Nella notte tra il 17 e il 18 ottobre del 1969, la Natività con i santi Lorenzo e Francesco di Caravaggio (Milano, 1571 – Porto Ercole, 1610), uno tra i più celebrati capolavori del pittore lombardo, veniva trafugata dal luogo in cui era collocata, l’oratorio di San Lorenzo a Palermo, e da allora non è mai più stata ritrovata. Sul clamoroso furto, attribuito alla mafia, si sono rincorse varie voci (tra le quali quelle più terribili che vogliono il dipinto andato distrutto), ma l’unica certezza è che, purtroppo, al momento non abbiamo piste sicure da seguire, e le speranze di ritrovare l’opera sono pressoché nulle. Malgrado le tristi circostanze, gli studi attorno al dipinto non sono certo cessati: tutt’altro.
Caravaggio, Natività con i santi Lorenzo e Francesco (1600; olio su tela, 268 x 197 cm; Palermo, già nell’oratorio di San Lorenzo, trafugata nel 1969) |
Il dipinto è stato per lungo tempo considerato opera realizzata dall’artista durante il suo soggiorno siciliano: Caravaggio si trattenne in Sicilia tra il 1608 e il 1609, e fino a qualche tempo fa si riteneva, con buon margine di sicurezza, che il pittore avesse atteso alla realizzazione della Natività proprio in quel frangente. Il “sospetto” che fosse quello il periodo d’esecuzione del dipinto era alimentato dalle testimonianze dei suoi primi biografi. Benché non siano pervenuti documenti che attestino un passaggio di Caravaggio da Palermo, Giovanni Baglione prima e Giovan Pietro Bellori poi parlano di un transito del pittore dal capoluogo siciliano. Se Baglione, nelle sue Vite de’ pittori, scultori et architetti del 1642, scriveva che Caravaggio “arrivato all’isola di Sicilia operò alcune cose in Palermo”, Bellori, trent’anni dopo, nelle sue Vite del 1672 gli faceva eco attestando che “scorrendo egli la Sicilia, di Messina si trasferì a Palermo, dove per l’Oratorio della Compagnia di San Lorenzo fece un’altra Natività”. Poiché il soggiorno a Messina si protrasse fino agli inizi del 1609 e dal momento che nell’estate dello stesso anno l’artista lombardo tornò a Napoli, stando alle dichiarazioni di Baglione e Bellori si pensò che la Natività fosse stata eseguita nel 1609.
Eppure, lo stile del dipinto si discosta da quello delle opere realizzate durante il soggiorno siciliano. Al punto che, fin dagli anni Venti del secolo scorso, gli studiosi cominciarono a interrogarsi sull’eventualità che la Natività fosse stata dipinta molto tempo prima della data alla quale per convenzione la si ascriveva. Il primo a instillare dei dubbi fu Enrico Mauceri, che nel 1924 proponeva di datare la Natività al periodo romano di Caravaggio, per pure ragioni stilistiche. Nel 1951 tornò sulla questione Edoardo Arslan, che individuò una certa vicinanza ai cromatismi del Romanino (Girolamo Romani, Brescia, 1484/1487 – dopo il 1562) e alle istanze morettesche (il cartiglio recante l’inno angelico “Gloria in excelsis Deo” tenuto dall’angelo che arriva in volo sopra ai protagonisti): somiglianze sufficienti a indurre a pensare che l’opera si allontanasse dalle opere delle fasi estreme della carriera di Caravaggio e a ritenere che potesse esser stata condotta in Sicilia dal Priore dell’Ospedale della Consolazione, luogo dove Caravaggio, nel 1600, era stato ricoverato. Un’altra intuizione giunse nel 1982 da parte di Alfred Moir, che concordava sul fatto che lo stile dell’opera era incompatibile con quello dei dipinti siciliani, e notava la somiglianza tra le dimensioni della Natività e quelle menzionate nel contratto che il pittore stipulò nel 1600 a Roma con un certo Fabio de’ Sartis (contratto nel quale, tuttavia, non si parlava di quale fosse il soggetto). Quest’ultimo altro non era che il mercante d’origine senese Fabio Nuti (“Fabio de’ Sartis” era semplicemente un errore di trascrizione dal documento), col quale Caravaggio, il 5 aprile del 1600, a Roma, aveva stipulato il succitato contratto, scoperto nel 1971, che prevedeva l’impegno, da parte dell’artista, a realizzare un’opera cum figuris (“con figure”: non erano però specificate nel documento), di 12 palmi d’altezza per 7 o 8 di larghezza. L’intuizione di Moir si rivelò decisiva, e sarebbe stata ripresa circa trent’anni più tardi da Maurizio Calvesi, che trovando pertinente una collocazione del dipinto al 1600, ipotizzò che, forse, proprio la Natività fosse il dipinto che il mercante senese aveva richiesto a Caravaggio.
Gli studiosi hanno così cominciato a chiedersi quale fosse il quadro cum figuris menzionato nel contratto: una possibile conferma riguardo alla “pista” che portava alla Natività (che, nell’intero corpus caravaggesco, è il dipinto le cui dimensioni più si avvicinano a quelle riportate nel contratto) è però giunta solo grazie alla scoperta di un documento che attesta i rapporti tra Fabio Nuti e Palermo. La prova di tale frequentazione è stata reperita nel 2012 da Giovanni Mendola: si tratta di una lettera di cambio, risalente al marzo del 1601, che attesta una transazione finanziaria tra Fabio Nuti (del quale erano già noti i rapporti commerciali con l’Italia meridionale) e Cesare de Avosta, uno dei confrati della Compagnia di San Francesco, che aveva sede presso l’Oratorio di San Lorenzo e tra i cui membri annoverava diversi mercanti. Certo, non si tratta di un documento che riguarda l’opera, ma è comunque una testimonianza importante, che ha dimostrato come tra il mercante senese e l’oratorio palermitano ci fossero dei collegamenti, ragion per la quale non è azzardato ipotizzare che la Natività sia stata commissionata da Fabio Nuti per l’oratorio di San Lorenzo, stante anche il fatto che l’opera doveva esser pronta per l’inizio dell’estate (in tempo, dunque, per esser consegnata all’oratorio entro la festività di san Lorenzo, il 10 agosto). Mancano prove definitive e incontrovertibili, ma il quadro è abbastanza completo da aver convinto diversi studiosi (da Claudio Strinati ad Alessandro Zuccari, da Francesca Curti a Keith Christiansen, da Clovis Whitfield a Vittorio Sgarbi).
Il parere cronologicamente più recente è quello di Nicola Spinosa, e lo presentiamo in questo articolo con un video inedito, che si può raggiungere cliccando qui: nella registrazione, effettuata durante un incontro tenutosi il 7 maggio scorso nell’ambito dello Sky Arte Festival (“Operazione Caravaggio. La tecnologia al servizio dell’arte perduta”, con Peter Glidewell, Nicola Spinosa e Jordi García Pons), si può ascoltare lo studioso di Caravaggio sostenere che “contrariamente a quanto si è sempre creduto, il dipinto non fu realizzato a Palermo [...]. In verità ormai è accertato che Caravaggio ha dipinto questa Natività mai pensando a che potesse andare nell’oratorio di San Lorenzo: ha dipinto quest’opera a Roma”.
I primi studiosi, del resto, avevano ben visto le somiglianze stilistiche tra la Natività e i dipinti romani di Caravaggio, e in molti hanno notato come certi motivi siano ricorrenti. Si può dunque, a questo punto, osservare il dipinto (ovviamente attraverso le riproduzioni) da più vicino. Il gruppo dei tre personaggi principali, ovvero Gesù Bambino, la Madonna e san Giuseppe, appare leggermente spostato sulla destra. Fulcro della narrazione, com’è lecito aspettarsi, è il piccolo Gesù che, posto al centro della composizione, poggiato nudo su un misero pagliericcio, non brilla più di luce propria, come accadeva a molti suoi omologhi che popolavano le Natività contemporanee, ma viene più realisticamente colpito dalla fonte luminosa a sinistra che taglia in due la sua figura illuminandone il volto e le spalle e lasciando nella penombra il resto del corpo. La stessa luce irradia il volto di Maria: è una bellissima popolana dai capelli castani, dalle sottili sopracciglia scure e dal volto affilato, presa a contemplare suo figlio. San Giuseppe è raffigurato, con una scelta iconografica molto originale, di spalle, come se, ponendo il santo nella posizione di chi osserva il dipinto, il pittore avesse voluto coinvolgere direttamente noi che guardiamo: vediamo la nuca coperta dai capelli bianchi e il corpo che compie una torsione per rivolgersi al personaggio che si trova dietro di lui e la cui identificazione è tuttora incerta (per taluni potrebbe essere fra’ Leone da Assisi, compagno e confessore di san Francesco: su tale opinione, tuttavia, non concorda Rodolfo Papa, che nella figura individua più semplicemente un anonimo pastore). San Giuseppe, con la mano destra, sta compiendo un cenno, come a voler invitare l’uomo ad adorare suo figlio. In tale attività risultano già impegnati san Lorenzo, a sinistra, e san Francesco, a destra, il primo santo titolare dell’oratorio a cui era destinato il dipinto, il secondo santo eponimo della compagnia che, come anticipato, presso l’oratorio palermitano aveva sede. La scena si svolge all’interno di una capanna coperta da un tetto di paglia ed è bilanciata, sulla sinistra, dall’angelo che sopraggiunge tenendo il cartiglio arrotolato al braccio sinistro.
Dettaglio con il Bambino, la Madonna e san Giuseppe |
A ben vedere, sono molti i particolari che distanziano la Natività dalle opere eseguite durante il soggiorno siciliano (la Resurrezione di Lazzaro e l’Adorazione dei pastori oggi al Museo Regionale di Messina, e il Seppellimento di santa Lucia nella chiesa di Santa Lucia a Siracusa). Per cominciare, tutte le opere siciliane di Michelangelo Merisi sono nettamente divise in due registri: quello superiore è sempre un grande spazio vuoto, che dalla Natività è del tutto assente. Inoltre, il dipinto trafugato presentava, almeno stando alle riproduzioni fotografiche di cui disponiamo, un colorito meno tetro e cupo rispetto a quello che caratterizza le opere siciliane, tutte dipinte, come scriveva Mauceri, “in condizioni d’animo abbastanza agitato, e con colori forse non buoni trovati sul luogo”. Ancora, le opere siciliane appaiono come inquadrate da lontano, con i personaggi che appaiono distanti, e non così vicini come invece accade per la Natività. Anche per tali ragioni è parsa a molti poco credibile la collocazione di un dipinto come la Natività vicina alle altre opere siciliane, rispetto a essa così profondamente diverse. E differenze riguardano anche il supporto: le analisi scientifiche effettuate sulla tela dimostrano che presenta le stesse caratteristiche tecniche dei grandi dipinti romani di Michelangelo Merisi, ben diverse da quelle dei dipinti siciliani eseguiti su più teli cuciti assieme (la Natività palermitana è invece stata dipinta su un’unica tela).
Caravaggio, La resurrezione di Lazzaro (1609; olio su tela, 380 x 275 cm; Messina, Museo Regionale) |
Al contrario, esistono invece diversi motivi che avvicinano il perduto dipinto palermitano alle opere realizzate durante il soggiorno romano, e in particolare a quelle eseguite in prossimità dell’impresa della Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, alla quale Caravaggio attese tra il 1599 e il 1602. La disamina potrebbe partire proprio dalla bellissima Vergine, i cui tratti somatici rassomigliano a quelli della Giuditta conservata a Roma, a Palazzo Barberini, e le cui ricerche più recenti hanno proposto di datare al 1602, incontrando largo favore da parte della critica. Impressionante poi la somiglianza, notata da Michele Cuppone, tra la figura di san Giuseppe e quella del soldato che appare nel Miracolo di san Matteo che resuscita il figlio del re di Etiopia, uno degli affreschi che il Cavalier d’Arpino (Giuseppe Cesari, Arpino, 1568 – Roma, 1640) eseguì nella Cappella Contarelli prima che il lavoro passasse al più giovane artista milanese: la posa dei due personaggi è praticamente identica. Similitudini accomunano poi il profilo di san Lorenzo all’uomo che, nella Vocazione di san Matteo, vediamo a sinistra, chino sul tavolo, colto nell’atto di contare le monete. Ancora, si potrebbe guardare l’angelo della Natività e confrontarlo con il San Matteo e l’angelo dipinto per la Cappella Contarelli, dove l’angelo appare in una posa del tutto simile a quella del suo omologo palermitano: un particolare che, a detta di Alessandro Zuccari, “dimostra che il Merisi non solo riutilizzava lo stesso modello, ma ne riproponeva anche la posa già studiata e sicuramente già disegnata”. A tali similitudini occorre poi aggiungere i ricordi lombardi che, a pochi anni dal suo trasferimento a Roma, dovevano essere ancora in certa misura freschi, a giudicare dall’angelo che reca un cartiglio che, come ricordato sopra, ad Arslan ricordava i cartigli, spessi, pesanti e spiegazzati, che i putti del Moretto (Alessandro Bonvicino, Brescia, 1498 circa – 1554) reggevano in molte sue opere (ne sono esempi l’Adorazione dei pastori con i santi Nazario e Celso della chiesa dei Santi Nazario e Celso a Brescia, o l’Adorazione dei pastori eseguita per la chiesa di Santa Maria della Ghiara a Verona e oggi conservata a Berlino). Possibile che Caravaggio, a Palermo, durante una fase particolarmente concitata della propria esistenza, serbasse così vive le suggestioni romane?
Confronto tra la Giuditta del 1602 e la Madonna della Natività palermitana |
Confronto tra l’angelo del san Matteo e l’angelo della Natività di Palermo |
Confronto tra il soldato del Cavalier d’Arpino e il san Giuseppe di Caravaggio |
Confronto tra l’uomo nella Vocazione di san Matteo e il san Lorenzo della Natività |
L’angelo della Natività palermitana |
Moretto, Adorazione dei pastori con i santi Nazario e Celso, dettaglio degli angeli (1540; olio su tela, 380 x 320 cm; Brescia, Collegiata dei Santi Nazaro e Celso) |
Il colorito è chiaro come quello degli anni romani, la luce radente come quella di San Luigi dei Francesi, dei dettagli s’è ampiamente detto: qualora volessimo tornare a ipotizzare una datazione “siciliana”, si tratterebbe di un caso unico. Il risultato, comunque, è un notturno coinvolgente che ci permette di assistere a una scena intima, capace di muovere più d’un osservatore a commozione, grazie al tono toccante con cui Michelangelo Merisi tratta le sue “scoperte pittoriche”, come ebbe a scrivere Roberto Longhi, dal “San Giuseppe in giubbotto verde elettrico e nella grande ritrosa della lustra canizie”, passando per “i semitoni ombrosi dei due animali da presepio” e per l’angelo “bresciano, ma che spiomba dall’alto come un giglio scavezzato dal proprio peso”, fino a giungere al “bambino miserando, abbandonato a terra come un guscio di tellina buttato”.
Oggi non possiamo più godere dell’originale, e in sua mancanza, il 12 dicembre del 2015 è stata posta, sull’altare dell’oratorio di San Lorenzo che accoglieva il dipinto di Caravaggio, una riproduzione realizzata da Factum Arte, società specializzata nella creazione di riproduzioni artistiche ad alta fedeltà. Una riproduzione condotta sulla base di una sola delle due immagini fotografiche a colori note dell’opera di Caravaggio: una foto scattata da Enzo Brai nel 1967, utilizzata da Adam Lowe, fondatore di Factum Arte, e dalla sua squadra, e un’ulteriore immagine del 1964, conservata presso l’Archivio Scala. L’immagine meno recente non è stata presa in considerazione dai tecnici, malgrado le diversità nella resa rispetto alla fotografia del 1967: una mancanza che dovrebbe far riflettere sul tema della riproducibilità delle opere d’arte, argomento spesso trascurato rispetto ad altri, sicuramente più urgenti e più pressanti, ma non per questo meno importante. E che diventa vitale laddove, come nel caso della Natività di Palermo, gli originali siano andati perduti e occorra affidarsi in via esclusiva alle riproduzioni. Il lavoro di ricostruzione del dipinto, pur non potendo certo sopperire alla mancanza dell’originale, ha rivestito comunque una notevole importanza affinché Palermo potesse tornare a godere almeno dello spirito che ha animato l’opera di Caravaggio.
L’altare nell’oratorio di San Lorenzo prima del 2015, con una semplice riproduzione della fotografia Brai. Copyright Factum Arte |
L’altare oggi con la riproduzione di Factum Arte. Copyright Factum Arte |
Bibliografia di riferimento
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo