Non è un’opera semplice, il trittico di Badia a Rofeno, dipinto tra i più interessanti di Ambrogio Lorenzetti (Siena, 1285 circa - 1348) e attualmente conservato presso il Museo Civico di Palazzo Corboli di Asciano, nel centro storico della cittadina immersa tra le crete senesi. Affascinante quanto problematico, è un dipinto sul quale hanno pesato a lungo (e, per certi aspetti, pesano tuttora) diversi interrogativi. In che occasione fu eseguito, e a chi era destinato? In quale periodo della carriera di Ambrogio Lorenzetti lo si può collocare? Per quale ragione le misure di certe parti che lo compongono appaiono tanto incongruenti con il resto dell’opera? Qual è il significato della scena così inusuale che compare nella tavola centrale?
Ambrogio Lorenzetti, Trittico di Badia a Rofeno (1332-1337 circa; tempera e oro su tavola, 258 x 230 cm; Asciano, Museo Civico di Palazzo Corboli) |
Ambrogio Lorenzetti, il Trittico di Badia a Rofeno sulla sua parete |
Ambrogio Lorenzetti, il Trittico di Badia a Rofeno nella sua sala al Museo Civico di Palazzo Corboli di Asciano |
Un restauro, terminato nel 2011, ha contribuito a fugare molti dei dubbi che aleggiavano attorno all’opera. Un restauro che s’era reso necessario per le condizioni di conservazione in cui l’opera versava tra il 2005 e il 2006. Occorre però partire da più indietro nel tempo, almeno dagli anni Quaranta del Novecento, quando la Soprintendenza senese stabilì di rimuovere il trittico dalla chiesa dei Santi Jacopo e Cristoforo dell’abbazia di Rofeno, nei dintorni di Asciano: l’edificio infatti era stato costruito su un terreno particolarmente delicato e instabile da un punto di vista geologico, e le continue lesioni subite dalla chiesa avevano messo a repentaglio la sopravvivenza delle opere in essa contenute. Non si trattava di una situazione nuova: già agli inizî del Novecento si era presentata una situazione simile, che aveva portato l’allora Soprintendente a far rimuovere il trittico dalla sua sede e a farlo restaurare. L’opera, tuttavia, risulta di nuovo presente nell’abbazia nel corso degli anni Venti. Ma la tranquillità del dipinto trecentesco ebbe vita breve: l’opera lasciò definitivamente la chiesa abbaziale nel 1941 per esser inviata ad Arezzo, dove rimase fino al 1952, anno d’apertura del nuovo Museo d’Arte Sacra di Asciano, che fu allestito nella locale chiesa di Santa Croce e che ospitò opere d’arte e oggetti liturgici provenienti dalle chiese del territorio. Cinquant’anni più tardi, nel 2002, fu aperto l’attuale Museo Civico di Palazzo Corboli, che somma una sezione archeologica a quella riservata all’arte sacra: il dipinto fu trasferito nella nuova sede, ma alcuni problemi relativi al microclima dell’edificio (poi fortunatamente risolti grazie a un programma d’analisi e d’intervento studiato dall’allora direttrice del museo, Milena Pagni, dall’Ufficio tecnico del Comune di Asciano, dalla Soprintendenza e dall’Opificio delle Pietre Dure) ne aggravarono le condizioni di conservazione, al punto da rendere necessario il restauro, il quarto della storia dell’opera, avvenuto presso i laboratori dell’Opificio delle Pietre Dure a Firenze.
Le alterazioni microclimatiche del museo avevano infatti comportato dei sollevamenti di colore che andavano risarciti, ma non solo: si rendeva necessario un risanamento del supporto ligneo, e soprattutto occorreva comprendere come comportarsi di fronte alla cornice cinquecentesca, attribuita al monaco olivetano fra’ Raffaello da Brescia (al secolo Roberto Marone, Brescia 1479 - Roma 1539), entro la quale il trittico fu successivamente assemblato. I restauratori sono partiti con la velinatura dell’opera, ovvero hanno applicato strati di carta giapponese sulla superficie al fine di mettere in sicurezza le porzioni più delicate e soggette a perdita di colore. Dopo aver trascorso qualche tempo in un ambiente a clima controllato, onde far sì che l’umidità del supporto si equilibrasse con quella dell’ambiente, il dipinto è stato separato dalla sua ricca cornice intagliata e si è passati all’intervento per risanare il supporto ligneo (gli obiettivi erano tenere sotto controllo le naturali deformazioni del legno, e consolidare il supporto contro l’azione di agenti esterni) per poi procedere con una pulitura che ha permesso di rimuovere antiche ridipinture e materiali aggiunti in modo non pertinente nei restauri precedenti, e quindi con una stuccatura necessaria al fine di consentire la fase successiva: il restauro pittorico, ovvero il difficile e laborioso reintegro, laddove possibile, delle lacune. La verniciatura per garantire una maggior protezione al trittico ha concluso i lavori.
Il trittico di Badia a Rofeno nella cornice cinquecentesca durante la velinatura |
Fra’ Raffaello da Brescia, Cornice del trittico di Badia a Rofeno (primo decennio del XVI secolo, legno intagliato, dorato e policromato, 258 x 230 cm; Asciano, Museo Civico di Palazzo Corboli) |
Parallelamente al restauro sono stati condotti approfonditi studî che hanno permesso di far luce su molti punti oscuri che ancora attendevano d’essere chiariti. Prima occorre però dare un’occhiata al dipinto, uno dei più splendidi e alti esempî di pittura senese del Trecento, opera di un maestro tra i più grandi del suo secolo. Grande protagonista del trittico di Ambrogio Lorenzetti è san Michele, a cui spetta lo scomparto centrale. Sta lottando contro il demonio, che tuttavia non assume le tipiche fattezze della serpe o del drago: è un orrido rettile a sette teste, dotato di ali e zampe, sta già soccombendo nella lotta ma è ancora vivo ed energico, e l’arcangelo s’appresta ad assestargli un colpo. Lo vediamo in una posa molto energica, vigorosa, dinamica, mentre con la mano destra sta per far cadere con forza la spada sul nemico, con espressione intensa e concentrata. Le sue ali sono spiegate e occupano tutto il pannello in larghezza, e lo stesso vale per il mantello, che si apre in arzigogolati, raffinati e innaturali volteggi, particolarmente graditi ai pittori della scuola senese. L’elegante armatura è finemente ornata di decorazioni che paiono quasi uscire dalla bottega di un orafo. Ai lati, negli scomparti laterali, troviamo a sinistra san Bartolomeo, mentre a destra incontriamo san Benedetto. Sul san Bartolomeo c’è una curiosità: in antico gli fu aggiunto un bastone da pellegrino, perché all’epoca del trasferimento dell’opera nell’abbazia di Rofeno (non fu infatti questa la sua destinazione originaria) si volle dotare il dipinto del santo titolare della chiesa in cui il trittico sarebbe stato collocato. Un bastone veniva dunque ritenuto sufficiente a tramutare san Bartolomeo in san Giacomo (ovvero san Jacopo, la variante del nome “Giacomo” particolarmente diffusa in Toscana). Infine, il registro superiore: al centro, al posto di una più usuale Annunciazione o di un più frequente Padreterno, troviamo, caso unico nell’arte senese del tempo, una delicata Madonna col Bambino, mentre ai lati la accompagnano san Giovanni Evangelista a sinistra, e san Ludovico da Tolosa a destra.
Cominciamo a scoprire l’opera più da vicino cominciando dal suo autore. Per diverso tempo, infatti, s’è ritenuto che il trittico di Badia a Rofeno non fosse opera di Ambrogio Lorenzetti, benché l’attribuzione all’artista senese abbia una storia che comincia fin dal 1912, e cioè da quando, per la prima volta, lo studioso Giacomo De Nicola, che ricollegava l’opera agli scomparti del polittico lorenzettiano oggi conservati all’Opera del Duomo di Siena e che raffigurano i santi Caterina d’Alessandria, Benedetto, Francesco e Maria Maddalena, formulò il nome di Ambrogio. Eppure, non tutti accolsero con favore la proposta di De Nicola: c’era chi, come Hayden Maginnis, la riteneva opera di Ambrogio, ma col concorso della bottega, chi ipotizzava si trattasse d’opera della sua scuola, chi individuava mani distinte e ci fu anche chi (George Rowley nella sua monografia su Ambrogio del 1958) si spinse a inquadrare il lavoro nella produzione di un artista identificato col convenzionale (e in certo modo rassicurante) nome di “maestro di Rofeno”. C’è comunque da dire che, con molta coerenza, Rowley aveva riferito a questo ipotetico “maestro di Rofeno” anche i quattro santi del frammentario polittico senese citato poc’anzi: del resto è puntualissimo il riscontro del volto della Madonna di Rofeno con quello della Maddalena dell’Opera del Duomo.
Ma sono anche altri i particolari che ormai hanno portato la critica a concordare pressoché unanimemente su un’autografia lorenzettiana. Valga l’esempio di un’altra Madonna col Bambino, quella del trittico della chiesa di San Procolo oggi conservato alla Galleria degli Uffizi: è del tutto assimilabile (così, giustamente, sosteneva Miklos Boskovits in quello che sarebbe stato l’ultimo saggio scritto prima della sua scomparsa, occorsa il 20 dicembre del 2011) alla Madonna che campeggia nella cuspide del trittico di Badia a Rofeno. Circostanza che permetterebbe, peraltro, di datare il dipinto a un periodo non lontano da quel 1332 al quale risale il trittico fiorentino, che il pittore firmò e datò (benché ci sia anche chi sostiene di spostarla più avanti nel tempo, stanti le somiglianze con la Maestà di Massa Marittima). Scriveva Boskovits: “Le due giovani mamme dal volto affilato e dagli occhi a mandorla sembrano sorelle gemelle, e similissimi sono anche i due bimbi grassocci impegnati a giocare - o almeno così sembra - con la madre”. Quel particolare gesto del Bambino che tira il velo della madre a mo’ di scherzo è in realtà, per Boskovits, una prefigurazione del momento in cui Cristo, “prima di essere crocifisso, sarà privato delle vesti e allora, stando alla leggenda, toccherà a Maria togliersi dal capo il velo e coprire le nudità del figlio”.
Ambrogio Lorenzetti, Trittico di Badia a Rofeno, pannelli laterali: a sinistra, san Giovanni Evangelista (sopra) e san Bartolomeo (sotto); a destra, san Ludovico di Tolosa (sopra) e san Benedetto (sotto) |
Ambrogio Lorenzetti, Trittico di Badia a Rofeno, Cuspide con Madonna e Bambino |
Ambrogio Lorenzetti, Quattro scomparti di polittico: santa Caterina d’Alessandria, san Benedetto, san Francesco, santa Maria Maddalena (1335 circa; tempera su tavola; Siena, Museo dell’Opera del Duomo). Credit |
Ambrogio Lorenzetti, Trittico di san Procolo (1332; 171 x 143 cm; Firenze, Uffizi) |
Si potrebbe poi continuare con le straordinarie invenzioni iconografiche del dipinto, proprie di un pittore di grandissimo talento quali pochi potevano essere, e Ambrogio Lorenzetti, artista innovatore e continuo sperimentatore, era nel novero di quanti riuscivano a inventare in continuazione nuove soluzioni. Della Madonna nella cuspide e della sua unicità nell’ambito della pittura senese s’è già detto, ma c’è anche altro. Il san Michele dello scomparto centrale è animato da una tensione che non trova riscontri precedenti: altri artisti (ancora Boskovits parlava di Buffalmacco e di Bernardo Daddi), nel raffigurare l’arcangelo Michele, s’erano mantenuti su figure di più salda e pacata monumentalità, con il diavolo già ampiamente sconfitto, o tutt’al più in procinto d’esser sopraffatto. Non era un tema nuovo: nuovo era il modo in cui veniva affrontato. La lotta, qui, è in pieno svolgimento: Satana è ancora ben attivo e pericoloso e, come notava lo storico dell’arte ungherese, san Michele non lo sottovaluta e “raccoglie tutte le sue forze per colpire il mostro”, con uno scatto che in raffigurazioni simili non ha precedenti. E anche un successivo san Michele di Ambrogio Lorenzetti, quello realizzato per l’eremo di Lecceto, in provincia di Siena, si mantiene in una posa più elegante e composta e combatte con sicurezza e precisione, più che con forza ed energia. Per Boskovits, la rappresentazione del trittico di Badia a Rofeno aveva dunque un significato ben preciso, che passava anche dalla raffigurazione del demonio come un drago a sette teste.
Un’immagine, quest’ultima, tratta dal capitolo 12 dell’Apocalisse di san Giovanni: “Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava giù un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire per divorare il bambino appena nato. Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e il figlio fu subito rapito verso Dio e verso il suo trono”. Poco dopo, l’Apocalisse narra la battaglia tra san Michele e il drago: “scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme con i suoi angeli, ma non prevalsero e non ci fu più posto per essi in cielo. Il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e Satana e che seduce tutta la terra, fu precipitato sulla terra e con lui furono precipitati anche i suoi angeli”. Sono almeno due i punti che il dipinto ha in comune con il testo biblico: le sette teste e la coda che trascina “un terzo delle stelle del cielo” (vediamo il cielo raffigurato nel giro che compie la coda del mostro). Non ci sono quindi dubbi sul fatto che Ambrogio Lorenzetti abbia voluto rifarsi con certa precisione alle parole dell’Apocalisse. Ma per quale ragione? Ancora Boskovits prova a formulare un’ipotesi, che vuole il dipinto come richiesta d’aiuto alle sfere divine contro un pericolo incombente. Quale fosse, non è dato sapere: ma è probabile che l’allusione sia a una complicata “situazione politica o politico-ecclesiastica” i cui riferimenti, all’epoca, potevano essere colti da un pubblico piuttosto ampio.
Ambrogio Lorenzetti, Trittico di Badia a Rofeno, dettaglio del san Michele che lotta contro il diavolo |
Ambrogio Lorenzetti, Trittico di Badia a Rofeno, volto di san Michele |
Ambrogio Lorenzetti, Trittico di Badia a Rofeno, dettaglio del drago a sette teste |
A sinistra: Buffalmacco, San Michele (1320-1330 circa; tempera su tavola, 203 x 75 cm; Arezzo, Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna). Credit. A destra: Bernardo Daddi, San Michele (1320-1348 circa; tempera su tavola, 210 x 110 cm; Crespina, San Michele) |
Un pubblico che, di certo, non dovette limitarsi a quello dei monaci dell’abbazia di Rofeno. Un ulteriore problema, quindi, è capire da dove l’opera provenga: e dato anche che il “finto san Jacopo” di cui s’è detto sopra costituiva una sorta d’aggiunta posteriore, l’abbazia di Rofeno non poteva essere l’originaria sede del trittico di Ambrogio Lorenzetti. A sbrogliare la matassa ha provato Cecilia Alessi nel volume sul trittico pubblicato, dopo il restauro, da Edifir. C’è, intanto, una frase nelle Vite di Giorgio Vasari che fornisce una prima indicazione: “Ambruogio, finalmente, nell’ultimo di sua vita fece con molta sua lode una tavola a Monte Oliveto di Chiusuri”. Che l’opera fosse stata commissionata da monaci olivetani è ormai acclarato, stante il fatto che san Michele è uno dei santi protettori del monastero di Monte Oliveto Maggiore, nei pressi di Asciano, vicino alla frazione di Chiusure. Alla stessa committenza si lega poi la figura di san Benedetto, per il fatto che la congregazione dei monaci olivetani fa parte dell’Ordine di San Benedetto, e segue la regola del santo umbro. Inoltre, gli olivetani s’insediarono nell’abbazia di Rofeno solo nel 1375: particolare che esclude definitivamente il luogo che dà il nome al dipinto come sua collocazione originaria. Il trittico di Badia a Rofeno è un’opera, sottolinea Cecilia Alessi, “dipinta con profusione di metalli” e “dotata di una cornice importante e preziosa”: probabile che quindi i monaci non fossero gli unici fruitori e che l’opera fosse destinata a una chiesa frequentata dalla popolazione e che al contempo intratteneva rapporti con i monaci olivetani. Una probabile candidata è la chiesa di San Michele a Chiusure. C’è anche chi, tuttavia, ritiene plausibile una provenienza dalla stessa abbazia di Monte Oliveto Maggiore.
Un’ultima notazione riguarda la forma del dipinto: l’opera infatti, nel Cinquecento, fu ritagliata per adattarla al gusto del tempo, ed è certo che alcune parti dell’originario polittico siano andate perdute durante l’operazione (la predella, anzitutto). Il restauro ha permesso di riscoprire parti dell’originaria cornice trecentesca, verde e con decorazioni geometriche, che trova riscontro in un trittico del fratello di Ambrogio, Pietro Lorenzetti, conservato nella Basilica Inferiore di San Francesco ad Assisi. Il formato che Ambrogio Lorenzetti adoperò per il suo trittico era piuttosto recente: una grande tavola centrale, più larga rispetto a quelle tradizionali, con una scena e non più con l’immagine di un santo, e affiancata da due tavole laterali. È un formato tipicamente senese, e nello stesso periodo lo troviamo nella celeberrima Annunciazione di Simone Martini.
Per consentire al pubblico una più agevole lettura dell’opera (e della sua ritrovata cornice), s’è deciso di esporla al Museo Civico di Palazzo Corboli ad Asciano separata dalla carpenteria cinquecentesca. Il pubblico che entra nella sala che ospita il trittico di Badia a Rofeno vedrà dunque da una parte il dipinto, e dall’altra la cornice. Sono le due uniche opere esposte nell’ambiente: una scelta particolarmente indicata per dare valore a una delle opere più importanti, più affascinanti e più problematiche dell’arte del Trecento.
Bibliografia di riferimento
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo