Il visitatore non dovrà farsi ingannare dal titolo che, all’apparenza, parrebbe ammiccare al pubblico delle fiction, data la risonanza internazionale che hanno avuto le vicende dei Borgia raccontate in una recente e fortunata serie televisiva: Pintoricchio. Pittore dei Borgia è una mostra molto seria, capace di fondere con raffinata sapienza un’anima prettamente divulgativa e un interessante progetto di ricerca che svela al pubblico un inedito pinturicchiesco di altissimo livello. Occorre però procedere per gradi, perché la mostra, che si tiene a Roma, al terzo piano del Palazzo dei Conservatori, e che è forte d’un comitato scientifico di livello (a una specialista del Pinturicchio come Claudia La Malfa s’aggiungono i nomi di Cristina Acidini, Francesco Buranelli e Claudio Strinati, in collaborazione con Franco Ivan Nucciarelli), comincia lasciando che l’osservatore familiarizzi tanto col contesto storico, quanto con l’arte del Pinturicchio (vero nome Bernardino di Betto, Perugia, 1454 circa - Siena, 1513). Si cerca di perseguire due obiettivi principali: il primo, approfondire il legame che unì il pittore umbro a papa Alessandro VI (al secolo Roderic Llançol de Borja, italianizzato in Rodrigo Borgia, Xàtiva, 1431 - Roma, 1503) e che portò l’artista a realizzare per lui uno dei più grandi capolavori del Rinascimento, la decorazione dell’Appartamento Borgia del Palazzo Apostolico in Vaticano. Il secondo, presentare la ricca mole di studî che hanno portato a riunire due frammenti d’un dipinto murario dell’artista avente per soggetto l’Investitura divina di Alessandro VI: un dipinto staccato in antico, quindi diviso, e successivamente addirittura inventariato dal suo proprietario con numeri lontani tra loro onde far sì che i lacerti figurassero come opere a sé stanti. Una parte dell’originale risulta, peraltro, non più rintracciabile: conosciamo tuttavia l’aspetto dell’opera da una copia d’inizio Seicento di Pietro Fachetti (Mantova 1535 – Roma 1613), esposta in mostra.
Il rischio, infatti, era quello di perpetuare la memoria di un’opera che destò scandali e di minare la reputazione del proprietario anche a secoli di distanza dall’epoca della realizzazione. Il programma iconografico del dipinto prevedeva che il papa Alessandro VI s’inginocchiasse di fronte alla Madonna col Bambino al fine d’esser da quest’ultimo investito del ruolo di pontefice, e quindi di guida suprema della Chiesa: tuttavia, una diceria che dobbiamo immaginare in circolo all’epoca dei fatti (l’opera fu presumibilmente dipinta attorno al 1492, anno in cui Rodrigo Borgia salì al soglio pontificio col nome di Alessandro VI), e “certificata” qualche decennio più tardi dalle Vite di Giorgio Vasari, finì col condizionare la fortuna dell’opera, e in parte anche quella dello stesso Pinturicchio. Più nello specifico, al tempo circolava la voce che la Madonna avesse le sembianze di Giulia Farnese, amante di Alessandro VI malgrado la pesante differenza d’età tra i due (nel 1492, Alessandro VI aveva sessantun anni, mentre Giulia ne aveva appena diciassette): una condizione che attirò sulla giovane numerose critiche, ben sintetizzate dall’epiteto blasfemo di sponsa Christi (“sposa di Cristo”) che le fu affibbiato dai contemporanei più velenosi. Nell’edizione del 1550 delle Vite, come s’accennava, Vasari parlò di un’opera che raffigurava “sopra la porta d’una camera la Signora Giulia Farnese per il volto d’una Nostra Donna: et nel medesimo quadro la testa di esso Papa Alessandro”, riferendosi inequivocabilmente al dipinto che, per ragioni di damnatio memoriae, fu ben presto censurato, fin dai tempi del successore di Alessandro VI, ovvero il suo acerrimo rivale Giulio II, che abbandonò l’appartamento del Palazzo Apostolico perché non riusciva a tollerare la vista degli affreschi che tanto smaccatamente celebravano il papa spagnolo e che tanto erano chiacchierati.
S’arriverà più avanti a discettare del dipinto nello specifico perché, come detto sopra, la mostra inizia con altri presupposti. L’impianto dell’esposizione appare severamente tripartito: a una prima parte che funge da introduzione al contesto storico entro cui si mossero le vicende dei protagonisti ne segue una seconda che vuol presentare al visitatore significati e fonti iconografiche dell’Appartamento Borgia, e infine una conclusione che conduce il pubblico alla scoperta del “mistero svelato” di Giulia Farnese. Non s’avvertono però nette cesure tra le diverse sezioni. La mostra, infatti, assume i contorni d’un piacevole racconto che procede per gradi, con grande coerenza, e avvalendosi d’un allestimento votato alla sobrietà: le opere sono sistemate direttamente sopra le pareti bianche degli ambienti riservati alle mostre temporanee dei Musei Capitolini e sono accompagnate da pannelli, anch’essi bianchi, particolarmente curati e approfonditi.
Ultima sala della mostra Pintoricchio. Pittore dei Borgia. Ph. Credit Finestre sull’Arte |
Allestimenti della mostra Pintoricchio. Pittore dei Borgia. Ph. Credit Finestre sull’Arte |
Entrando, ci s’imbatte subito in un’opera del Pinturicchio, sistemata in apertura di percorso onde permettere al visitatore di cogliere fin da subito le peculiarità dello stile dell’artista umbro. È un Crocifisso tra i Santi Girolamo e Cristoforo, opera giovanile databile al 1477 circa, quasi sicuramente scomparto d’un altarolo portatile, e particolarmente significativa dacché lascia presagire gli sviluppi futuri dell’arte del Pinturicchio, anticipando momenti che ritroveremo negli affreschi del Palazzo Apostolico e nei dipinti di fine Quattrocento: la delicatezza peruginesca rivisitata però secondo quelle forme nervose che diventeranno una specifica tipica dell’arte del Pinturicchio, le minuzie descrittive del paesaggio d’ascendenza fiamminga, le lievi lumeggiature dorate, tratti ai quali s’aggiunge lo spiccato interesse per il dato naturale, proprio del Pinturicchio giovane, che qui s’evince dalla cura con la quale l’artista descrive le bestiole (pesci, palmipedi, bisce d’acqua) che popolano il fiume in cui si bagna san Cristoforo. Proprio in quegli anni il Pinturicchio, che aveva cominciato a imporsi in Umbria presso i più importanti committenti locali, s’era spostato a Roma dove aveva cominciato a farsi un nome presso la corte papale. La città, all’epoca, era in gran fermento: i papi che si succedettero dalla metà del secolo in avanti cominciarono un’imponente opera di risistemazione di molti degli edifici di una Roma che, come ci dimostra la cromolitografia ottocentesca, realizzata a partire da un disegno del 1474 di Alessandro Strozzi, che riproduce una pianta della Roma di metà XV secolo, conservava ancora il proprio aspetto medievale (ed è più o meno come viene disegnata nella cartina che doveva presentarsi agli occhi del Pinturicchio). Un forte impulso fu garantito dai papi Sisto IV e Innocenzo VIII, gli immediati predecessori di Alessandro VI: il primo risollevò dal degrado l’ospedale di Santo Spirito, fece sistemare, tra le altre, le chiese di Santa Susanna e di San Vitale, fece edificare Santa Maria della Pace e soprattutto diede il via ai lavori della Cappella Sistina, che da lui prende nome. Il secondo si distinse, nel campo delle arti, per aver chiamato a Roma il grande Andrea Mantegna al fine di affidargli la decorazione della cappella e della sagrestia del palazzetto del Belvedere in Vaticano: verosimilmente, il Pinturicchio guardò anche alle sue opere nel momento in cui l’artista veneto soggiornò in città, nel 1490.
Chiudono la prima sezione tre ritratti della famiglia Borgia: il più celebre è quello di Altobello Melone, ritratto di gran qualità che raffigura un condottiero tradizionalmente identificato come Cesare Borgia, il Valentino, il figlio che il papa (allora cardinale) ebbe dalla sua amante Vannozza Cattanei (il ritratto di lei che osserviamo in mostra è opera di Innocenzo Francucci da Imola). La presenza dei ritratti del Valentino e di Vannozza Cattanei pare tuttavia accessoria dato che le loro figure, in mostra, non vengono in alcun modo approfondite. Più funzionale invece ad accompagnarci verso la seconda parte del percorso espositivo è il ritratto di Alessandro VI attribuito a Tiziano: è attorno a lui che si dipana il prosieguo del racconto, focalizzato però non tanto sull’Alessandro VI abile mestatore politico, bensì sul ruolo che l’arte del Pinturicchio assunse nei programmi di celebrazione che il papa intendeva perseguire, e ovviamente sulle vicende a cui andarono incontro le opere di committenza borgiana dopo la fine del pontificato di Alessandro VI. Sui motivi che indussero Rodrigo Borgia a scegliere proprio il Pinturicchio interviene Cristina Acidini col suo saggio in catalogo, che parla di come l’artista umbro avesse già lavorato in Vaticano sia per Sisto IV (fu collaboratore del Perugino nei lavori della Cappella Sistina: non abbiamo gran contezza di quale fosse stato di preciso il suo ruolo, certo è che all’epoca fosse già un pittore “dotato di una sua precisa fisionomia”) sia per Innocenzo VIII (lavorò nel palazzetto di Belvedere assieme a Piermatteo d’Amelia). Benché non sia ancora chiaro come pittore e pontefice fossero entrati in contatto, è lecito attendersi che il papa dovette accorgersi del Pinturicchio per i risultati di rilievo da lui ottenuti in precedenza, per la sua padronanza di tecniche diverse, per la capacità d’affrontare con disinvoltura e sapienza tanto i temi sacri quanto i temi profani: “Nell’arco della sua esperienza”, sottolinea Cristina Acidini, “il Pintoricchio si era mostrato a suo agio, in base alla conoscenza della pittura e della scultura dei venerati Antichi, ma anche all’aggiornamento continuo sulle più apprezzare conquiste dei Moderni, nell’organizzare apparati pittorici di intere stanze con vedute di paesaggi naturali con belle città e nobili monumenti. Sapeva comporre storie complesse, popolate di figure dalle armoniose sembianze e dai colori impeccabilmente distribuiti, così come organizzare rassegne di immagini isolate, dalla suggestiva aura archeologica, curando i dettagli - dove autografi - con la sua finezza di miniatore”.
Pinturicchio, Crocifisso tra i Santi Girolamo e Cristoforo (1477 circa; olio su tavola, 59 x 44 cm; Roma, Galleria Borghese) |
Josef Spithöver (cromo-litografia), F. Fazzone (disegno) da Alessandro Strozzi, Pianta di Roma nel XV secolo (1879; cromolitografia, 289 x 342; Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe) |
Altobello Melone, Ritratto di gentiluomo (Cesare Borgia?) (1513 circa; olio su tavola, 58,1 x 48,2 cm; Bergamo, Accademia Carrara) |
JAttribuito a Tiziano, Ritratto di Alessandro VI Borgia (1535-1545 circa; olio su tavola; Collezione privata) |
Tali eccezionali abilità trovarono naturale compiutezza negli affreschi dell’Appartamento Borgia, alcuni dei quali presenti con riproduzioni nella successiva sezione della mostra (l’invito, tuttavia, è quello di recarsi ai Musei Vaticani per ammirare gli originali). Il sontuoso apparato, teso a magnificare il pontefice spagnolo legittimando il suo potere anche su base mitologica, s’avvale d’un programma iconografico complesso che pesca a piene mani dal repertorio figurativo dell’arte classica, e alla mostra occorre riconoscere il merito di rendere evidenti questi ritorni che spesso assumono i contorni della citazione diretta. Ma l’artista non si limitò a riprendere motivi classici. La volontà era quella di fare dell’Appartamento Borgia, al quale il Pinturicchio lavorò all’incirca tra il 1492 e il 1494, una nuova Domus Aurea: la grande residenza di Nerone era stata riscoperta in quegli anni e il pittore umbro fu il primo a “riportare in vita da sotto terra”, spiega Claudia La Malfa nel suo saggio in catalogo, “lo stile, la tecnica pittorica e a stucco, a rilievo, le partizioni geometriche, gli elementi decorativi che si intrecciano a quelli narrativi, i marmi e le incrostazioni di vario genere, e infine le grottesche del grandioso palazzo fatto costruire dall’imperatore romano Nerone sul Colle Oppio a Roma”. Possiamo immaginare che questo revival fosse dettato dalle esigenze celebrative di Alessandro VI: gli intellettuali attivi presso la sua corte (su tutti Annio da Viterbo) incaricarono il Pinturicchio del non facile compito di far coesistere, in un unico programma iconografico, i miti dell’antico Egitto, quelli della Roma classica, e ovviamente le storie di Gesù Cristo e dei santi. Il presupposto politico alla base del progetto, ipotizzava Franco Ivan Nucciarelli in un suo lungo saggio sul Pinturicchio del 1998, era quello di suggerire, nella situazione anomala di una monarchia non fondata sulla continuità dinastica, l’idea che i Borgia avrebbero potuto porsi come continuatori degli imperatori, perseguendo “la volontà di trasformare lo Stato della Chiesa in un principato ereditario nelle mani di una famiglia”. Quali che fossero le motivazioni alla base del ciclo, certo è che gli affreschi che lo compongono finissero con l’assumere un peso notevole nel determinare il gusto dell’epoca: lo studioso Jürgen Schulz, in un articolo del 1962, arrivò ad asserire che l’influenza del Pinturicchio si estese anche sulle Stanze di Raffaello e sugli affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina.
E altrettanto certo è che, per l’artista di Perugia, l’arte classica avesse costituito continua fonte d’ispirazione. La figura della santa Barbara nella sala dei Santi dell’Appartamento Borgia è una perfetta derivazione da una Latona in fuga esposta in mostra, così come una Afrodite che funse da modello per la Susanna che troviamo nello stesso ambiente, o come il Putto che strozza l’oca direttamente citato in uno degli affreschi della volta della sala (quelli che celebrano il mito di Iside e Osiride), e ancora la Cerva che vediamo ripresa sempre nella scena di Susanna e i vecchioni, o i sarcofagi con cortei marini e vittorie che reggono clipei, motivi ispiratori per i putti che, nell’Appartamento, sostengono lo stemma dei Borgia.
Affreschi dell’Appartamento Borgia in Vaticano. Ph. Credit Finestre sull’Arte. |
Putti che reggono lo stemma dei Borgia nell’Appartamento Borgia. Ph. Credit Finestre sull’Arte |
Sarcofago con thiasos marino (prima metà del III sec. d.C.; iscrizione IV-V sec. d.C.; marmo insulare, 67 x 214 x 73 cm; Roma, Musei Capitolini) |
Fanciullo che strozza l’oca (media età imperiale; marmo forse pentelico, altezza 93,5 cm; Roma, Musei Capitolini, Palazzo Nuovo). Ph. Credit Finestre sull’Arte |
Statuetta di Afrodite tipo Louvre-Napoli (prima metà del I sec. d.C.; marmo pentelico, altezza 118 cm; Roma, Musei Capitolini, Centrale Montemartini). Ph. Credit Finestre sull’Arte |
Statuetta di Latona in fuga (prima età imperiale; marmo lunense; Roma, Musei Capitolini, Centrale Montemartini). Ph. Credit Finestre sull’Arte |
Statua di cerva (tarda età ellenistica; marmo greco insulare; Roma, Musei Capitolini, Centrale Montemartini). Ph. Credit Finestre sull’Arte |
La grande raffinatezza del Pinturicchio si disvela alfine, al pari del “mito” di Giulia Farnese, nell’ultima sezione della mostra romana. Del dipinto che un tempo ornava l’Appartamento Borgia (e che fu dapprima coperto sotto il pontificato di Pio V, proprio nel periodo in cui veniva pubblicata la seconda edizione delle Vite di Vasari che tanto nocquero alla fama dell’artista, e quindi staccato sotto Alessandro VII) non rimangono che due frammenti, quelli che raffigurano la Madonna e il Bambino. Il ritratto di Alessandro VI fu probabilmente distrutto al momento dello stacco: evidentemente Alessandro VII (al secolo Flavio Chigi, papa dal 1655 al 1667), seppur non scandalizzato dalla leggenda che aleggiava attorno al dipinto, non voleva passare come il pontefice che avrebbe riabilitato la memoria di Rodrigo Borgia. Di Alessandro VI sopravvive solamente la mano sinistra che vediamo nel frammento noto, appunto, come il “Bambin Gesù delle mani”, rintracciato nel 2004 da Nucciarelli, che lo fece acquistare dalla Fondazione Guglielmo Giordano di Perugia. L’altro frammento, quello in cui osserviamo il dolce viso della Madonna che si voleva rappresentasse Giulia Farnese, viene esposto e pubblicato per la prima volta in occasione della mostra capitolina.
I due frammenti si nutrono del confronto con la Madonna della Pace prestata dalla Pinacoteca Civica di San Severino Marche: eseguita all’incirca negli stessi anni (siamo attorno al 1489), è un capolavoro di raffinatezza esecutiva, di eleganza decorativa, di dolcezza ma anche di solidità monumentale. Tutte caratteristiche che ci appaiono osservando soprattutto la Madonna col Bambino, ma anche gli angeli che li accompagnano, il paesaggio sullo sfondo, nonché il committente, ovvero il protonotaio apostolico Liberato Bartelli, raffigurato con quella veridica somiglianza che il Pinturicchio, da abile ritrattista qual era, sapeva infondere ai soggetti da immortalare. Da un confronto tra i volti delle due Madonne apparirà subito chiaro come essi appartengano allo stesso tipo, che caratterizza tutte le opere analoghe realizzate dal pittore umbro in questo periodo: un confronto che non dovrebbe lasciar adito a dubbi circa il fatto che la Vergine, più che rappresentare una persona reale, sia da considerare alla stregua d’un modello ideale. Quello che si palesa dinnanzi ai nostri occhi, riprendendo le parole di Francesco Buranelli, è un “viso estremamente ascetico e sfinato, pieno di amorevole concentrazione e assorto compiacimento nei confronti della scena alla quale sta assistendo, senza nessuna ricerca ritrattistica”: se l’artista avesse davvero voluto conferire una connotazione realistica al volto della Madonna, avrebbe potuto farlo senza alcun problema, anche in virtù del fatto che i dipinti dell’Appartamento Borgia sono pieni di ritratti di personaggi contemporanei. Si tratta d’un dipinto che sottende un altro significato, come la copia di Fachetti esposta in mostra ci lascia pienamente comprendere. Quello che Alessandro VI aveva in mente era più d’un semplice omaggio alla Madonna, era più d’un normale dipinto di devozione nel quale il committente veniva raffigurato in ginocchio, ai piedi delle due divinità. Particolarmente rivelatorî sono il gesto del pontefice che accarezza il piede del Bambino, la benedizione di quest’ultimo, e il globo che regge tra le mani. È una sorta di coronamento di tutto il programma dell’Appartamento Borgia, che ha nella salvezza per fede il tema teologico principale. La salvezza è possibile solo attraverso Cristo, e Alessandro VI è il suo vicario in terra: la sua carezza rappresenta il momento in cui Rodrigo Borgia accetta l’alta missione di cui Gesù lo investe. Il globo rappresenta, ovviamente, l’universalità del messaggio di Cristo, ma simboleggia anche l’universalità del mandato di Alessandro VI.
Pietro Fachetti, Investitura divina di Alessandro VI, copia dal dipinto murario del Pinturicchio (1612; olio su tela, 115,5 x 124 cm; Collezione privata) |
Pinturicchio, Madonna, frammento della distrutta Investitura divina di Alessandro VI (1492-1493 circa; dipinto murario entro cornice seicentesca, 39,5 x 28,5 x 5 cm; Collezione privata) |
Pinturicchio, Bambin Gesù delle mani, frammento della distrutta Investitura divina di Alessandro VI (1492-1493 circa; dipinto murario entro cornice seicentesca, cm 48,6 x 33,5 x 6,5 cm; Perugia, Fondazione Guglielmo Giordano) |
Pinturicchio, Madonna della Pace (1489 circa; olio su tavola, 143 x 70 cm; San Severino Marche, Pinacoteca Civica Tacchi-Venturi) |
Il dipinto è in sostanza particolarmente rappresentativo delle ambizioni d’un pontefice che si considerava scelto da Cristo in persona, più che da un conclave di cardinali: una celebrazione e allo stesso tempo un monito, in accordo con l’indole del personaggio. Certo: oggi siamo attirati dalla bellezza eterea della giovanissima Madonna, dalla tenerezza del Bambino, dal virtuosismo tecnico di un pittore di eccezionale talento, un “trend setter” ante litteram, e dalle preziosità del suo pennello che trova un valido alleato nelle decorazioni a stucco ricoperte d’oro zecchino che conferiscono una tangibile tridimensionalità al dipinto. Ma occorre anche ricondurre l’opera al suo significato teologico e politico, al netto di leggende che, pur con tutto il loro carico d’innegabile fascino, poco o niente hanno a che vedere con la storia dell’arte. E in quest’abile opera di smascheramento d’una leggenda plurisecolare fondata su una diceria, la mostra riesce benissimo: il rigore è, del resto, quanto si chiede a un’esposizione. Tuttavia è altrettanto vero, e la mostra del Palazzo dei Conservatori lo dimostra, che il rigore possa anche benissimo sposarsi a un abile racconto che, senza uscire dai binari della serietà scientifica, della fondatezza e della coerenza logica (si può dire che non esista, in Pintoricchio. Pittore dei Borgia, una singola opera fuori posto), può farsi profondamente avvincente per qualsiasi visitatore.
Peccato solo che sul catalogo si potesse fare di più: interessante per fare il punto sul rapporto tra il Pinturicchio e i Borgia (gli ampi saggi di Cristina Acidini e Claudia La Malfa ricostruiscono con dovizia l’impresa dell’Appartamento Borgia, mentre il contributo di Francesco Buranelli è il primo in assoluto dedicato ai due frammenti dell’antico dipinto murario), soffre però di schede non sempre esaurienti e dettagliate. La scheda sulla Dama con unicorno di Luca Longhi (presente in mostra perché vi si volle vedere un ritratto di Giulia Farnese), per esempio, viene riassunta in appena dodici righe, e l’unica fonte bibliografica citata dal compilatore, ovvero Claudio Strinati, è un contributo di se stesso, risalente al 2014, quando invece la Dama di Longhi è un dipinto che ha una storia bibliografica ben più consistente, che include anche un approfondito articolo di Giulia Daniele uscito su Storia dell’Arte (quindi su una rivista scientifica ben nota e facilmente accessibile) nel 2013. Ci sono schede molto più curate e approfondite, ovviamente, ma forse sarebbe stato meglio trovarsi di fronte a un apparato più uniforme e livellato verso l’alto. Al di là di ciò, non si può negare che si tratti d’una pubblicazione molto utile e meditata che, al pari della mostra, fa indiscutibilmente progredire le conoscenze sull’arte d’uno dei grandi protagonisti del Rinascimento.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).