di
Federico Giannini
(Instagram: @federicogiannini1), scritto il 05/08/2017
Categorie: Recensioni mostre / Argomenti: Seicento - Siena - Barocco - Cinquecento - Manierismo - Arte antica
Recensione della mostra 'Il buon secolo della pittura senese', a Montepulciano, San Quirico d'Orcia e Pienza fino al 30 settembre 2017.
Ed eccoci dunque al buon secolo della pittura senese, ed eccone i maestri più degni. Questa formula, che l’abate Luigi Lanzi adopera nella sua Storia pittorica d’Italia al fine d’introdurre il capitolo dedicato agli artisti più considerevoli del XVI secolo a Siena, potrebbe fungere da laconica ma densa presentazione della mostra sul Cinquecento senese che, nel titolo, prende a prestito proprio le parole di Lanzi: Il buon secolo della pittura senese. Dalla maniera moderna al lume caravaggesco. Una mostra divisa in tre sezioni, a Montepulciano, San Quirico d’Orcia e Pienza, per ripercorrere la storia della pittura a Siena e dintorni, dalle scaturigini del Manierismo, con il giovane Domenico Beccafumi, fino ad arrivare al naturalismo caravaggesco del Rustichino: nel mezzo, tutti i “maestri più degni” che consentirono a Siena di vivere una delle stagioni artisticamente più vivaci e feconde della sua storia, ancorché poco nota al grande pubblico. Operazione non delle più facili e, se vogliamo, anche alquanto faticosa, come è qualunque mostra che si dipani attraverso più sedi e che sia segnatamente animata da un progetto di ricerca lontano dai facili clamori, ma di sicuro decisamente intrigante. Sussistono infatti molte ragioni per ritenere l’esposizione del senese un’autentica gemma: intanto, trattasi d’una mostra che presenta al pubblico nuove importanti scoperte, alcune delle quali concernenti la fondamentale figura di Domenico Beccafumi (vero nome Domenico di Giacomo di Pace, Sovicille, 1484 circa - Siena, 1551). Ancora, l’esposizione tenta di sciogliere il nodo relativo a uno dei più talentuosi allievi del Sodoma, quel non meglio identificato “Marco Bigio” autore di alcune opere che si vogliono ora assegnare a Girolamo Magagni, meglio noto come “Giomo del Sodoma”. Poi, la mostra è occasione per osservare alcuni interessanti inediti, tra i quali spicca una splendida, raffinata Visitazione del Rustichino.
Tuttavia, al di là degli aspetti che forse s’attagliano più a un pubblico di specialisti, o a chi nutre una forte passione per la pittura senese, occorre evidenziare anche altri temi che Il buon secolo della pittura senese intende presentare. Uno su tutti: la mostra è indissolubilmente legata al suo territorio. È questo uno degli argomenti del dibattito attuale attorno alle esposizioni: troppo spesso, nelle nostre città, piombano mostre preconfezionate che non solo non hanno alcunché da spartire con il territorio che le ospita, ma neppure si premurano di cercare legami anche labili, o quanto meno di collaborare con le istituzioni culturali della città ospitante. La mostra di Montepulciano, San Quirico d’Orcia e Pienza è invece fortemente radicata nella sua terra: volendo, l’itinerario della mostra prosegue anche fuori dalle sue tre sedi. È questo un aspetto sul quale i curatori hanno assai insistito: in ognuna delle tre sedi, il visitatore troverà suggerimenti che gli consentiranno di scoprire altre opere, complementari al discorso iniziato in mostra, disseminate nei musei, nelle chiese, nei monasteri e nei palazzi della zona. Il visitatore potrà poi giovarsi d’un progetto divulgativo ben curato, capace di fornire a tutti un’introduzione ben chiara ai problemi della pittura senese del Cinquecento. E occorre ribadire come il percorso lasci grande libertà al pubblico. Per quanto la naturale consecuzione degli argomenti suggerisca di partire da Montepulciano per poi recarsi a San Quirico d’Orcia e infine a Pienza, non si pongono problemi nel compiere il percorso inverso (esattamente come ha fatto chi scrive), o nello scegliere un punto di partenza diverso rispetto a quello più “logico”, per poi ritagliarsi spazî di manovra consonanti alle proprie inclinazioni.
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Mostra Il buon secolo della pittura senese: la sezione di Montepulciano
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Mostra Il buon secolo della pittura senese: la sezione di San Quirico d’Orcia
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Il racconto può dunque prendere avvio dalla sezione di Montepulciano (Domenico Beccafumi, l’artista da giovane), allestita presso il Museo Civico Crociani e curata da Alessandro Angelini e Roberto Longi. Per quanto si tratti della sezione probabilmente più interessante, per quantità di novità proposte dai curatori e per qualità d’opere esposte, è forse, al contempo, anche quella dall’organizzazione meno riuscita: l’allestimento della mostra non già in uno spazio espositivo riservato, bensì in una sala del museo che ospita una parte considerevole della pinacoteca, e la confusione che certe scelte possono generare nel visitatore (come far partire la mostra dalla sala dedicata al cosiddetto “Caravaggio di Montepulciano”, con apparati peraltro simili a quelli della collezione permanente) non depongono a favore del progetto. Si tratta tuttavia di particolari che, si può tranquillamente affermare, vengono offuscati dall’eccezionalità dell’esposizione, che s’apre subito con la nuova scoperta che ridisegna l’attività giovanile di Domenico Beccafumi. La prima opera è infatti una Sant’Agnese che ha avuto alterne vicende attributive (a un certo punto della sua storia la si ritenne persino una copia settecentesca di un originale del XVI secolo): queste ultime hanno avuto origine soprattutto, come spiega Alessandro Angelini in catalogo, “dall’aspetto insistentemente sacrale, per così dire atemporale, con il quale è raffigurata la santa poliziana, quasi con la volontà di riproporre con quella rigida frontalità un’immagine di culto più antica della patrona della città”. La svolta è arrivata proprio in occasione della mostra: lo studioso Andrea Giorgi ha scoperto un documento del 1507 in cui Lorenzo Beccafumi, banchiere in seguito diventato podestà di Montepulciano, e soprattutto “scopritore” del talento di Domenico (tanto che l’artista, accolto sotto l’ala protettiva del possidente, per omaggiarlo ne avrebbe assunto il cognome), allogava al pittore la realizzazione d’una “figura di Sancta Agnese” per il Comune. Una testimonianza importante, che ha permesso di scoprire quella che è ora considerata la prima opera documentata dell’artista, e che trova anche riscontri stilistici nell’impostazione sostanzialmente peruginesca del dipinto, in accordo con quanto asserisce Vasari nelle sue Vite. Da notare anche come, sinora, la notizia vasariana dell’influenza del Perugino su Beccafumi non si fosse potuta verificare tramite opere sicure su base documentaria: le prime certezze sull’arte del pittore senese, infatti, partono da un periodo di cinque anni successivo a quello dell’esecuzione della Sant’Agnese, ovvero quando già l’artista iniziava a sperimentare nuove possibilità.
Attorno alla Sant’Agnese si dipana la trama dell’attività giovanile di Domenico Beccafumi. La seconda parte della mostra s’apre perciò con le opere di alcuni maestri che operavano a Siena agl’inizî del Cinquecento (abbiamo Girolamo del Pacchia, e soprattutto l’elegante Allegoria dell’Amor Celeste del Sodoma, uno dei dipinti più celebri e pregiati dell’intera esposizione: meno nello specifico, osserviamo un insieme di tavole che dimostra quanto fosse forte, al tempo, la dipendenza della pittura senese da modi tipicamente umbri) e prosegue con una ricostruzione della carriera di Domenico Beccafumi fino al 1515 circa. Si comincia con le tre Eroine dell’antichità, una Giuditta, un’Artemisia e una Cleopatra, che costituiscono tanto “una delle più antiche attestazioni della triade con eroine inneggianti alla fedeltà del matrimonio, così diffuse nella pittura a Siena nella prima metà del Cinquecento”, come spiega Angelini in catalogo, quanto una delle prove più antiche dell’arte di Beccafumi: sono infatti riferibili a un periodo prossimo all’esecuzione della Sant’Agnese, benché si noti un certo scarto stilistico tra la più impacciata Giuditta (che dovrebbe essere dunque precedente) e le più fluide Artemisia e Cleopatra.
In queste ultime due parrebbero palesarsi le prime suggestioni raffaellesche: l’esposizione ci dà modo di seguire lo sviluppo della riflessione beccafumiana su Raffaello (e non solo) proponendoci intanto una Madonna col Bambino e san Giovannino, di collezione privata, d’ottocentesca attribuzione al pittore senese. Domenico Beccafumi, nel 1508, aveva soggiornato a Firenze, e questo dipinto potrebbe essere un primo risultato dello studio dell’arte di Raffaello, evidente non solo nella chiarezza cristallina del dipinto, ma financo nella trattazione degli affetti, e anche della vicinanza a Leonardo da Vinci: la composizione riprende infatti alcuni motivi della leonardesca Madonna dei Fusi. Nell’opera, e in particolare nel paesaggio che si nota alle spalle dei protagonisti, è inoltre distinguibile l’influenza dell’arte di fra’ Bartolomeo, d’importanza tale da aver indotto a portare a Montepulciano (da Pienza) il Riposo durante la fuga in Egitto dell’artista fiorentino. Un continuo crescendo, che passa anche per i soggetti mitologici (esposta una Venere con due amorini del 1513 circa), conduce alla Madonna col Bambino del 1514 circa, conservata alla Pinacoteca Nazionale di Siena: è opera che, sebbene frammentaria (lo sfondo e il manto a destra sono stati ridipinti successivamente), certifica la ormai conseguita maturità di Domenico Beccafumi. Come fa notare Roberto Longi, basterebbe anche una rapida occhiata al volto della Vergine per avvedersene: “sottili strati stesi a velature creano effetti di trasparenza lasciando intravedere la sottostante bionda capigliatura mentre colpi di bianco più corposo rivelano le pieghe della leggerissima stoffa impreziosita dall’inserimento di doppi filetti in oro così come con l’oro son rilevati gli sparuti, ma luminosissimi, riccioli della testa del piccolo Redentore”.
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Domenico Beccafumi, Sant’Agnese da Montepulciano (1507; olio su tela, 163 x 123 cm; Montepulciano, Museo Civico Pinacoteca Crociani)
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Girolamo del Pacchia, Madonna col Bambino, san Giovannino e due angeli (1505-1510; tempera grassa su tavola, 55,8 x 42,2 cm; Siena, Collezione privata)
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Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma, Allegoria dell’Amor Celeste (1504 circa; olio su tavola, 96 x 49,5 cm; Siena, Collezione Chigi Saracini, Proprietà della Banca Monte dei Paschi di Siena)
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Domenico Beccafumi, Le tre eroine dell’antichità: Giuditta, Artemisia, Cleopatra (1506 circa; olio su tavola, rispettivamente 77 x 44,7, 77,1 x 43,5 e 77 x 44 cm; Siena, Collezione Chigi Saracini, Proprietà della Banca Monte dei Paschi di Siena)
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Domenico Beccafumi, Madonna col Bambino e san Giovannino (1508 circa; olio su tavola, 72 x 58 cm; Firenze, Collezione privata)
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Fra’ Bartolomeo, Riposo durante la fuga in Egitto (1505-1506; tempera grassa su tela, 135 x 113,5 cm; Pienza, Museo Diocesano)
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Domenico Beccafumi, Madonna col Bambino (1514 circa; olio su tavola, 60 x 45,5 cm; Siena, Pinacoteca Nazionale)
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La sezione di San Quirico d’Orcia (Dal Sodoma al Riccio: la pittura senese negli ultimi decenni della Repubblica, a cura di Gabriele Fattorini e di Laura Martini), caratterizzata da un allestimento molto più lineare e che trova luogo nelle sale di Palazzo Chigi Zondadari, è una panoramica sull’arte senese della prima metà del Cinquecento: una sezione breve ma complessa, composta da una trentina d’opere e che s’apre con un nuovo, denso confronto tra il Sodoma e Domenico Beccafumi che, volendo, si fa anche carico del ruolo di mettere in discussione (qualora ce ne fosse stato bisogno, dato che l’opera del Sodoma è stata ormai pienamente rivalutata) il giudizio di Vasari: l’aretino aveva infatti messo a paragone i due artisti per farne uscire vincitore il secondo. Nel racconto vasariano sembra quasi che il piemontese Giovanni Antonio Bazzi, passato alla storia col soprannome di Sodoma (Vercelli, 1477 - Siena, 1549), si fosse trasferito a Volterra onde sottrarsi al confronto col più giovane rivale, ma in realtà non fu per necessità che l’artista lasciò la sua città adottiva. Dall’accostamento emergono le personalità originali, indipendenti e profondamente differenti di due sommi artisti che segnarono l’arte del tempo: abbiamo pertanto la possibilità d’ammirare due Cristi portacroce di Domenico Beccafumi, di cui uno realizzato con la partecipazione della bottega, riferibili a due momenti diversi della sua carriera (quello con la bottega del 1520 circa, l’altro dipinto attorno al 1545), e le testate di bara che il Sodoma dipinse tra il 1526 e il 1527 per la compagnia di San Giovanni Battista della Morte a Siena. Questo particolare tipo d’oggetto, che abbonda nell’arte senese dell’epoca (nella sezione di Montepulciano sono presenti anche due coppie di dipinti di Beccafumi realizzati per identiche finalità), aveva la funzione di decorare i cataletti dei defunti che s’usavano per trasportare le bare durante i funerali. In particolare, nella tavola della Madonna col Bambino, il Sodoma si produce, come notò Enzo Carli, in una delle migliori interpretazioni dell’arte di Raffaello, ma in generale l’insieme è connotato da un’intensità e da una resa partecipata dei sentimenti (si notino il corpo e l’espressione del Cristo in pietà) che difficilmente trovano riscontri pari, tanto da aver meritato l’aperto elogio di Vasari, che definì questo gruppo di tavole addirittura come l’opera “più bella di Siena”. Volgendo lo sguardo in senso opposto s’incontrerà il Cristo portacroce di Beccafumi: opera interessante anche per il fatto che l’artista si cimenta con un tema iconografico di matrice lombarda, particolarmente praticato dal Sodoma (che lo affrontò anche negli affreschi di Monteoliveto Maggiore), e che viene risolto dall’artista senese con una posa e un’espressione che denotano grande sofferenza, con la figura del Cristo connotata da anatomie michelangiolesche e moderni effetti chiaroscurali, e con la versione del 1545 caratterizzata da una pennellata rapidissima e sciolta.
Alla prima sala, che funge da introduzione e offre una carrellata d’opere dipinte da artisti attivi a Siena nei primi decenni del XVI secolo, ne segue una che si focalizza sulle fasi estreme della carriera del Sodoma. Si tratta per la più parte d’opere destinate alla devozione privata e d’iconografia tradizionale, che l’artista è però in grado di rendere con grande raffinatezza e intimismo: si osservi, a proposito, la Sacra Famiglia con san Giovannino del Museo Crociani di Montepulciano, opera che ci presenta una Vergine di rara bellezza, di matrice raffaellesca, che presenta, al pari delle altre figure, quel “modellato turgido, compatto, quasi smaltato” di cui parla Laura Martini nella scheda di catalogo, che mostra i capelli sottolineati dalle meravigliose lumeggiature filiformi dorate tipiche dell’artista, e che si contraddistingue per il suo volto “tornito e levigato” ravvisabile anche in altre realizzazioni coeve. Ed è anche a tali realizzazioni che dovette guardare quel “Marco Bigio” di cui s’accennava sopra, che Gabriele Fattorini suggerisce, con un saggio di sette pagine, d’identificare con Giomo del Sodoma sulla base di raffronti stilistici. Allievo del Sodoma, è Giomo-Marco un pittore sconosciuto ai più, e tuttavia capace d’articolare composizioni sapienti e colte: è il caso, per esempio, della Venere, dipinto dalla complessa iconografia, difficile da riassumere in poche battute. Reminiscenze leonardesche e suggestioni nordiche, düreriane, caratterizzano quest’opera tanto quanto il Cristo in pietà di Montalcino, restaurato per l’occasione ed esposto al centro della sala: un’opera che da un lato si rifà apertamente alla Madonna del Corvo affrescata a Siena dal Sodoma, rileggendo il pittore vercellese “in forme eccentriche”, come spiega Gabriele Fattorini, “con una personale predilezione per i contrasti di luce e per un carattere tagliente e metallico delle fisionomie”, e dall’altro prende le mosse da modelli leonardeschi, come denuncia il volto del san Giovanni.
Chiude la sezione di San Quirico la sala dedicata all’artista a cui spettò il primato dell’arte senese alla metà del secolo, una volta scomparsi il Sodoma e Beccafumi: Bartolomeo Neroni, detto il Riccio (Siena, documentato dal 1531 al 1571). Allievo del Sodoma (che poi diventò suo suocero) e artista eclettico, vide la fine della Repubblica di Siena, che cadde nel 1559 finendo inglobata nel Ducato di Firenze a cui s’era definitivamente resa, lasciò la città natale per riparare a Lucca e vi tornò solo a fine carriera: apprezziamo il suo cammino dagli esordî sotto l’insegna d’un classicismo debitore dell’arte di Baldassarre Peruzzi, e testimoniato in mostra dai frammenti degli affreschi della Cattedrale di Siena, per passare attraverso opere complesse come la maestosa pala di Lucignano, che raggiunge sorprendenti esiti di monumentalità, o la pala di San Quirico, in cui il Riccio medita sul Sodoma, su Raffaello (da notare il baldacchino, memore di soluzioni del Raffaello fiorentino) e su fra’ Bartolomeo (da lui deriva l’impostazione della composizione), e giungere infine alle compassate e devote opere della fase finale della carriera, che denotano una certa regressione stilistica e un ripiegamento su forme più rigide.
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Confronto tra Sodoma (in primo piano) e Beccafumi
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Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma, Testata di bara per San Giovanni Battista della Morte, tavola con la Madonna e il Bambino (1526-1527; olio su tavola, 63 x 42 cm; Siena, Museo dell’Opera del Duomo)
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A sinistra: Domenico Beccafumi e bottega, Cristo portacroce (1520 circa; olio su tavola, 73,5 x 51 cm; Siena, Pinacoteca Nazionale). A destra: Domenico Beccafumi, Cristo portacroce (1545 circa; olio su tavola, 80,3 x 60,5 cm; Siena, Museo Diocesano)
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Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma, Sacra Famiglia con san Giovannino (1540 circa; olio su tavola, 70 x 47 cm; Montepulciano, Museo Civico Pinacoteca Crociani)
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“Marco Bigio” (Giomo del Sodoma?), Venere o Le tre età della donna (1540-1545 circa; olio su tela, 229 x 169 cm; Siena, Pinacoteca Nazionale)
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“Marco Bigio” (Giomo del Sodoma?), Cristo in pietà (1535-1540; tempera/olio su tela, 191 x 149 cm; Montalcino, Sant’Egidio)
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Bartolomeo Neroni detto il Riccio, frammenti degli affreschi per la Cattedrale di Siena, dall’alto, in senso antiorario: Martirio dei santi Quattro Coronati; Madonna col Bambino, due santi martiri e due angeli; Santo martire (1534-1535; affreschi staccati e trasportati su supporto in fibra di vetro, 75 x 125, 104 x 32 e 59 x 54 cm; Siena, Museo dell’Opera del Duomo)
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Bartolomeo Neroni detto il Riccio, frammenti degli affreschi per la Cattedrale di Siena, dettaglio del santo martire
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Bartolomeo Neroni detto il Riccio, Pala di Lucignano: Crocifissione e i santi Giovanni Battista, Maria di Cleofa, Maria, Sebastiano, Agostino, Caterina d’Alessandria (1540-1545; olio su tavola, 220 x 160 cm; Lucignano d’Arbia, San Giovanni Battista)
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Bartolomeo Neroni detto il Riccio, Pala di San Quirico d’Orcia: Madonna col Bambino e i santi Sebastiano, Giovannino, Quirico e Leonardo (1545-1550; olio su tavola, 270 x 195 cm; San Quirico d’Orcia, Compagnia del Santissimo Sacramento della Pia Associazione di Misericordia)
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L’esposizione salta il secondo Cinquecento (quello, per intenderci, di artisti come Francesco Vanni, Ventura Salimbeni, Alessandro Casolani) per spostarsi alla fine del secolo, quando si sviluppava, sul solco dei risultati dei maestri che lo avevano preceduto, l’estro di Francesco Rustici, detto il Rustichino (Siena, 1592 - 1626), pittore a cui è dedicata la terza e ultima sezione della mostra, quella di Pienza, allestita nei locali del Conservatorio San Carlo Borromeo (Francesco Rustici detto il Rustichino, caravaggesco e gentile, a cura di Marco Ciampolini e Roggero Roggeri). Il Rustichino fu il principale artista del primo Seicento senese, epoca in cui detenne il primato dell’arte in città, condividendolo con Rutilio Manetti (Siena, 1571 - 1636): pittore dalla parabola breve ma intensa, propose un caravaggismo mediato dalla tradizione per elaborare uno stile che, per dirla con le parole di Marco Ciampolini, fu “capace di manifestare in modo intimo e profondo l’essenza più autentica della pittura senese” e “riuscì a innovare la tradizione dal proprio interno, senza apparenti sconvolgimenti ma in modo tanto radicale che dopo di lui nulla risulterà più lo stesso”. L’avvio è demandato al contesto entro cui si svolse la formazione del Rustichino: la mostra consente dunque di familiarizzare con artisti come il summenzionato Alessandro Casolani, del quale viene esposta una Sacra Famiglia con san Giovannino e santa Caterina, dolce e morbida quanto i personaggi che popolano il Sant’Ansano che battezza una bambina di Vincenzo Rustici, padre di Francesco e cognato di Casolani, di cui fu collaboratore e di cui riprese diverse soluzioni stilistiche, come il dipinto attesta. È questa la più stretta tradizione senese entro cui sempre si sarebbe mosso il Rustichino, ma ci sono anche altri modelli: nel 1615 l’artista compì infatti un soggiorno a Roma dove entrò in contatto con gli ambienti caravaggeschi. In mostra spiccano, in particolare, una Madonna col Bambino di Orazio Gentileschi, in rapporto con le Annunciazioni di San Siro a Genova e di Torino, e una Allegoria della purezza di recente attribuzione ad Antiveduto Gramatica (pittore che il Rustichino frequentò per qualche tempo) e da poco “scoperta”: la sua unica apparizione in una pubblicazione scientifica risale al 2015.
Ha dunque inizio un percorso di quattro sale che conduce il visitatore nei meandri dell’arte del Rustichino, con una tappa che esplora il contesto della pittura a lui coeva (con opere di Rutilio Manetti, Bernardino Mei, Niccolò Tornioli e altri). Un percorso che può iniziare da un inedito San Giovanni Battista, opera d’un Rustichino a inizio carriera che, pur non allontanandosi dalla lezione di Vincenzo Rustici e di Alessandro Casolani, dimostra già una sensibilità propria, grazie alla quale nelle opere s’insinua una vivacità sconosciuta al padre e allo zio: quello del Rustichino è un “suggestivo pittoricismo che sfocia in ameni paesaggi saettati da una luce bianca, quasi lunare, secondo i modi proposti da Paul Brill, che tanta accoglienza avevano trovato nella cultura tardo manierista senese”. Una spontaneità pari a quella del Battista è ravvisabile nella Visitazione, altra opera inedita (della quale s’era fatto cenno in apertura), ancora memore del tardo manierismo senese: volti delicati, composizione misurata, panneggi che rimandano a quella lezione baroccesca che fece tanto presa in città e che fu tra le ragioni della grande mostra che Siena dedicò nel 2009 a Federico Barocci e alla sua influenza sugli artisti locali. Seguiamo i progressi del Rustichino per arrivare a un punto in cui il suo “caravaggismo gentile” s’è ormai pienamente dischiuso: l’ultima opera in mostra (che conclude il percorso in quanto ancora ubicata nella sua collocazione originaria, ovvero l’altare maggiore della chiesa di San Carlo Borromeo, integrata nel percorso museale), una Madonna col Bambino e santi, dimostra le prime aperture nei confronti del naturalismo caravaggesco, evidente nelle fattezze, nelle pose e negli sguardi dei personaggi (oltre che, ovviamente, nello studio delle luci e delle ombre), per arrivare agli incredibili esiti di un’opera come la Maddalena morente, che guarda indubbiamente a Gerrit van Honthorst.
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Alessandro Casolani, Sacra Famiglia con san Giovannino (1596; olio su tela, 116 x 88 cm; Siena, Collezione Chigi Saracini, Proprietà della Banca Monte dei Paschi di Siena)
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Vincenzo Rustici, Sant’Ansano battezza una bambina (1585 circa; olio su tela, 99,5 x 99,5 cm; Siena, Fondazione Monte dei Paschi)
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Orazio Gentileschi, Madonna col Bambino (1613-1620 circa; olio su tela, 139,8 x 98 cm; Collezione privata)
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Antiveduto Gramatica, Allegoria della purezza (olio su tela, 74 x 59 cm; Collezione privata)
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Francesco Rustici detto il Rustichino, San Giovanni Battista (1600-1605 circa; olio su tela, 138 x 106,5 cm; Firenze, Collezione Massimo Vezzosi)
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Francesco Rustici detto il Rustichino, Visitazione (1600-1605 circa; olio su tela, 142 x 101 cm; Collezione privata)
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Francesco Rustici detto il Rustichino, Maddalena Morente (1625 circa; olio su tela, 148,5 x 219 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi)
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Francesco Rustici detto il Rustichino, Madonna col Bambino e i santi Carlo Borromeo, Francesco, Chiara, Caterina da Siena e Giovanni Battista (1622-1623; olio su tela, 296 x 207 cm; Pienza, San Carlo Borromeo)
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Dopo una mostra simile, prendersi un giorno o due per visitare i luoghi in cui si svolge, è attività che diventa quasi naturale e irrinunciabile: proprio perché Il buon secolo della pittura senese è un’esposizione aperta, che coinvolge il territorio (dal quale, peraltro, proviene la grande maggioranza dei prestiti) ed estende il proprio discorso a quant’altro si possa osservare nei borghi di questa placida porzione di Toscana. L’operazione è promossa a pieni voti e Il buon secolo della pittura senese si potrebbe quasi indicare, con un anglicismo particolarmente in voga oggigiorno, come una best practice, attenta, non invasiva e intelligente: una mostra di ricerca puntuale, seria e di grande qualità, che parla sia allo specialista, sia all’appassionato, e di cui occorre apprezzare il tentativo (per molti versi riuscito) d’aprirsi al grande pubblico, malgrado non si possa certo parlare (e fortunatamente) d’una mostra di cassetta. Una nota, infine, sul superlativo catalogo, edito da Pacini: ricco d’informazioni, di schede lunghe, esaurienti, ben curate nei dettagli, e di saggi che aprono nuovi scenarî, s’è già reso strumento indispensabile per chiunque voglia studiare la pittura senese del XVI secolo.
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L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).