese per la quale il Genovesino lavorò, e dalla cui raccolta ebbe origine il Museo Civico della città, che ospita l’esposizione. Eleganza e portamento da paggetto, il guardingo cagnolone che ci rimanda a ritratti d’area spagnola (e segnatamente a quelli di Velázquez, faceva notare Mina Gregori), e un originalissimo cartiglio con dedica al padre rendono questo bimbo di quattro anni uno dei ritratti più intensi del Seicento lombardo. E parimenti intenso è il dipinto che raffigura la regina Zenobia, prima e unica regina di Palmira, la città sulla quale regnò dal 267 al 272 dopo Cristo prima d’esser sconfitta e imprigionata dall’imperatore romano Aureliano: l’opera la raffigura proprio durante la sua prigionia, e dimostrerebbe la conoscenza, da parte dell’autore, del dramma La gran Cenobia di Pedro Calderón de la Barca, cui Luigi Miradori fu introdotto dal suo potente mecenate, don Álvaro Suárez de Quiñones, governatore spagnolo di Cremona.

Luigi Miradori detto il Genovesino, Cupido dormiente
Luigi Miradori detto il Genovesino, Cupido dormiente (tela, 76 x 61 cm; Cremona, Museo Civico Ala Ponzone)


Luigi Miradori detto il Genovesino, Vanitas
Luigi Miradori detto il Genovesino, Vanitas (tavola, diametro 28,5 cm; Breno, Museo Camuno - CaMus)


Luigi Miradori detto il Genovesino, 
Ritratto di Sigismondo Ponzone
Luigi Miradori detto il Genovesino, Ritratto di Sigismondo Ponzone (1646; tela, 131 x 100,5 cm; Cremona, Museo Civico Ala Ponzone)

Le ultime due sale sono dedicate a pale d’altare e a dipinti eseguiti durante l’ultima fase della carriera di Luigi Miradori. Tra le opere certe eseguite a Cremona figurano alcuni dipinti per la chiesa abbaziale di San Lorenzo: due di questi, la Natività della Vergine e la Decollazione di san Paolo, sono oggi conservati al Museo Civico “Ala Ponzone” e sono esposti in mostra. Due tele del tutto simili per formato e stile ma i cui soggetti giustificano due atmosfere totalmente differenti: la Natività è ambientata entro un interno domestico descritto con minuzia, intenso naturalismo (la fantesca seduta è una donna del popolo che palesa suggestioni spagnole) e non senza un certo gusto per il bizzarro (il bacile e la brocca, con le loro decorazioni mostruose), mentre nella Decollazione pare che anche il paesaggio e il cielo partecipino al dramma del santo che sta per subire il martirio per opera del muscoloso aguzzino che raccoglie le sue forze per sferrare con la spada a due mani il fendente fatale. Gli angioletti, in alto vicino alle nubi rosate che ricorrono nei dipinti del Genovesino, sono già pronti a premiare il santo con la palma del martirio, mentre in basso, sul masso che notiamo in primo piano e che offusca parzialmente la chiesa in lontananza, l’artista denuncia d’essersi scopertamente ispirato a un’invenzione del Guercino (un Martirio di san Giacomo Maggiore per la chiesa dei Santi Pietro e Prospero a Reggio Emilia oggi perduto, ma noto attraverso le incisioni, mezzo col quale forse anche Luigi Miradori conobbe l’opera guercinesca). Tutto calato nelle questioni teologiche del tempo è il Miracolo della mula, teso a far comprendere al fedele la verità della transustanziazione, riconosciuta anche dalla mula protagonista del dipinto. La leggenda vuole che sant’Antonio da Padova avesse fatto una scommessa con un eretico, proprietario d’una mula: l’animale sarebbe stato tenuto a digiuno e poi spronato a scegliere se fiondarsi su di un sacco colmo di biada, o se riverire l’ostia consacrata. Sant’Antonio, com’è normale immaginarsi, avrebbe vinto la scommessa: vediamo nel dipinto che la mula, malgrado il digiuno, sceglie d’inginocchiarsi di fronte al corpo di Cristo, tra lo stupore del suo padrone e degli astanti, alla fine di una strada che per Valerio Guazzoni potrebbe esser legata a ricordi della terra natale dell’artista (il contesto monumentale parrebbe infatti quello della Strada Nuova di Genova).

Nell’ultima sala ci accoglie l’Annunciazione di San Martino dell’Argine, un dipinto “di grande fascino e di aristocratica impostazione compositiva” (Marco Tanzi), compromesso però da una conservazione non ottimale che ha comportato cadute di colore. L’arcangelo sopraggiunge da sinistra, su di una nuvola, all’interno d’un edificio di respiro classico, e trova davanti a sé un’elegante Madonna già inginocchiata e con le delicate mani sul petto, e sopra un groviglio di putti che si precipitano per assistere alla scena: è un’opera dalla storia complessa, ch’è stata ricostruita in occasione della mostra grazie al determinante apporto di due giovanissime studiose (Martina Imbriaco e Giorgia Lottici), cui va il merito d’aver ritrovato, nell’Archivio Parrocchiale di Marcaria, un documento che attesta il nome del committente, il marchese Giulio Cesare Mainoldi, e quello della chiesa in cui il dipinto si trovava in origine (l’oratorio della Madonnina di San Martino dell’Argine). Superato il San Giovanni Damasceno del quale s’è detto in apertura, il visitatore troverà dinnanzi a sé una coppia d’interessantissime tavole, una che raffigura il martirio e l’altra la gloria di sant’Orsola: anche per questi dipinti, la mostra ha fornito occasione per ricostruirne le vicissitudini, grazie al lavoro di Giambattista Ceruti che ha proposto di identificarle come due ornamenti dell’apparato che, nel 1653, fu allestito in San Marcellino a Cremona per accogliere una reliquia del vescovo cremonese Bassano proveniente dalla Germania, terra in cui aveva subito il martirio. La storia di san Bassano è infatti legata a quella di sant’Orsola, assieme alla quale fu martirizzato a Colonia: nella prima opera lo vediamo in mezzo allo scompiglio generale (la tradizione vuole che Orsola sia stata uccisa assieme alle undicimila vergini che l’avevano accompagnata in un pellegrinaggio a Roma), nella seconda mentre è in cielo assieme alle compagne ascese tra i beati. Sono due dipinti contraddistinti da grande immediatezza, da altissima partecipazione emotiva a un dramma tremendo (la raffigurazione del martirio è probabilmente una delle più violente in tutta la storia dell’arte), da soluzioni iconografiche inusuali (sant’Orsola, nel dipinto del martirio, è in secondo piano) e da veri brani di virtuosismo (come quello dello sgherro in primo piano che, in controluce, fa scoccare una freccia dal suo arco).

La pala con la Santa Lucia di Castelponzone, e la sua replica più piccola da collezione privata, ci accompagnano verso l’opera con la quale possiamo congedarci dall’esposizione: il Riposo durante la fuga in Egitto, opera complessa della fase tarda della carriera del Genovesino, “da annoverare tra le interpretazioni più intense e originali dell’episodio evangelico offerte dalla pittura seicentesca” (così assicura la scheda di catalogo redatta da Francesca Bazza, Pamela Cremonesi e Lisa Marcheselli, altre giovani studiose coinvolte nel progetto). Lo stesso Genovesino era avveduto del fatto che la tela rappresenta uno dei Riposi più bizzarri del tempo: la firma dell’artista è infatti accompagnata, nel cartellino in basso a destra, dalla formula penicillorum ludus (“gioco di pennelli”). La scena principale si svolge a sinistra: una Madonna adolescente, naturalissima, bionda, accoglie sul grembo un Gesù Bambino che si stiracchia mentre san Giuseppe s’appoggia come di consueto al suo bastone, ma sta quasi per essere abbracciato con le ali dall’angelo che si trova a fianco a lui e partecipa all’intimità del momento portando le mani al petto. Ad accrescere il naturalismo, un altro angelo arriva con uno scialle a coprire le spalle di Maria, mentre l’intonazione sentimentale della scena in primo piano è ulteriormente garantita dai due putti sul bordo inferiore: tuttavia, se non fosse per le ali, questi ultimi ci apparirebbero destituiti di qualsiasi attributo celeste, dacché paion semmai due teneri bambini, una femminuccia che porta datteri alla Vergine, e un maschietto che regge il sacco della biada all’asino. A fare da quinta architettonica, rovine classiche sulle quali, in lontananza, si consuma il motivo della fuga in Egitto: la strage degli innocenti, raffigurata con cruda drammaticità (si notino i corpi che cadono nel vuoto). Proprio quanto accade sullo sfondo è la ragione che cancella qualunque sorriso da ogni volto: tutti i personaggi, dalla sacra famiglia ai due angioletti in primo piano fino al gruppo dei putti che svolazza nel cielo, sono pervasi da un velo di preoccupata tristezza. Un grande capolavoro, datato 1651, che assomma gran parte delle caratteristiche dello stile del Genovesino: gli accenti narrativi lombardi, il realismo caravaggesco, il colorito vivo, l’estrema versatilità iconografica, una certa teatralità barocca. Caratteristiche che, uscendo dal Museo Civico, possiamo ritrovare nelle Storie di san Rocco della Cattedrale (attenzione agli orari d’apertura: il principale edificio di culto della città chiude tra mezzogiorno e le tre e mezza), o nei due quadroni conservati al Palazzo Comunale, la straordinaria Moltiplicazione dei pani e dei pesci, enorme telero di gusto popolaresco di quasi cinque metri per otto, o l’Ultima cena in cui l’episodio evangelico sembra quasi (com’era per l’inedita Ultima cena di cui s’è parlato sopra) esser ambientato in una bettola del tempo. Tanto la Cattedrale quanto il Palazzo Comunale possono esser ritenuti parte integrante del percorso espositivo.

Luigi Miradori detto il Genovesino, Nascita della Vergine
Luigi Miradori detto il Genovesino, Nascita della Vergine (1642; tela, 188 x 276 cm; Cremona, Museo Civico Ala Ponzone)


Luigi Miradori detto il Genovesino, Decollazione di san Paolo
Luigi Miradori detto il Genovesino, Decollazione di san Paolo (1642; tela, 190,5 x 260 cm; Cremona, Museo Civico Ala Ponzone)


Il masso con il riferimento al Guercino
Il masso con il riferimento al Guercino


Luigi Miradori detto il Genovesino, Annunciazione
Luigi Miradori detto il Genovesino, Annunciazione (tela, 280 x 190 cm; San Martino dell’Argine, Santi Fabiano e Sebastiano)


Luigi Miradori detto il Genovesino, Martirio e Gloria di sant'Orsola
Luigi Miradori detto il Genovesino, Martirio e Gloria di sant’Orsola (entrambi: 1652; tavola, 208 x 85,2 cm; Cremona, Santi Marcellino e Pietro)


Dettaglio del primo piano del Martirio di sant'Orsola
Dettaglio del primo piano del Martirio di sant’Orsola


Luigi Miradori detto il Genovesino, Riposo durante la fuga in Egitto
Luigi Miradori detto il Genovesino, Riposo durante la fuga in Egitto (1651; tela, 328 x 220 cm; Cremona, Sant’Imerio)


Angioletto in primo piano nel Riposo durante la fuga in Egitto
Angioletto in primo piano nel Riposo durante la fuga in Egitto


Il cartellino nel Riposo durante la fuga in Egitto
Il cartellino nel Riposo durante la fuga in Egitto


La Madonna nel Riposo durante la fuga in Egitto
La Madonna nel Riposo durante la fuga in Egitto


La Moltiplicazione dei pani e dei pesci del Genovesino nel Palazzo Comunale di Cremona
La Moltiplicazione dei pani e dei pesci del Genovesino nel Palazzo Comunale di Cremona

Occorreva una mostra che proponesse una rivalutazione critica del Genovesino. La lacuna è stata finalmente colmata, con un’esposizione importante che raduna gran parte della produzione nota dell’artista e che s’estende anche al resto della città. Mostra di ricognizione e di ricerca, come del resto accade per ogni prima monografica, tanto più che ha costretto, scrivono i tre curatori, “a mettere ordine nella carriera” del Genovesino, con un lavoro tutt’altro che facile, dato che non sono molti i punti fermi che costellano la parabola di questo estroso pittore del diciassettesimo secolo, abile a sondare con destrezza i più svariati registri, da quello alto dell’arte religiosa fino a quello triviale della pittura di genere, senza disdegnare il macabro e il bizzarro e trovandosi a proprio agio anche con un intimo lirismo, con un’arte impegnata pregna di rimandi letterarî, con il naturalismo tipico del secolo e caratterizzato da una verve narrativa tipicamente lombarda. Un pittore talmente abituato a muoversi su più piani, che risulterebbero vani i tentativi di stilare una cronologia precisa, tanto che, prudentemente, i curatori non s’avventurano a ipotizzare datazioni per dipinti che non sian forti d’appigli certi: in tal senso, la mostra (il cui progetto ha coinvolto molti giovani del Dipartimento di Musicologia e Beni Culturali dell’Università di Pavia, che ha sede proprio a Cremona) è dunque anche “momento di verifica” sul quale gli studiosi possono confrontarsi. Una vera mostra di storia dell’arte, in definitiva, di quelle che consentono alla materia di progredire, e anche decisamente interessante per il pubblico.

Il Genovesino, giova sottolineare, non è solo un artista d’ambito locale: è un pittore estremamente affascinante, che seppe cogliere, malgrado la limitatezza del territorio geografico nel quale si mosse, spunti da realtà artistiche anche molto diverse tra loro, e calarsi entro le sue inquiete figurazioni equivale ad aprire un libro di storia del Seicento. Al di là dei sicuri interessi scientifici, c’erano dunque tutti i presupposti per una mostra in grado di parlare in modo chiaro e avvincente anche al grande pubblico: le aspettative, in tal senso, non son state disattese, dacché la mostra s’avvale anche d’un percorso didascalico molto efficace, forte peraltro di un’utilissima app per smartphone e tablet, scaricabile gratuitamente, che contiene informazioni aggiuntive e descrizioni di gran parte dei dipinti esposti. Il catalogo edito da Officina Libraria, con i suoi quattro concisi ma completi saggi (sulla fortuna critica, sulle esperienze giovanili, sull’attività a Cremona, sulle tematiche) funge da aggiornata monografia sul Genovesino e segna un nuovo, importante punto di riferimento per gli studî sull’artista.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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