Un affresco medievale “buddhista” nel Palazzo Corboli di Asciano


Nel Museo Civico di Palazzo Corboli ad Asciano esiste un affresco, dei senesi Cristoforo di Bindoccio e Meo di Pero, che raffigura una leggenda d'origine buddhista.

Entrando nella sesta sala del Museo Civico di Palazzo Corboli ad Asciano, conosciuta anche come Sala di Aristotele, possiamo incontrare, affrescate sulle pareti, alcune bizzarre e inusuali ruote colme di figure e di episodi. Sono opere attribuite all’estro di due pittori senesi del Trecento, Cristoforo di Bindoccio (Siena, documentato dal 1361 al 1407) e Meo di Pero (Siena, documentato dal 1370 al 1407), che furono compagni di bottega e realizzarono assieme diverse imprese. L’attribuzione ai due colleghi degli affreschi ascianesi è un fatto recente: il primo a riferirli alla loro mano fu lo storico dell’arte Alessandro Bagnoli, che rilevò affinità stilistiche con gli affreschi della cappella dello Spedale di Santa Maria della Scala a Siena e con le Storie della Vergine della chiesa di Santa Maria a Campagnatico: sono entrambi cicli di cui conosciamo le date con esattezza (il 1370 per gli affreschi senesi, il 1393 per quelli di Campagnatico), e la freschezza delle pitture di Asciano permetterebbe di situare la loro collocazione temporale in prossimità del ciclo di Santa Maria della Scala. Una datazione che appare peraltro del tutto compatibile con l’acquisizione, da parte degli abitanti di Asciano, della cittadinanza senese, che fu loro concessa dalla Repubblica nel 1369.

Delle ruote che vediamo sulle pareti, quella che più attira il nostro interesse è quella meglio conservata, che si trova, solitaria, sulla parete nord-est, la più corta. È composta, a sua volta, da nove ruote: una più grande al centro, e otto che la circondano a guisa di corona, ognuna decorata con una storia e accompagnata da un’iscrizione esplicativa, a mo’ di didascalia. Al centro troviamo una rarissima figurazione tratta dalla leggenda di Barlaam, una rivisitazione cristiana del mito del Buddha, che trovò una fortunata diffusione nell’Europa del Medioevo: protagonista è il principe indiano Iosafat (o Ioasaf: altri non è che il Siddhārtha Gautama della tradizione buddhista) che, cresciuto tra i piaceri mondani nella reggia di suo padre, il re Abenner, e tenuto lontano dai mali del mondo al fine di impedirgli di conoscerli, s’imbatté un giorno in un cieco, un lebbroso, un vecchio e un cadavere, e comprese dunque che il mondo era ben diverso da come lo aveva conosciuto, e che l’esistenza poteva essere anche piena di dolore. Iosafat incontrò poi un eremita cristiano, Barlaam: tramite gli insegnamenti del saggio, Iosafat decise di convertirsi e di abbandonare le cose mondane per dedicarsi, al contrario, a una vita ascetica di meditazione. Abenner tentò invano di convincerlo a tornare sui suoi passi, ma Iosafat riuscì persino a convertire il padre: dopo la morte di quest’ultimo, e dopo aver dunque ereditato il regno, Iosafat vi rinunciò, preferendo continuare la sua vita ascetica assieme a Barlaam.

Asciano, la facciata del Museo Civico di Palazzo Corboli
Asciano, la facciata del Museo Civico di Palazzo Corboli


La parete con la ruota di Barlaam
La parete con la ruota di Barlaam


Cristoforo di Bindoccio e Meo di Pero, Ruota di Barlaam
Cristoforo di Bindoccio e Meo di Pero, Ruota di Barlaam (1370 circa; affresco, Asciano, Museo Civico di Palazzo Corboli)

Fin dall’Ottocento si tentò di ricostruire il modo in cui il mito era giunto in Europa dall’Oriente, ma la genesi del fortunato romanzo medievale ha trovato ordine grazie ai recenti studi del filologo Robert Volk, che in Italia hanno avuto ampia eco nell’edizione della Storia di Barlaam e Ioasaf curata nel 2012 da Silvia Ronchey e Paolo Cesaretti. Il racconto buddhista arrivò in Europa tramite la mediazione islamica: nel X secolo, il teologo sciita Ibn Bābūya al-Qummī, componeva il suo kitāb Kamāl-ad-dīn (“libro della perfezione della religione”), e alla stessa epoca risale un altro libro, il kitāb Bilawhar wa Būdāsaf (“libro di Bilawhar e Būdāsaf”), in cui venivano narrate le vicende di un principe che incontrava un eremita da cui riceveva insegnamenti. Erano entrambe opere che derivavano da precedenti narrazioni d’origine persiana, e dalle quali, a loro volta, dipendeva una traduzione in lunga georgiana, il Balavariani, libro che fece da tramite tra Oriente e Occidente e diede di fatto il via alle “versioni cristianizzate” della storia: l’opera infatti, a sua volta, sarebbe stata tradotta in greco da un monaco del monte Athos, Eutimio il georgiano (Georgia, 955 - Monte Athos, 1028). La traduzione greca sancì l’inizio della grande diffusione in tutta Europa: una cosiddetta “Vulgata” latina fece la sua comparsa nel dodicesimo secolo, e da quest’ultima trassero origine le svariate traduzioni nelle lingue volgari, oltre a ulteriori versioni in latino. In Italia, la diffusione del mito buddhista si deve soprattutto a due opere, lo Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais (Beauvais?, 1190 circa - 1264) e la Legenda aurea di Jacopo da Varazze (Varazze, 1228 - Genova, 1298): entrambi gli autori inserirono il racconto di Barlaam e Iosafat nei loro testi. Gli stessi nomi dei due protagonisti rimandano all’origine buddhista del mito: “Iosafat” deriva dall’adattamento arabo (“Būdāsaf”) dell’appellativo sanscrito bodhisattva (nel buddhismo è l’essere umano che aspira al “bodhi”, l’illuminazione spirituale, ovvero il fine del percorso religioso), mentre “Barlaam” è la “traduzione” dell’arabo Bilawahr (attestato anche come “Balawahr”, poi diventato il georgiano “Balavari”), benché in quest’ultimo caso la trasformazione in “Barlaam” sia un po’ più complessa, in quanto molti rilevano come sulla forma “Barlaam” abbia influito anche una certa confusione con un santo martire del IV secolo, san Barula (“Barlaha” in alcune lingue). Ad ogni modo, la radice sarebbe da rintracciare nell’aggettivo “Bhagavān” (“il glorioso”, “il venerabile”), epiteto del Buddha.

La leggenda di Barlaam e Iosafat finì poi per entrare anche nelle opere degli artisti: quella di Asciano è la figurazione più complessa poiché accoglie, unico caso di cui siamo a conoscenza, diverse scene a sostegno della “tesi” dell’affresco, rappresentata dalla famosa parabola di Barlaam, l’apologo dell’unicorno, che occupa la ruota centrale dell’affresco ascianese e che troviamo in altre opere, anche precedenti (in una delle lunette del Battistero di Parma, opera di Benedetto Antelami, in un affresco nell’abbazia cistercense delle Tre Fontane a Roma collocabile tra il XIII e il XIV secolo, e ancora in un trecentesco rilievo della Cattedrale di Ferrara e in un ulteriore rilievo sul portale della cappella di Sant’Isidoro in San Marco a Venezia). Il racconto narra di un uomo inseguito da un unicorno imbizzarrito, al punto da rischiare di cadere in un precipizio, se non si fosse aggrappato a un albero. Il pericolo dell’unicorno sembra scampato, ma ci sono due topi, uno bianco e uno nero, che rodono la base dell’albero, ci sono dei serpenti che impediscono all’uomo di scendere a terra, e soprattutto in fondo al burrone c’è un minaccioso drago che aspetta famelico lo sventurato. L’uomo trova però su uno dei rami dell’albero un favo di miele, e decide di non preoccuparsi più dell’unicorno, dei topi, dei serpenti e del drago. L’apologo ha dato adito a svariate interpretazioni: diamo conto di quella del filologo e orientalista Max Müller (Dessau, 1823 - Oxford, 1900), secondo il quale l’unicorno (elemento introdotto, peraltro, nella traduzione di Eutimio: nelle versioni indiane, il pericolo è costituito da un elefante) rappresenta la morte, l’albero la vita, i topi il giorno (quello bianco) e la notte (quello nero) e il loro atto di consumare l’albero lo scorrere del tempo, i serpenti sono gli elementi di cui è composto il corpo umano, il drago gli inferi e il favo di miele i piaceri effimeri dell’esistenza. Nell’arte medievale, l’apologo assume il compito di dimostrare la fugacità della vita e la vanità delle passioni mondane: tale è l’interpretazione di Jacopo da Varazze, secondo il quale l’uomo, invece di preoccuparsi della salvezza, si lascia irretire da frivolezze che causeranno la sua perdizione. Cristoforo di Bindoccio e Meo di Pero, nell’affresco di Asciano, si mantengono piuttosto fedeli alla tradizione: l’unicorno e il drago, come in diverse altre rappresentazioni, si dispongono ai lati dell’albero. Subito sotto di loro vediamo i topi che hanno già rosicchiato buona parte del fusto della pianta, mentre l’uomo è in piedi sulla chioma, nell’atto di agguantare il favo di miele. L’aspetto interessante della ruota di Asciano è che ogni singolo particolare viene interpretato: così, accanto ai topi troviamo le scritte Die e Notte, poi ai lati dell’albero, per indicare l’uomo, ecco la didascalia Quilibet h(ab)et in mu(n)do (“Chiunque abiti nel mondo”, dove il mondo, per gli autori dell’affresco, è rappresentato dall’albero) e infine, per illustrare l’intera scena, l’epigrafe Hic est omnis homo decieptus ab arbore mundo (“Questo è ogni uomo ingannato dall’albero del mondo”).

L'apologo dell'unicorno
L’apologo dell’unicorno

Su come questa leggenda possa esser arrivata fino ad Asciano, è presto detto: nella Siena mistica del tempo di santa Caterina, la storia di Barlaam e Iosafat ebbe un grande successo, tanto che lo stesso segretario di santa Caterina, il letterato Neri di Landoccio Pagliaresi (Siena, 1350 circa - 1406), che peraltro ebbe anche alcuni incarichi ad Asciano, ne compose un adattamento in versi. Per comprendere invece perché si trovi in una delle pareti di Palazzo Corboli occorre qualche delucidazione sull’edificio, che adesso mantiene il nome di una delle famiglie che ne detennero la proprietà, ma che in realtà fu fatto costruire nel XIII secolo dalla potente famiglia Bandinelli. Per un certo periodo di tempo, nel secolo successivo, ovvero nell’epoca in cui Asciano faceva parte della Repubblica di Siena (sotto la quale il feudo passò nel 1285), l’edificio ricoprì funzioni pubbliche: probabilmente è in questo palazzo che aveva sede l’antica amministrazione della città, e gli affreschi che ne decoravano le pareti avevano lo scopo di guidare la cittadinanza. Fine ultimo era quello di spronare la comunità locale a perseguire il bene comune: questo è il messaggio che tutti gli affreschi di Palazzo Corboli sottendono, e la Ruota di Barlaam, col suo chiaro invito a coltivare la virtù e a lasciar perdere i vizi, è del tutto conforme allo scopo. La Ruota di Barlaam, peraltro, sarebbe anche l’unico caso noto in cui la scena trova spazio entro un edificio destinato a uso pubblico: le altre figurazioni che conosciamo, infatti, furono tutte realizzate per chiese o edifici sacri. Particolare, questo, che contribuisce ad aumentare il pregio e l’importanza dell’opera.

Continuando la lettura dell’affresco, nelle otto ruote che accompagnano quella con la parabola dell’unicorno, troviamo altrettante storie che si riferiscono a morti ingloriose di re e personaggi notevoli dell’antichità, come a voler sottolineare che la perdizione non risparmia neppure chi in terra ha raggiunto i più alti gradi del potere. Protagonista del tondo più alto è Nerone, identificato dalla scritta “Nero”, che si uccide con una spada (l’imperatore aveva infatti perso l’appoggio del Senato, che l’aveva deposto). Andando avanti in senso orario, troviamo subito la meno leggibile delle ruote: con ogni probabilità si tratta della morte di Pompeo (la lacunosa scritta “peio” potrebbe essere la parte finale del suo nome), ucciso su una barca da due sicari inviati da Tolomeo, re d’Egitto, che voleva ingraziarsi Cesare eliminando il suo rivale, ma in realtà ottenne l’effetto opposto. Ecco quindi la ruota di "Priamo re di Troia padre d’E(ttore)“, che sta per essere ucciso da Pirro durante le concitate fasi finali della guerra di Troia. La quarta ruota è quella di ”el secondo Scipione Africhano de Cornelli": è Scipione Emiliano che viene assassinato mentre dorme. La ruota più bassa è quella di "el grande Ciro re di Persia", mentre sta per essere decapitato per volere di Tomiri, regina dei massageti che avevano sconfitto i persiani in battaglia. Nella sesta ruota vediamo Assalonne, “(A)s(al)one fili(uolo) de re Davit”, che viene ucciso con tre lance da Ioab, generale dell’esercito di re David, perché aveva tentato di usurpare il trono del padre. La settima ruota narra la morte di Agamennone, assassinato al suo ritorno dalla guerra di Troia dalla moglie Clitennestra con l’aiuto dell’amante di quest’ultima, Egisto. L’ottava e ultima ruota è dedicata a Falaride, tiranno di Agrigento, celebre per la crudeltà e finito vittima di una congiura.

Le ruote di Nerone e Pompeo
Le ruote di Nerone e Pompeo


Le ruote di Priamo e Scipione
Le ruote di Priamo e Scipione


Le ruote di Ciro e Assalonne
Le ruote di Ciro e Assalonne


Le ruote di Agamennone e Falaride
Le ruote di Agamennone e Falaride

La narrazione segue concettualmente le tre ruote della parete attigua, che troviamo di fianco alla porta dagli stipiti decorati con la balzana senese, lo stemma della città a fasce bianche e nere. La prima che incontriamo raffigura il sogno di Nabucodonosor, che aveva sognato una grande statua d’oro, d’argento e di bronzo, d’acciaio e d’argilla: l’aveva vista ergersi per poi cadere abbattuta da una pietra. Il sogno, raccontato nel libro del profeta Daniele, alludeva alla caduta del suo regno e all’avvento del regno di Dio. La seconda ruota vede al centro la figura del filosofo Aristotele, esempio di virtù e personificazione della sapienza, che dà nome a tutta la sala e che “presenta” gli esempi del locale: lo vediamo nel quadrato centrale, a sua volta al centro di un grande quadrato inscritto nella ruota e suddiviso in nove settori, che alternano quadrati e quadrilobi. Purtroppo le tre figure in alto sono danneggiate, ma riusciamo a distinguere le altre, benché talvolta l’identificazione non sia delle più semplici. In basso abbiamo, ai lati, la Fortezza e la Temperanza nei quadrati (la prima con l’attributo della pelle di leone, simbolo di forza, la seconda che come da tipica iconografia mescola acqua calda e acqua fredda) e al centro un personaggio difficilmente leggibile, che così come gli altri nei quadrilobi dovrebbe incarnare un esempio connesso a una delle quattro virtù (dobbiamo immaginare che nel registro superiore figurassero la Prudenza e la Giustizia). Infine, nell’ultima ruota, troviamo il giudizio di Salomone. È il celebre episodio biblico in cui il saggio re, per dirimere una disputa tra due madri che si contendevano un bambino, ordinò di dividere a metà il figlio con la spada: la vera madre, pur di vedere il figlio vivere, supplicò di darlo all’altra, così Salomone capì quale delle due fosse la vera madre e poté dare il bambino alla donna giusta.

Una lunga e complessa narrazione che invitava dunque gli ascianesi del Trecento, come detto, a perseguire il bene comune tramite l’esercizio delle virtù e l’abbandono delle passioni terrene: il tutto inserito nella significativa forma della ruota, che forse alludeva alle altalenanti sorti decise dalla fortuna. Intento non dissimile da quello degli affreschi del buono e del cattivo governo che Ambrogio Lorenzetti (Siena, 1290 circa - 1348) aveva dipinto qualche decennio prima nella Sala dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena e dei quali quelli di Asciano costituiscono una ripresa: un approfondito studio della compianta storica dell’arte Maria Monica Donato afferma che nell’impresa di Cristoforo di Bindoccio e Meo di Pero ci sembra di leggere “le prime citazioni monumentali note del ciclo che Ambrogio Lorenzetti distese, nel 1337-1340, sulle pareti della Sala dei Nove”. Sono diverse le similitudini rilevate da Maria Monica Donato, e per rendersene conto basterebbe anche soltanto guardare alla figura del protagonista dell’apologo dell’unicorno e confrontarlo con il primo cavaliere dell’affresco degli “effetti del buon governo in campagna”, del quale sembra essere quasi una citazione. Non è l’unico caso, e questi continui riferimenti dovrebbero avvalorare l’ipotesi di una stretta dipendenza degli affreschi di Asciano da quelli di Siena, nell’ambito di un continuo programma di educazione dei cittadini attraverso le immagini che la Repubblica di Siena portò avanti con costanza e perseveranza.

La parete con la ruota di Aristotele
La parete con la ruota di Aristotele


Cristoforo di Bindoccio e Meo di Pero, Ruota di Aristotele
Cristoforo di Bindoccio e Meo di Pero, Ruota di Aristotele (1370 circa; affresco, Asciano, Museo Civico di Palazzo Corboli)

Da rilevare poi la grande portata culturale degli affreschi di Asciano che, pur essendo opera in un borgo periferico, hanno comunque molto da condividere con il centro, rappresentato da Siena: basti l’esempio della ruota di Aristotele, che precede di quarant’anni il ciclo dell’Anticappella di Palazzo Pubblico a Siena, realizzato nel 1415 da Taddeo di Bartolo (Siena, 1362 circa - 1422), e che è fondato su un programma iconografico che presenta diverse differenze (basti il fatto che, nella più colta Siena, le iscrizioni sono in latino, al contrario di quelle di Asciano che sono per lo più in volgare) ma che è anch’esso volto a celebrare le Virtù e Aristotele come filosofo che indica la strada da seguire (anzi: la figura dell’Anticappella ha molte affinità con quella di Asciano, a cominciare dalla posa e dall’atto di reggere il cartiglio con avvertimenti morali). Non potendo supporre, secondo Maria Monica Donato, che le pitture della periferia avessero costituito un precedente per il centro, anche in ragione delle diversità dei due cicli, occorre comunque rilevare come la sostanziale autonomia degli affreschi di Palazzo Corboli, nei quali la figura di Aristotele appare iconograficamente slegata dalle precedenti raffigurazioni del filosofo e rappresenta un ulteriore caso più unico che raro, risulti “emergenza carsica di un’autorevole tradizione trecentesca oscurata, che ad Asciano s’immagina riecheggiata, nell’Anticappella sviluppata, aggiornata, adattata ad un clima mutato e alla peculiarità della struttura del locale”.

S’aggiunga a ciò l’estrema rarità di trovare dipinta su muro la leggenda di Barlaam e Iosafat (che in Italia troviamo affrescata solo in due casi: qui ad Asciano, e nella già citata abbazia delle Tre Fontane di Roma), e soprattutto di trovarla inserita, assieme agli exempla di cui è corredata, in un programma iconografico d’utilità pubblica rivolto all’intera cittadinanza: un importante unicum che non ha altri riscontri. Dati che, da soli, sarebbero sufficienti per esaltare la singolarità di questi affreschi, tra i più preziosi del Trecento europeo.

Bibliografia di riferimento

  • Silvia Ronchey, Introduzione. Il Buddha bizantino, in Silvia Ronchey, Paolo Cesaretti (a cura di), Storia di Barlaam e Ioasaf. La vita bizantina del Buddha Einaudi, 2012
  • Francesca Tagliatesta, Les représentations iconographiques du IVe apologue de la légende de Barlaam et Josaphat dans le Moyen Âge italien in Arts Asiatiques, 64 (2009), pp. 3-26
  • Alessandro Bagnoli, Gli affreschi dell’antico palazzo Bandinelli ad Asciano in Cecilia Alessi (a cura di), Palazzo Corboli. Museo d’arte sacra, Protagon, 2002, pp. 59-70
  • Rossella Tarchi, Claudio Turrini (a cura di), Musei e raccolte d’arte sacra in Toscana, Cooperativa Firenze, 2000
  • Maria Monica Donato, Barlaam e Iosafat in Enciclopedia dell’arte medievale, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1991–2000, vol. 3, pp. 99-102
  • Maria Monica Donato, Un ciclo pittorico ad Asciano (Siena), Palazzo Pubblico e l’iconografia “politica” alla fine del Medioevo in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia, Serie III, Vol. 18, No. 3 (1988), pp. 1105-1272


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo





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