“Camminavo lungo la strada con due amici - era il tramonto -, sentii come un soffio di malinconia. Tutto d’un tratto il cielo si trasformò in rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai alla staccionata stanco morto - vidi le nuvole fiammanti come sangue e simili a sciabole sopra il fiordo e la città nero pesto. I miei amici continuarono - io stavo lì, tremante di angoscia - e sentii come un grido forte, infinito che attraversava la natura”. Nizza, 22 gennaio 1892: luogo e data sono impressi sul taccuino di Edvard Munch (Løten, 1863 – Oslo, 1944). Il brano scritto quel giorno in Costa Azzurra, che riportiamo qui nella traduzione pubblicata sul catalogo della mostra di Munch tenutasi a Firenze nel 1999, è celeberrimo ed è un’annotazione che avrebbe poi portato l’artista a elaborare il suo capolavoro più noto, una delle icone della pittura mondiale: l’Urlo, in norvegese Skrik, oppure, utilizzando il titolo in tedesco che Munch aveva dato all’opera, Der Schrei der Natur (“L’urlo della natura”).
Munch non specificò mai quale fosse la strada su cui si trovava a camminare assieme ai suoi due amici, ma dalla descrizione è possibile identificare con certa facilità e precisione il luogo: si tratta della collina di Ekeberg, attraversata da una via dotata di parapetto (la “staccionata” a cui il pittore si appoggiò), e dalla quale è possibile godere di una bella vista su Oslo (che all’epoca si chiamava ancora Christiania), dove Munch si era trasferito ad appena un anno di età, e sul fiordo sul quale sorge la capitale della Norvegia. Oggi, peraltro, sul luogo è presente una targa che lo indica come fonte d’ispirazione per il dipinto. S’è voluto speculare sul fatto che il “grido forte” che Munch sentì provenisse dall’ospedale psichiatrico di Oslo, che si trovava ai piedi della collina e dove peraltro era degente la sorella del pittore, Laura: il “grido che attraversa la natura” è piuttosto un’immagine letteraria, che l’artista dovette avere bene a mente e che troviamo in una lirica di Heinrich Heine del 1888, intitolata Götterdämmerung (“Il crepuscolo degli dèi”), dove leggiamo un verso che recita “Und gellend dröhnt ein Schrei durchs ganze Weltall” (“E un grande grido risuona attraverso tutto l’universo”). Il poemetto di Heine può costituire una buona base teorica per interpretare il dipinto di Munch: l’opera si apre con una gioiosa ed edificante descrizione del mese di maggio che, con i suoi fiori, la luce solare, le dolci brezze, richiama a sé donne, uomini e bambini, per poi andare a bussare alla porta del poeta che invece, sdegnoso, rifiuta di unirsi: “[maggio], ho guardato attraverso te e ho guardato attraverso / il tessuto del mondo, e ho visto fin troppo / e tanto in profondità, per dire che tutte le gioie sono svanite / e dolori senza fine attraversano il mio cuore. / Ho guardato attraverso i gusci, così duri e forti / delle case degli uomini, e dei cuori che sono chiamati umani / e ci ho visto bugie, inganno e tristezza”. Quest’atmosfera di dolore e sconforto, attraverso un climax sempre più terrificante, arriva fino a un angosciato Dio che “getta via la corona e si strappa i capelli” e si conclude con la sconfitta dell’angelo custode del poeta, a seguito della quale l’urlo si spande attraverso l’universo, il cielo e la terra si confondono, e “l’antica notte” diventa sovrana di tutto.
Edvard Munch, L’Urlo (1893; olio, tempera e pastello su carta, 91 x 73,5 cm; Oslo, Nasjonalgalleriet) |
Oslo, localizzazione del luogo in cui è ambientato l’Urlo di Munch (da Google Maps, foto di Valera Hudoborodov) |
L’immagine del cielo e della terra che si confondono sembra tornare anche nel dipinto di Munch: il cielo, infuocato, è reso sotto forma di lingue di fuoco che incombono sull’insenatura e sulla città, che già iniziano a mischiarsi con l’ambiente circostante, le cui forme ondeggianti richiamano quelle del cielo. In primo piano, abbiamo il sentiero della collina di Ekeberg, con la staccionata sul dirupo, e sulla strada trovano spazio le figure di due personaggi, più indietro, che paiono non essere toccati dallo stravolgimento del paesaggio e, in primo piano, il protagonista: è diventato un fantasma deforme, ha perso ogni connotato umano, il suo corpo s’attorciglia nelle stesse linee sinuose che stanno straziando l’ambiente, si è trasformato in una specie di larva asessuata che assume un’espressione disperata e si porta le mani alle orecchie, non sappiamo bene se per ripararsi dal suo stesso urlo, estrema manifestazione di quella disperazione che così efficacemente deborda dalla lirica di Heine, o dall’urlo della natura inquieta. Nessuno, fino a quel 1893 in cui Munch dipinse L’Urlo, aveva portato la figura umana a un grado di deformazione tanto ardito. Ma nessuno era neppure riuscito a fornire un’immagine tanto icastica dell’angoscia esistenziale che può affliggere una persona: l’urlo, con le sue onde sonore che si riverberano nel paesaggio deformandolo, non è che una metafora, alla quale partecipano anche gli elementi della natura (il paesaggio che si confonde col cielo, ha rilevato Uwe Schneede, è simbolo di morte), e che ci rimanda, di primo acchito, alla filosofia di Søren Kierkegaard.
S’è posto in evidenza come l’ansia a cui era soggetto Munch (che, pare, all’epoca fosse affetto da agorafobia e acrofobia) possa essere messa in relazione alla definizione di “angoscia” che Kierkegaard offre al lettore del suo saggio Begrebet Angest (“Il concetto dell’angoscia”), qui nella traduzione di Cornelio Fabro: “L’angoscia si può paragonare alla vertigine. Chi volge gli occhi al fondo di un abisso, è preso dalla vertigine. Ma la causa non è meno nel suo occhio che nell’abisso: perché deve guardarvi. Così l’angoscia è la vertigine della libertà, che sorge mentre lo spirito sta per porre la sintesi e la libertà, guardando giù nella sua propria possibilità, afferra il finito per fermarsi in esso. In questa vertigine la libertà cade. Più in là la psicologia non può andare e non lo vuole neanche”. L’ansia, per Kierkegaard, è il sentimento tipico di chi è libero (benché chi la prova non la associ nell’immediato alla sua condizione di libertà), e che di conseguenza si trova dinnanzi a scelte che possono comportare novità interessanti e seducenti, ma anche esperienze rischiose. Munch avvertiva in maniera forte questo senso di disorientamento tipicamente fin de siècle (tanto più all’epoca della realizzazione dell’Urlo, quando l’artista aveva trent’anni), per giunta aggravato da dolorosi lutti familiari, che investì la sua visione del mondo, oltre che i singoli aspetti della sua vita, dando origine a quell’angoscia esistenziale che, nel suo capolavoro, prende la forma di un urlo che confonde il paesaggio (l’ansia che mina le certezze e getta l’uomo nell’instabilità).
Sappiamo per certo che Munch, avido lettore, conosceva la filosofia di Kierkegaard: è lui stesso ad affermarlo in una sua lettera, sebbene quest’ultima riguardi un periodo posteriore a quello in cui l’artista realizzò l’Urlo e contenga l’affermazione secondo cui la filosofia di Kierkegaard, per Munch, sarebbe un fatto recente. Si tratta, peraltro, d’una lettera in cui Munch fissa alcuni punti fermi del proprio panorama letterario e filosofico: “Sono stanco di essere associato alla scuola tedesca (a prescindere dalla stima che nutro nei confronti dei risultati che i grandi tedeschi hanno raggiunto nell’arte e nella filosofia). Noi, qui, abbiamo Strindberg, Ibsen, e altri, e anche Hans Jæger. Inoltre, stranamente, sono riuscito a leggere Søren Kierkegaard solo in anni recenti” (dalla lettera allo storico dell’arte svedese Ragnar Hoppe, datata 5 novembre 1929). Se dunque dovessimo davvero considerare tardo l’avvicinamento a Kierkegaard da parte di Munch, a giustificare certi aspetti dell’Urlo potrebbe comunque concorrere la frequentazione col drammaturgo August Strindberg, che il pittore norvegese conobbe proprio nel 1892. Anche Strindberg, che all’epoca aveva già scritto drammi come La signorina Julie o Il padre, era partito da un ben sedimentato sostrato realista per poi sondare le profondità della psiche giungendo a conclusioni devastanti, dominate dal pessimismo: come Munch, Strindberg è artista che critica l’ipocrisia della società, avverte un certo disagio, ha una visione del mondo profondamente cupa. La vicinanza tra i due è testimonianta anche dalla recensione che Strindberg scrisse dell’Urlo sulla rivista La revue blanche nel 1896, descrivendo l’opera in questi termini: “Cri d’épouvante devant la nature rougissant de colère et qui se prépare à parler pour la tempête et le tonnerre aux petits étourdis s’imaginant être dieux sans en avoir l’air. Crépuscule. Le soleil s’éteint, la nuit tombe, et le crépuscule transforme les mortels en spectres et cadavres, au moment où ils vont à la maison s’envelopper sous le linceul du lit et s’abandonner au sommeil. Cette mort apparente qui reconstitue la vie, cette faculté de souffrir originaire du ciel ou de l’enfer” (“Grido di spavento davanti alla natura che arrossisce di collera e che si prepara a parlare attraverso la tempesta e il tuono ai piccoli uomini confusi che s’immaginano di essere dèi senza averne la parvenza. Crepuscolo. Il sole si estingue, cala la notte, e il crepuscolo trasforma i mortali in spettri e cadaveri, nel momento in cui vanno a casa a coprirsi sotto le lenzuola del letto e ad abbandonarsi al sonno. Questa morte apparente che ricrea la vita, questa facoltà di soffrire originaria del cielo o dell’inferno”).
Edvard Munch, Ritratto di August Strindberg (1896; litografia, 50,5 x 37,8 cm; New York, Museum of Modern Art - MoMA) |
Strindberg, inoltre, è stato probabilmente il tramite tra Munch e Friedrich Nietzsche, autore col quale il drammaturgo svedese era in corrispondenza. Nietzsche è un altro autore che potrebbe costituire uno dei pilastri dell’impianto filosofico dell’Urlo: s’è voluto sottolineare il fatto che il grido che esce dalla bocca del protagonista del dipinto del norvegese potrebbe essere una sorta d’incarnazione del celeberrimo aforisma 125 della Gaia scienza (“Die fröhliche Wissenschaft” il titolo originale) di Nietzsche, di seguito nella traduzione di Ferruccio Masini: “Avete sentito di quell’uomo folle che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: «Cerco Dio! Cerco Dio!»? [...] L’uomo folle balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: «Dove se n’è andato Dio?» gridò «ve lo voglio dire! L’abbiamo ucciso - voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! [...] Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino a oggi si è dissanguato sotto i nostri coltelli - chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo lavarci?»”). L’interpretazione della “morte di Dio” come causa di smarrimento e angoscia esistenziale e come condizione che sancisce l’avvento del nichilismo (il filosofo Franco Volpi, nel suo libro dedicato al nichilismo, scrive che l’immagine nietzscheana “simboleggia il venire meno dei valori tradizionali” e “diventa il filo conduttore per interpretare la storia occidentale come decadenza e fornire una diagnosi critica del presente”: Nietzsche stesso del resto, nei suoi Frammenti postumi, aveva specificato che “nichilismo” significa “che i valori supremi si svalutano”) potrebbe attagliarsi al dipinto di Munch, che conosceva La gaia scienza e che, notano alcuni critici (tra i quali Mario De Micheli), subì proprio il fascino del nichilismo di Nietzsche. Giunge ancora in soccorso Volpi: “il nichilismo è dunque la «mancanza di senso» che subentra quando viene meno la forza vincolante delle risposte tradizionali al «perché?» della vita e dell’essere, e ciò accade lungo il processo storico nel corso del quale i supremi valori tradizionali che davano risposta a quel «perché?» - Dio, la verità, il Bene - perdono il loro valore e periscono, generando la condizione di «insensatezza» in cui versa l’umanità contemporanea”.
L’apporto nietzscheano sarebbe, tuttavia, molto più esteso. Un esempio: in Also sprach Zarathustra (“Così parlo Zarathustra”), la notissima opera del 1891, leggiamo: “Di tutto quanto è scritto amo solo quello che uno scrive col proprio sangue. Scrivi col sangue: e apprenderai che il sangue è spirito”. Il sangue è metafora della sincerità dell’artista: per tal ragione, ciò che sta dietro alla scrittura (così come all’arte) ha una rilevanza che si potrebbe anche ritenere superiore rispetto ai modi dell’espressione. Munch, in tal senso, è un artista che dipinge col sangue, e così facendo accoglie, più o meno consapevolmente, l’idea nietzscheana della fisiologia dell’arte.
Edvard Munch, Ritratto postumo di Friedrich Nietzsche (1905-1906; olio su tela, 200 x 130 cm; Oslo, Munchmuseet) |
Vale inoltre la pena evidenziare possibili collegamenti con Arthur Schopenhauer che, nella sua Philosophie der Kunst, stabiliva, a proposito del grado di espressività a cui può giungere l’arte, che il limite dell’arte consisterebbe nella sua incapacità di riprodurre “das Geschrei”, “l’urlo”, “il grido” (i riferimenti, in Schopenhauer, erano al famoso gruppo del Laocoonte e alla Strage degli innocenti di Guido Reni: le opere d’arte, per il filosofo tedesco, sono “essenzialmente mute”). Secondo lo storico dell’arte Arne Eggum, Munch, con il suo Urlo, avrebbe proposto la soluzione al problema prospettato da Schopenhauer appellandosi alla nascente teoria psicologica della sinestesia, secondo la quale una percezione di un certo tipo potrebbe produrre conseguenze attinenti a una diversa sfera sensoriale: così, gli impulsi provenienti dalla visione di certe forme e certe condizioni di luce e colore potrebbero garantire all’osservatore la percezione di un suono (e viceversa), tanto che in riferimento all’Urlo s’è anche parlato di “colore sonoro”. Un (forse piuttosto labile) appiglio a questa visione potrebbe essere fornito da Munch stesso nella descrizione riportata sotto una versione litografica dell’Urlo risalente al 1895, dove leggiamo il titolo Geschrei, che riprende il termine esatto utilizzato da Schopenhauer, e la frase “Ich fühlte das grosse Geschrei durch die Natur” (“Ho avvertito il forte grido attraverso la natura”): Munch, secondo l’interpretazione di Eggum, avrebbe utilizzato la forma “Geschrei” in luogo di quella senza il prefisso “Ge”, proprio per alludere alle constatazioni di Schopenhauer. Non abbiamo però evidenza certa del fatto che, già nel 1893, Munch conoscesse l’opera di Schopenhauer.
Edvard Munch, L’Urlo (1895; litografia, 49,4 x 37,3 cm; Oslo, Gundersen Collection) |
Poiché s’è fatto cenno alla litografia del 1895, può essere utile concludere dedicando rapide menzioni alle diverse versioni dell’Urlo, alle quali è comunque opportuno aggiungere un ulteriore capolavoro di Munch, Disperazione, opera del 1892 che, in questa sede, si cita in quanto ambientata nello stesso luogo e nello stesso punto: Munch la espose nell’autunno di quell’anno intitolandola Atmosfera al tramonto per poi cambiare la denominazione, nella seconda edizione del catalogo della mostra, in Atmosfera malata al tramonto. Anche di questo dipinto esistono più versioni e, come per l’Urlo, anche per Disperazione l’idea nacque durante il soggiorno a Nizza del febbraio-marzo 1892. La prima versione dell’Urlo è un pastello su cartone considerato il bozzetto del dipinto a olio, tempera e pastello su cartone oggi conservato alla Galleria Nazionale di Oslo, che rappresenta la seconda versione in ordine cronologico (ma, possiamo dire, il primo dipinto). Munch eseguì poi un’ulteriore versione a pastello nel 1895, lo stesso anno della litografia: si tratta dell’unico Urlo in mani private (è passato in asta da Sotheby’s nel 2012 per una cifra attorno ai 120 milioni di dollari). Infine, esiste un quarto Urlo, a tempera su cartone, noto in quanto rubato, assieme alla celeberrima Madonna, nel 2004 (dieci anni dopo il furto del quadro della Galleria Nazionale, occorso il giorno in cui si inauguravano le Olimpiadi invernali di Lillehammer), e ritrovato, così come il resto della refurtiva, nel 2006. La quarta versione risale al 1910 ed è l’ultima del grande capolavoro del pittore che anticipò l’espressionismo.
Edvard Munch, Disperazione (1892; olio su tela, 92 x 67 cm; Stoccolma, Thielska Galleriet) |
Edvard Munch, L’Urlo (1893; pastello su cartone, 74 x 56 cm; Oslo, Munchmuseet) |
Edvard Munch, L’Urlo (1895; pastello su cartone, 79 x 59 cm; Collezione privata) |
Edvard Munch, L’Urlo (1910; tempera e olio su cartone, 83 x 66 cm; Oslo, Munchmuseet) |
Bibliografia di riferimento
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo