La storia della cappella Capocaccia, che si apre nel transetto destro della chiesa di Santa Maria della Vittoria a Roma, proprio di fronte alla cappella Cornaro che accoglie l’Estasi di santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini, include anche un violento alterco tra Luca Capocaccia, facoltoso mercante nonché fratello del committente Giuseppe e suo esecutore testamentario, e uno degli artisti coinvolti nella decorazione, il grande Giovanni Battista Gaulli (Genova, 1639 - Roma, 1709), meglio noto come il Baciccio. L’episodio è raccontato da Raffaele Soprani nelle sue Vite degli artisti genovesi. Il ricco mercante romano, noto per il suo essere “del denaro tenace risparmiatore”, stabilì faticosamente un prezzo con l’artista genovese, che avrebbe dovuto occuparsi della decorazione della volta: quando però il Baciccio gli presentò la bozza, Capocaccia disse all’artista che avrebbe dovuto considerarla compresa nella somma pattuita. Il pittore andò su tutte le furie: “caricò di male parole il Capocaccia, diè calci nel cavalletto, fe’ pezzi della bozza, né mai più volle udirsi parlar di quell’opera”. L’incarico passò dunque al meno noto Bonaventura Lamberti (Carpi, 1651 - Roma, 1721).
Più accomodante dev’esser stato l’artista incaricato del gruppo marmoreo che avrebbe dovuto decorare l’altare: il compito di realizzarlo fu affidato al carrarese Domenico Guidi (Torano di Carrara, 1625 - Roma, 1701). I lavori iniziarono nel 1695, poco dopo la scomparsa di Giuseppe Capocaccia, che aveva stilato le proprie volontà il 21 agosto del 1694 e aveva indicato, come esecutori, i fratelli Luca e Michelangelo. La cappella sarebbe stata dedicata al santo eponimo, san Giuseppe, e a Guidi sarebbe toccato il compito di realizzare un gruppo raffigurante il Sogno di san Giuseppe. Tuttavia, non sappiamo a quale preciso sogno l’opera si riferisca, ovvero se a quello in cui l’angelo annuncia a Giuseppe la futura nascita di Gesù, oppure a quello in cui lo esorta a fuggire in Egitto così da salvare il figlio dalla strage degli innocenti. Probabile si tratti proprio di quest’ultimo, dato il gesto perentorio dell’angelo, che punta l’indice della mano destra davanti a sé. L’episodio è narrato nel Vangelo di Matteo (2:13-15): “Dopo che furono partiti, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Alzati, prendi il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e restaci finché io non te lo dico; perché Erode sta per cercare il bambino per farlo morire». Egli dunque si alzò, prese di notte il bambino e sua madre, e si ritirò in Egitto. Là rimase fino alla morte di Erode, affinché si adempisse quello che fu detto dal Signore per mezzo del profeta: «Fuori d’Egitto chiamai mio figlio»”.
Del progetto architettonico fu incaricato Giovanni Battista Contini (Montalcino, 1642 – Roma, 1723), che intese replicare lo schema della cappella Cornaro riprendendone tutti gli elementi essenziali: non è dato sapere se la scelta fosse autonoma o dettata dalla committenza, ma sappiamo che i Carmelitani di Santa Maria della Vittoria avrebbero gradito un altare capace di “rispondere”, in qualche modo, a quello della cappella Cornaro. Così, come nella cappella berniniana, anche in quella progettata da Contini troviamo un altare che segue una linea convessa, è inquadrato da colonne binate ed è sormontato da un timpano anch’esso curvilineo, e allo stesso modo riscontriamo i due pannelli laterali, così come le stesse scelte cromatiche, fondate sul verde e sul rosso, e ancora le identiche impaginazioni di tutti gli elementi decorativi, dalle tarsie marmoree della parete di fondo agli elementi della volta. Dei rilievi da collocare sulle pareti laterali s’occupò il francese Pierre-Étienne Monnot (Orchamps-Vennes, 1657 – Roma, 1733) che con la sua Natività e la sua Fuga in Egitto volte a completare coerentemente, con il gruppo di Guidi come episodio intermedio, il ciclo dedicato alla paternità di san Giuseppe, aveva atteso al suo primo incarico importante a Roma e aveva ottenuto dei buoni riscontri: sappiamo, dalle Vite del perugino Lione Pascoli, che Luca Capocaccia (che peraltro era legato a Monnot da un vincolo di parentela: una sua nipote aveva sposato l’artista) fu contentissimo dei rilievi laterali, e commenti favorevoli giunsero anche da molti che videro le due opere.
Domenico Guidi, Sogno di san Giuseppe (1695-1699; marmo bianco; Roma, Santa Maria della Vittoria, Cappella Capocaccia). Foto: Finestre sull’Arte. |
Il Sogno di san Giuseppe nella cappella Capocaccia assieme a uno dei pannelli di Pierre-Étienne Monnot. Foto: Finestre sull’Arte. |
Il gruppo nel dettaglio. Credit |
Se Pascoli si dilunga in un particolareggiato racconto del processo che portò alla nascita dei rilievi di Monnot, lo stesso non si può dire per il Sogno di san Giuseppe. Anzi: lo scrittore e collezionista d’arte si lancia in considerazioni non proprio lusinghiere sul carrarese, a cui decide di dar rilievo nelle sue Vite, malgrado lo ritenga un “mediocre”, perché a suo dire si sarebbe “accostato all’eccellenza” in alcune delle sue realizzazioni. Nel novero delle imprese menzionate da Pascoli figura anche quella della cappella Capocaccia, che nel corso della storia ha ottenuto commenti invero altalenanti: ma è doveroso ribadire che contro il gruppo di Guidi gioca l’impietoso confronto diretto con la santa Teresa di Bernini, che da sempre ha viziato il giudizio di molti storici dell’arte. Vittorio Moschini, per esempio, nel 1923 scriveva che il gruppo di Guidi “appare goffo e greve di materia e tanto più di fronte a quel miracolo di flammea visione che è la santa Teresa del Bernini”. Ancora prima, nel 1829, Emanuele Gerini aveva stabilito che “la santa Teresa del Bernino vince lungamente al confronto il lavoro del Guidi”. Sulla stessa onda, cinque anni prima, Carlo Fea: “la statua di san Giuseppe nella crociata è di Domenico Guidi, che volendo contrastare coll’opera di Bernino, che gli sta incontro, rappresentando un soggetto consimile, dovette naturalmente stargli al di sotto, benché non manchi di merito”. Certo, a chiunque apparirà ovvio che, da tale “sfida”, lo scultore apuano non possa che uscirne sconfitto: ma non è detto che la storia di un vinto non riesca comunque a destare un certo interesse, specie se “non manca di merito”. Anche perché ormai oggi è chiaro il ruolo di Domenico Guidi come alternativa “anti-berniniana” capace di esercitare grande influenza su molti artisti, specie sui francesi che giungevano nella capitale dello Stato Pontificio e, dopo la scomparsa di Alessandro Algardi, come maggior scultore (assieme a Ercole Ferrata e Antonio Raggi) nella Roma del Seicento inoltrato.
Per il Sogno di san Giuseppe, Guidi immagina una soluzione non troppo diversa rispetto a quella di Bernini, ancorché chiaramente meno spettacolare. Il suo san Giuseppe dorme seduto, appoggiandosi col gomito destro a una sporgenza. La camicia si apre in pieghe spigolose che un po’ celano il corpo del santo, ma i particolari che invece si mostrano alla vista denotano un attentissimo studio delle anatomie: la piega dei muscoli brachiali in prossimità del gomito e la linea dei pettorali ne sono eloquenti dimostrazioni. Notevole, poi, la resa dell’espressione del volto, che lascia chiaramente intendere come san Giuseppe sia caduto in un sonno profondo: un sonno durante il quale il santo vedrà apparire l’angelo che sta già sopraggiungendo alla sinistra di san Giuseppe e che con il suo braccio destro inizia a scuotere delicatamente il padre di Gesù. L’angelo si distingue per il suo profilo classico: è profondamente diverso rispetto a quello di Bernini. Il barocco di Domenico Guidi è infatti più temperato rispetto a quello di Bernini e si concede un classicismo che connota la sua cifra stilistica e che, nel caso della cappella Capocaccia, probabilmente spinse i committenti a scegliere l’artista carrarese per similarità di gusto. Tutti gli artisti scelti dai Capocaccia erano infatti accomunati da una convinta adesione a un’interpretazione classicista dell’arte barocca.
Alessandro Algardi, San Michele (1650 circa; bronzo, altezza 74 cm; Bologna, Musei Civici d’Arte Antica) |
Confronto tra i divesi angeli: a sinistra, quello del Sogno di san Giuseppe di Domenico Guidi. Al centro, quello del Monumento funebre di Louis Phélypeaux de la Vrillière di Domenico Guidi (1677-1679; marmo bianco, altezza 245 cm; Châteauneuf-sur-Loire, chiesa di San Martial); a destra, quello dell’Immacolata Concezione di Carlo Maratta (1665-1671; olio su tela, Siena, Sant’Agostino). |
E in certa misura marattesco sembrerebbe anche il san Giuseppe: qui il riferimento, secondo Giometti, è il San Pietro penitente, del 1670 circa, conservato al Museo Nazionale di Capodimonte a Napoli, che con la sua “tunica aperta sul petto”, il “mantello che gli avvolge la gamba sinistra con ampi panneggi” e la postura che “pare quasi identica”, potrebbe aver ispirato il carrarese. Ma la figura di san Giuseppe sembra rifarsi anche a precisi precedenti scaturiti dallo stesso scalpello di Domenico Guidi: un san Giuseppe colto in una posa simile, ovvero seduto e che s’appoggia sulle braccia, è presente in un celebre capolavoro dell’artista, la Sacra famiglia con san Zaccaria, santa Elisabetta e san Giovannino, pala marmorea nella chiesa di Sant’Agnese in Agone a Roma, risalente al 1676. Più o meno allo stesso periodo risale invece un’altra opera in cui scorgiamo una figura simile al san Giuseppe di Santa Maria della Vittoria: è il gruppo noto come La Renommée, che Guidi scolpì tra il 1677 e il 1686 per il Palazzo di Versailles (Guidi fu sempre in ottimi rapporti con gli artisti francesi, e l’occasione di eseguire questo lavoro nacque dopo che l’artista, che negli anni Settanta era divenuto direttore dell’Accademia di San Luca, nominò Charles Le Brun membro onorario, e il collega francese, probabilmente per ringraziarlo, gli procurò la prestigiosa commissione). Nel gruppo della Renommée, che prende nome dalla figura femminile che spicca in alto (la Renommée è la Fama), notiamo che l’allegoria del Tempo, raffigurato come un vecchio alato che sorregge un clipeo col profilo di Luigi XIV, mostra una marcata somiglianza col san Giuseppe della cappella Capocaccia. Ma un precedente importante è costituito senz’altro dalla Santa Teresa berniniana: lo si nota in particolar modo in un bozzetto per il Sogno di san Giuseppe conservato a Pittsburgh. In questa piccola terracotta, la posa del santo è simile a quella della Teresa di Bernini e la roccia ricorda la nuvola che trasportava la mistica spagnola nel capolavoro della cappella Cornaro: tuttavia, Guidi dovette avere dei ripensamenti in fase di realizzazione del gruppo marmoreo, optando per una scultura più misurata e classica.
Dettaglio della figura di san Giuseppe nel gruppo di Domenico Guidi. Credit |
Carlo Maratta, San Pietro penitente (1670 circa; olio su tela, 105 x 139 cm; Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte) |
Domenico Guidi, La Renommée o La storia scrive le gesta di Luigi XIV (1677-1685; marmo bianco, altezza 290 cm; Versailles, Musée National). Credit |
Domenico Guidi, La Sacra Famiglia con santa Elisabetta, san Zaccaria e san Giovannino, dettaglio della figura di san Giuseppe (1676-1685; marmo bianco, 491,52 x 190,65 cm; Roma, Sant’Agnese in Agone) |
Ovviamente furono molti i commentatori che salutarono positivamente il gruppo di Domenico Guidi: basti l’esempio di un fine conoscitore come Francesco Milizia, che incluse la scultura tra le “opere che in Roma gli fanno onore”. Certo: si tratta di una scultura che, a detta di molti, presenta certi difetti, per esempio nei panneggi (che comunque dobbiamo immaginare eseguiti in larga parte da aiuti di bottega, data l’età avanzata dell’artista), ma si tratta di un lavoro di eccelsa qualità, che affascina il visitatore di Santa Maria della Vittoria e si pone come coronamento del tutto coerente alla fine della carriera di uno dei più grandi artisti del Seicento. Non male per un artista ultrasettantenne che, con questo capolavoro, chiudeva degnamente il proprio glorioso percorso artistico.
Bibliografia di riferimento
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).