Il mondo non è tornato a essere lo stesso dopo Rothko


Una lettura dell'opera di Mark Rothko, tra i più apprezzati artisti del Novecento, da parte di Emma Rodríguez, direttrice della rivista spagnola Lecturas Sumergidas.

L’articolo che state per leggere è stato scritto da Emma Rodríguez, giornalista culturale spagnola, collaboratrice di giornali come El Mundo, El País, Turia e altri, nonché direttrice di “Lecturas Sumergidas”, rivista online dalla quale è tratto il presente articolo. Potete leggere l’originale a questo link. La traduzione dallo spagnolo all’italiano è di Ilaria Baratta.

Tutto cominciò una mattina di ormai qualche anno fa durante una vacanza a Londra. In una visita alla Tate Gallery, i miei passi mi condussero in una sala in cui sarei rimasta per un bel po’ di tempo. Nella sala di Rothko, davanti a quella moltitudine di colori tipici del pittore, davanti a quegli accessi ai paesaggi dell’anima, ai misteriosi vuoti, abissi dell’essere, capii che ciò che era veramente essenziale si trovava lì, fuori dalla frenesia e dal rumore, dalle notizie e dalle abitudini, che in quel luogo era possibile fermare tutto e ricominciare, con altri ritmi, con gli occhi e la mente aperti a catturare questi piccoli sprazzi di verità che passano inosservati quando siamo di fretta, quando seguiamo come automi l’evoluzione del mondo e smettiamo di porci domande e di ascoltarci. Mi vedo seduta davanti ai quadri, sola, sconvolta dentro, desiderando di fermare il tempo, cercando il linguaggio adatto per esprimere questo insieme di emozione e di forza davanti a quelle estese pianure di colore ocra, marrone, rossiccio, grigio, violetto, davanti a quelle porte sfumate o colonne di un tempio attraverso le quali sono entrata senza codici preesistenti, trovando, meravigliata, le chiavi d’accesso a una vicinanza, a una specie di lucidità, di felicità che ora ritrovo quando rivedo le pagine di una biografia che sta per pubblicare in Spagna la casa editrice Paídos e che mi sono affrettata a leggere, mossa dalla brama di sapere di più su colui che, a partire da quel momento, diventò uno dei miei pittori preferiti.

Mark Rothko fotografato da Consuelo Kanaga nel 1949
Mark Rothko fotografato da Consuelo Kanaga nel 1949


La sala di Rothko alla Tate di Londra
La sala di Rothko alla Tate di Londra

La docente e storica francese Annie Cohen-Solal è l’autrice di Mark Rothko. Buscando la luz de la capilla, un excursus sulla vita e sull’epoca di un artista il cui valore non sta nelle alte quotazioni che che ha ottenuto e che continua a ottenere la sua arte, bensì nella sua capacità di stupirci e condurci verso una non-realtà che ci colpisce. Grazie alla biografa abbiamo accesso alle luci e alle ombre di quest’uomo, nato a Daugavpils, in Lettonia, nel 1903, che decise di porre fine alla sua vita a New York, nel 1970, quando già il suo nome era uno dei maggiori dell’arte contemporanea.

L’artista non smise mai di cercare, di evolversi, di credere nell’arte come linguaggio del sublime, come strumento per penetrare negli strati più profondi delle cose. In uno dei suoi testi, Space in painting, incluso nel suo libro Writings on Art, al quale farò anche riferimento in questo articolo, l’autore riflette sull’intensità del sentimento, sulla profondità dell’emozione.

“Quando parliamo di accesso alla conoscenza parliamo di uno svelamento; espressione quest’ultima che implica uno spogliarsi di tutti i veli, un elevarsi delle profondità verso la conoscenza diversa, o di uno spostamento dei veli che oscurano ciò che si trova dietro a questi” ci dice. E aggiunge: “Esiste spazio nell’espressione di rendere chiaro l’oscuro o, metafisicamente, di rendere vicino il remoto al fine di attirarlo verso l’ordine del mio intelletto umano e intimo (..) Ecco ciò di cui si compone il mio mondo: un po’ di cielo, un po’ di terra e un po’ di movimento...”.

Mark Rothko fotografato da William Heick (1949-1950)
Mark Rothko fotografato da William Heick (1949-1950)

Mi sembra bellissima questa argomentazione che, in un certo modo, rivela in chiave filosofica ciò che ci affascina tanto della pittura di Rothko: la sua capacità di svelamento, il suo accesso a regioni inaccessibili, questo piano mistico, spirituale, che lui non arrivò a riconoscere del tutto, nonostante sapesse che le sue opere avrebbero dovuto essere apprezzate nel complesso, in una specie di danza armoniosa, in spazi intimi, accoglienti, adatti alla meditazione, alla calma. Quella totale sensazione di serenità impregna lo spirito del visitatore della Tate di Londra e degli altri luoghi dedicati al pittore: nella National Gallery di Washington, nella Cappella Houston o nel Centro Rothko di Daugavpils, in Lettonia, antica località di Dvinsk, dove nacque.

Mentre contemplavo e mi lasciavo affascinare, quel lontano giorno, dalle distese di Rothko, pensavo di essere tranquilla, equilibrata, che dovevo essere contagiata dai miracolosi effetti del colore, ma mai più lontana della realtà. La biografia di Cohen-Solal ritrae un essere tormentato, contraddittorio, in continua lotta tra la sua concezione della purezza dell’arte e il suo desiderio di raggiungere il successo, che non era possibile senza entrare nel gioco del mercato. “Quando ero giovane l’arte era qualcosa di solitario: non c’erano né gallerie, né collezionisti, né critici, né denaro. Malgrado ciò era un’età dell’oro, non c’era niente da perdere, bensì un obiettivo da raggiungere...” dichiarava l’artista nel 1960, quando era lontano, molto lontano, da quella situazione iniziale; quando già se lo contendevano musei e gallerie d’arte, quando il passare del tempo lo aveva portato a idealizzare un’epoca nella quale, nonostante quell’autenticità e libertà che tanto ricordava, lo rendeva preoccupato per il fatto che la sua opera non fosse giustamente riconosciuta e valorizzata.

Impegnato, con una forte coscienza sociale, sempre dalla parte dei meno abbienti, degli esclusi, circostanza che visse sulla sua propria pelle, come figlio di emigranti ebrei che, agli inizi del Novecento, fuggirono dall’antico impero russo con la paura delle persecuzioni e dei pogrom (sono molto interessanti i primi capitoli dedicati all’infanzia dell’artista, alle origini della sua famiglia); per lui l’integrazione fu sempre una difficoltà. Dall’atteggiamento riflessivo, critico, combattivo, non gli risultò semplice accettare le regole dell’università dell’epoca, né accettare le regole dell’arte, il suo aspetto commerciale, circostanza alla quale bisogna aggiungere l’incomprensione della sua epoca, gli attacchi, in un primo momento feroci, verso un’opera di rottura, capace di comunicare con codici sconosciuti, pari ai grandi artisti visionari, pionieri, che affrontano la reticenza in cambio dell’ufficialità.

Mark Rothko, Senza titolo, Lavanda e verde
Mark Rothko, Senza titolo, Lavanda e verde (1952; olio su tela, 171,7 x 113 cm; Collezione privata)

Il ritratto di quest’artista in perenne crisi, che si dibatteva tra le sue convinzioni e i suoi risultati, in mezzo alle sopraffazioni e agli intricati maneggi commerciali, mentre la sua arte cresceva e si elevava verso piani mai materiali, lontani dal tangibile, dal reale: è uno dei grandi scopi di una dedizione chiarificatrice. C’è un fatto nella vita di Rothko che dice molto sulla lotta con se stesso e con il suo ambiente, sull’agitazione che gli provocava entrare nelle reti del capitalismo. Nella biografia un capitolo analizza ciò che accadde quando gli diedero l’incarico di realizzare una serie di dipinti per decorare il lussuoso ristorante Four Seasons, parte del progetto di un imponente grattacielo, di 34 piani, sede della compagnia Seagram, al 375 di Park Avenue, simbolo della ricchezza di New York, simbolo del successo degli Stati Uniti.

Un ordine di vendita, che raggiungeva l’astronomica cifra di 35.000 dollari, con un anticipo di 7.000 dollari per la decorazione dell’edificio, siglava l’accordo. Oltre al contributo di Rothko si contava su opere di Picasso, Miró, Stuart Davis e sullo scultore Richard Lippold. Il nostro protagonista si mise all’opera, ma non si sentiva adatto, non riusciva a trovare la giusta via e provava a capire cosa lo disturbava tanto.

Nel 1959, durante un viaggio transatlantico giunse in Europa, insieme a sua moglie e a sua figlia di otto anni. Mark Rothko diventò amico dello scrittore John Fischer, con il quale poté sfogarsi liberamente. Undici anni più tardi, dopo il suicidio del pittore, Fischer, che aveva trascritto accuratamente le parole di Rothko, cosciente del fatto che stava facendo da testimone a un episodio importante nella vita di un artista già famoso, raccontò delle confidenze che Rothko gli fece al bancone di un bar in un articolo pubblicato sulla rivista Harper’s. Cohen-Solal lo menziona, ma lo troviamo intero nell’edizione di Miguel López-Remiro degli Writings on Art (Paidós Estética). Si tratta di una testimonianza assolutamente significativa perché riflette quell’agitazione che il pittore provava nel vedersi incline a tradire i suoi principi. Rothko, secondo quanto racconta l’autore, gli disse che lo avevano incaricato di realizzare una serie di grandi tele per ricoprire le pareti della sala più esclusiva di un ristorante molto caro nel Seagram Building.

“Un posto dove i bastardi più ricchi di New York vanno a mangiare e a vantarsi” gli disse. E gli garantì che non avrebbe mai accettato un incarico simile, che lo aveva accettato come “una sfida, con la peggiore intenzione, con la speranza di realizzare qualcosa che rovinasse l’appetito a tutti i figli di puttana che avrebbero mangiato nella sala”, aggiungendo che per realizzare questo effetto opprimente che voleva, stava utilizzando “toni scuri, più cupi di qualunque altra cosa che aveva realizzato prima”.

La storia finì in maniera brusca: i dipinti non vennero mai appesi nella sala da pranzo, però il tempo investito nel progetto fu un tempo di ricerche, di scoperte, di sfide, come constata Annie Cohen-Solal nel suo saggio. In fondo, il percorso di ricerca aveva condotto Rothko a emulare, a suo modo, l’effetto claustrofobico che aveva ottenuto Michelangelo sulle pareti della sala della scalinata della Biblioteca Medicea. “Egli aveva ottenuto”, disse a Fischer, “esattamente il genere di sentimento che cerco: far sentire agli spettatori che sono intrappolati in una sala nella quale tutte le porte e le finestre sono murate, in modo che l’unica cosa che possono fare è trovarsi faccia a faccia con la parete”.

“Raffigurando l’artista come un demiurgo, creando una cella chiusa per lo spettatore, ispirandosi a Michelangelo, Rothko provava a ottenere né più né meno una forma di dialogo con il pubblico drasticamente nuova”, segnala la biografa, perché quella decisione tormentata, quella serie che gioca con il colore e con le linee verticali a mo’ di colonne, di pilastri, di finestre verso il vuoto, presupponga una fonte di maturità per l’artista, e finì per trovare, alla fine, un luogo più adatto per essere collocata (delle sette tele iniziali – pensate per il ristorante – la serie diventò una trentina e finì in diversi centri, tra cui la sala della Tate Gallery, un luogo adeguato all’idea d’insieme, di racconto, di atmosfera propizia all’emozione).

“Odio e sospetto tutti gli storici dell’arte, gli esperti e i critici. Sono una banda di parassiti che si alimentano con l’arte. Il loro lavoro non solo è inutile, ma anche fuorviante. Non dicono niente che valga la pena di essere ascoltato né sull’arte né sull’artista, eccetto i pettegolezzi, che sono d’accordo che possono arrivare a essere interessanti” raccontò in un’altra occasione a John Fischer, manifestando un momento di ribellione nel suo percorso, in un certo modo preciso, poiché non poche volte si sentì adulato da commenti positivi sulla sua opera e vicino a specialisti e responsabili di istituzioni artistiche.

Mark Rothko, No. 10
Mark Rothko, No. 10 (1958; olio su tela, 239,4 x 175,9 cm; Collezione privata)

Contraddittorio, complicato, perfezionista, ostinato, insicuro, terreno e spirituale allo stesso tempo, l’artista sperimentò sempre, portò avanti, desiderò raggiungere quei punti di percezione, di illuminazione che si trovavano al di là di ciò che può essere compreso. Così egli si mostra nella biografia che vi commento, una narrazione che risulta appassionante per tutto ciò che apporta sull’artista e sulla sua evoluzione in solitudine, con le sue proprie ricerche, ma anche in compagnia dei suoi compagni di avventura, i pittori di un movimento, l’espressionismo astratto, capace di far vacillare i convenzionali e conservatori pilastri dell’arte nordamericana e di propagarsi oltre le frontiere geografiche.

La biografa ci invita a entrare nello studio dell’artista e a seguire i suoi passi, dall’infanzia fino agli ultimi giorni, quando la salute cominciò a mancare, quando non fu capace di far fronte alla depressione e insoddisfatto, nonostante aver ottenuto il riconoscimento per il quale lavorò molto, pose fine alla sua vita nel febbraio 1970, a 67 anni. Grazie a lui stesso percorriamo tutte le tappe del suo cammino (gli inizi figurativi, l’avvicinamento alla mitologia, il passaggio all’astratto). Lo vediamo bambino studiare il Talmud, disciplina che marcò il suo carattere; nei suoi primi insuccessi come studente, quando non si ambientava in un’università rigida; nelle sue evoluzioni e trasformazioni, nei suoi accordi e nelle sue avversioni, nelle sue frustrazioni e successi. E allo stesso tempo siamo testimoni dell’affascinante epoca in cui visse, perché il pittore fu protagonista del boom di New York come capitale dell’arte, aprendo le porte a un rinfrescante, rinnovatore linguaggio artistico.

C’è una fotografia memorabile realizzata nel 1950 da Nina Leen per la rivista Life nella quale il pittore appare in prima fila, circondato da compagni di avventura come Jackson Pollock, Clyfford Still, Robert Motherwell, Willem de Kooning, Walker Tomlin, Ad Reinhardt e Hedda Sterne, l’unica donna del gruppo tra l’altro. In totale, quindici artisti ribelli, che vennero qualificati come “gli irascibili”, a partire da una lettera di protesta inviata al direttore del Metropolitan Museum of Art e pubblicata dal New York Times, nella quale essi criticavano l’avversione nei confronti dell’arte che stava emergendo da parte di un’istituzione che non ebbe dubbi a rifiutare la spettacolare collezione di opere di nuovi artisti contemporanei statunitensi offerta dalla mecenate Gertrude Vanderbilt Whitney, fondatrice in seguito del Whitney Museum of American Art.

Il gruppo degli irascibili
Il gruppo degli irascibili (foto di Nina Leen del 1951). Partendo dal basso, da sinistra a destra: Theodoros Stamos, Jimmy Ernst, Barnett Newman, James Brooks, Mark Rothko, Richard Pousette-Dart, William Baziotes, Jackson Pollock, Clyfford Still, Rotert Motherwell, Bradley Walker Tomlin, Willem de Kooning, Adolph Gottlied, Ad Reinhardt, Hedda Sterne.

Questi artisti irascibili dovevano ancora sapere che presto alcuni di loro sarebbero diventati personaggi altamente stimati, apprezzati, da una critica dedita, ricercati dai grandi musei. Il primo tra questi fu Pollock, seguì subito dopo Rothko. Egli, che si era sempre lamentato delle sue difficoltà economiche, si rese conto, alla fine degli anni Cinquanta, di come aumentavano le sue vendite e di come i suoi quadri cominciavano a essere quotati a cifre vicine ai 5.000 dollari. “Questa improvvisa disponibilità economica gli diede un nuovo peso di cui preoccuparsi” racconta Annie Cohen-Solal.

Fu grande causa di problemi per l’artista. Leggere Mark Rothko. Buscando la luz de la capilla è assistere, insisto, al conflitto che l’artista avvertì tra l’arte come strumento di impegno, di ribellione, di spiritualità, e la sua inevitabile componente commerciale. “Man mano che otteneva più successo, anche lui si sentiva minacciato dai mali che aveva manifestato precedentemente. Il conflitto lo lasciò avvilito, insicuro e distrutto da un senso di colpa” dichiarava Katherine Kuh, sovrintendente dell’Art Institute of Chicago, professionista che godette dell’amicizia e del rispetto di un artista il cui valore, in tutti i sensi, non smise di crescere dopo la sua morte.

“Negli anni 2000 il prezzo delle opere di Rothko andò alle stelle nelle case d’asta, superando lungamente le cifre richieste per artisti suoi contemporanei come Pollock, De Kooning, Newman e Still, con cifre spiazzanti intorno agli 80 milioni di dollari” scrive l’autrice di un libro che contiene capitoli così difficili come quello dell’inganno e dello sfruttamento di coloro che gestirono le opere dell’artista nella galleria Marlborough, ma anche altri assolutamente chiari dove percepiamo la soddisfazione dell’artista, emozionato, prima della realizzazione di ciò che sarebbe stato il suo sogno, una cappella aconfessionale a Houston, costruita da Jean e Dominique de Menil, due immigrati come Rothko, di ceto alto, ma stranamente con idee di sinistra radicale, che arrivarono negli Stati Uniti per fuggire dalla Francia occupata dai nazisti. Entrambi seguirono le indicazioni dell’artista che, finalmente, aveva trovato la posizione desiderata, conforme al senso mistico, sacro, che percepiamo nelle sue grandi tele, nonostante, come dice lo scrittore John Fischer, “solo una volta lo sentii insinuare che la sua opera esprimeva un impulso religioso, profondamente nascosto”.

La Rothko Chapel a Houston
La Rothko Chapel a Houston

Mentre lavorava alla cappella, che sarebbe diventata l’impresa più grande della sua vita, i suoi colori diventavano ogni volta più scuri, come se ci stesse portando alla soglia della trascendenza, al mistero dell’universo, al tragico mistero della nostra condizione peritura” segnalò Dominique de Menil nel 1972. Il critico Robert Rosenblum si riferisce al “sublime astratto” in Rothko in questo modo: “Come la mistica trinità di cielo, acqua e terra che, in Friedrich e in Turner, sembra emanare da una fonte nascosta, gli strati orizzontali fluttuanti di luce velata in Rothko sembrano nascondere una presenza totale e remota che possiamo solo intuire e mai apprendere del tutto. Questi infiniti e brillanti vuoti ci conducono oltre la ragione, al Sublime. Ci resta solo che arrenderci alle sue radianti profondità”.

La cappella di Houston, costruzione ottagonale minimalista, opera degli architetti Howard Barnstone e Eugene Aubry, che partirono da un precedente progetto di Philip Johnson, riunisce molte delle ricerche e dei risultati di Mark Rothko, che volle offrire al pubblico, come afferma Annie Cohen-Solal, “non solo una pittura ma anche tutto un ambiente; non una semplice visita, ma un’esperienza autentica, non un momento fugace, bensì una rivelazione genuina”. La sua originalità radicava, secondo Motherwell, nel suo concetto di rappresentazione. “Gli interessava l’effetto e la tecnica consisteva nel provocare un effetto specifico” dichiarò il suo collega e compagno di avventura. “Permettendo allo spettatore di entrare nella sua opera, Rothko avviò un’analisi sofisticata alterando i suoi mezzi e utilizzando metodi elaborati, quasi di alchimia, che non sarebbero stati compresi fino a molto tempo dopo la sua morte”, torniamo alle parole della biografa, che proseguendo si riferisce al riserbo dell’artista nel rivelare le sue tecniche e i suoi esperimenti, qualcosa che constatarono di prima mano coloro che lo conobbero e lo frequentarono.

La cappella Rothko venne inaugurata nel 1971. L’edificio si riflette in uno stagno, dal quale si eleva un obelisco irregolare, opera di Barnett Newman. Un anno dopo il pittore si tolse la vita, forse cosciente che la sua opera aveva già raggiunto i livelli che voleva raggiungere. Nel 1969 aveva organizzato una grande festa nel suo studio, che a posteriori può essere interpretata come un addio. Si è speculato molto sulle ragioni del suicidio, ma di nuovo risultano molto rivelatrici le parole di John Fischer: “Rothko, per come la vedo io, sentiva molto il vedersi obbligato a fornire “materia”, sia che fosse per il del trust che s’occupava degli investimenti, sia che fosse per l’esercizio estetico. Mi hanno raccontato diverse versioni del motivo per cui si suicidò: che era malato, che non era stato capace di produrre qualcosa negli ultimi sei mesi, che si sentiva rifiutato da un mondo dell’arte che aveva deviato il suo sguardo incostante verso pittori più giovani e di peggiore qualità. Forse, tra queste, qualcosa di vero c’è, non lo so. Ho il sospetto che almeno una delle cause che contribuì a ciò fu quella continua ira (…), l’ira giustificata di un uomo che si sentiva destinato a decorare templi, ma che si dovette accontentare del fatto che le sue tele venissero trattate come beni di consumo”.

Non posso terminare questo articolo senza citare l’epilogo della biografia di Cohen-Solal, dedicato al Centro d’ Arte Mark Rothko a Daugavpils (Lettonia), sua terra natale, profonda perdita per l’artista, che si vide costretto ad abbandonare le sue terre d’infanzia. Nel 2013, quando venne inaugurato, la figlia Kate pronunciò le seguenti commoventi parole, raccolte come introduzione a questo capitolo.

“Quando ero piccola, mio padre veniva a sedersi vicino a me e guardavamo insieme una cartina. Mi mostrava questo territorio [tra Lettonia, Lituania e Polonia] e mi diceva: “Ora non puoi vederlo perché hanno cambiato le frontiere e sono completamente diverse da quelle della mia epoca, ma qui è dove sono nato”.

Semplice e bel ricordo, come semplice e bella è la parola emozione, citata molte volte negli scritti di Rothko: l’emozione che desiderava trasmettere attraverso la sua arte, fino alle lacrime; l’emozione che trovava nei disegni dei bambini, che lo interessarono molto durante la sua lunga carriera di professore. Non voglio terminare questo articolo senza lasciare che sia l’artista stesso a parlare. Scelgo uno dei suoi testi, uno dei più semplici, incluso nei suoi Writings on art, opera che dà l’idea del suo carattere teorico, riflessivo, del suo aspetto filosofico. È la trascrizione di una conferenza che fece presso il Pratt Institute di Brooklyn.

Mark Rothko, No. 17
Mark Rothko, No. 17 (1957; olio su tela, 232,5 x 176,5 cm; collezione privata)

“Mi piacerebbe parlare di come si dipinge un quadro. Non ho mai pensato che dipingere un quadro abbia a che vedere con l’espressione di se stessi. Si tratta di una comunicazione sul mondo diretta a un altro essere umano. Quando questa comunicazione è convincente, il mondo si trasforma. Il mondo non è più tornato a essere lo stesso dopo Picasso e Miró. La loro visione del mondo trasformò la nostra...”. Ci soffermiamo quando afferma: “La gente mi chiede se sono un buddista zen. Non lo sono. Non mi interessa un’altra cultura che non sia la nostra. Il problema dell’arte affonda le radici unicamente nel fissare concretamente i valori umani di questa cultura”. E in seguito, alla domanda di qualcuno del pubblico riguardo ai suoi grandi quadri, risponde: “Cerco di creare uno stato di intimità, una transazione immediata. I grandi quadri ti mettono dentro di loro. La scala è qualcosa di fondamentale per me...”.

Tutto ciò mi fa tornare alla sala della Tate Gallery, in quel giorno indimenticabile, fissato nella memoria, quando, realmente, riuscii a entrare dentro gli sfondi di Rothko e credetti di trovare un nuovo senso alle cose dietro alle sue finestre aperte. Il mondo non è tornato a essere lo stesso dopo Rothko, continuo a pensare.


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Ilaria Baratta

L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta

Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.






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