Se dovessimo scegliere un gruppo scultoreo che meglio d’ogni altro possa rappresentare il Seicento e il Barocco, molto probabilmente indicheremmo l’Estasi di santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini (Napoli, 1598 – Roma, 1680): difficile pensare a un’altra opera che riesca a gareggiare con il gruppo berniniano in termini di potenza espressiva, capacità di emozionare l’osservatore e di suscitare stupore e ammirazione, perfetta integrazione con lo spazio, sapienza compositiva, maestria tecnica. Sotto una pioggia di luce dorata che, in forma di fitti raggi, scende dall’alto per illuminare i due protagonisti, Bernini, nella chiesa di Santa Maria della Vittoria a Roma, cattura un’estasi mistica nel pieno del suo svolgimento. Santa Teresa d’Ávila (Ávila, 1515 – Alba de Tormes, 1582), la religiosa spagnola canonizzata da Gregorio XV nel 1622, sta perdendo i sensi e sta per cadere in deliquio: l’espressione del volto, colto nel momento dell’abbandono, non lascia adito a dubbi. L’angelo, serafico, sorridente, sopraggiunge tenendo con delicatezza un dardo dorato rivolto verso il cuore della santa: con la mano sinistra è già pronto a sollevarle lo scapolare onde poterla raggiungere con la sua freccia.
Facciata della chiesa di Santa Maria della Vittoria a Roma. Foto: Finestre sull’Arte |
Gian Lorenzo Bernini, Estasi di santa Teresa (1647-1652; marmo e bronzo dorato, h. 350 cm; Roma, Santa Maria della Vittoria). Credit |
Siamo di fronte a un’opera che intende offrire una raffigurazione fedele di un passo dell’autobiografia di Teresa d’Ávila, che la santa compose tra il 1562 e il 1565. Così leggiamo nella descrizione dell’estasi: “Veía un ángel cabe mí hacia el lado izquierdo en forma corporal, lo que no suelo ver sino per maravilla. [...] No era grande, sino pequeño, hermoso mucho, el rostro tan encendido que parecía de los ángeles muy subidos, que parecen todos se abrasan. [...] Veíale en las manos un dardo de oro largo, y al fin de hierro me parecía tener un poco de fuego. Éste me parecía meter por el corazón algunas veces, y que me llegaba a las entreñas. Al sacarle, me parecía las llevaba consigo, y me dejaba toda abrasada en amor grande de Dios. Era tan grande el dolor, que me hacía dar aquellos quejidos; y tan excesiva la suavidad que me pone este grandíssimo dolor, que no hay desear que se quite, ni se contenta el alma con menos que Dios. No es dolor corporal, sino espiritual, aunque no deja de participar el cuerpo algo, y aun harto. Es un requiebro tan suave que pasa entre el alma y Dios, que suplico yo a su bondad lo dé a gustar a quien pensare que miento” (“Vedevo un angelo vicino a me, a sinistra, in sembianze carnali, come non ne avevo mai visti tranne che nelle mie visioni. [...] Non era alto, era piccolo, e molto bello, aveva il volto così illuminato che mi sembrava uno degli angeli delle schiere più alte, quelli che sembrano bruciare. [...] Gli vedevo in mano un lungo dardo dorato, e alla fine del ferro mi sembrava ci fosse un po’ di fuoco. Mi sembrava che col dardo mi trafiggesse il cuore alcune volte, e che mi arrivasse fino alle viscere. Quando toglieva il dardo, mi sembrava quasi che se le portasse via con sé, e che mi lasciasse tutta bruciare di un grande amore per Dio. Il dolore era così forte che mi faceva emettere alcuni gemiti, ma era così grande la dolcezza che questo fortissimo dolore mi dava, che non riuscivo a desiderare che smettesse, né che la mia anima si contentasse con altro che non fosse Dio. Non era un dolore fisico, ma spirituale, anche se in qualche misura lo stesso corpo ne era partecipe, anzi lo era davvero molto. Era una carezza così dolce tra l’anima e Dio, che prego la sua bontà affinché la possano provare anche coloro che pensano che io menta”.
È del tutto lecito supporre che l’autobiografia di Teresa d’Ávila fosse la prima fonte da cui Bernini attinse per la propria immagine: non si spiegherebbe altrimenti la così stretta aderenza della scultura al testo, con cui l’artista poté familiarizzare forse anche grazie agli stralci contenuti nella bolla di canonizzazione del 1622. Bernini si premura infatti di dar forma a ogni singolo particolare del racconto della santa: l’angelo che arriva da sinistra, piccolo e bello. Il lungo dardo dorato puntato verso il cuore. Il volto di santa Teresa contratto in una smorfia di dolore. La bocca aperta che geme. La sensazione di dolore che scuote il suo corpo. Le fiamme, che un tempo avvolgevano la freccia (quella che vediamo oggi è un rimpiazzo posteriore). Ci sono infine anche coloro a cui la santa rivolge il proprio messaggio. E non parliamo soltanto di noi che osserviamo e che siamo chiamati a essere attivamente partecipi di tale visione: ai lati della scena principale, come se fossimo in un teatro, notiamo infatti due palchetti scorciati in prospettiva, dai quali s’affacciano incuriositi e meravigliati alcuni personaggi. Sono i membri della famiglia Cornaro (o Corner, alla veneziana: erano infatti di Venezia), dalla quale proveniva il committente del gruppo scultoreo, il cardinale Federico Cornaro che, ottenuto nel 1647, in data 22 gennaio, il giuspatronato della cappella del transetto sinistro di Santa Maria della Vittoria, desiderava farne la propria sepoltura. È comunque del tutto probabile che i contatti tra committente e artista rimontassero a mesi prima di tale data, anche perché agli esordî del 1647 i lavori risultano già in corso, e perché esistono altri casi, nello stesso edificio di culto, di titolarità di una cappella accordata mentre già fervevano i cantieri. Sarebbero occorsi cinque anni per completare il tutto: il 1652 è l’anno in cui Bernini finisce di attendere al suo capolavoro.
La cappella Cornaro in Santa Maria della Vittoria a Roma. Credit |
L’altare con l’Estasi di santa Teresa. Foto: Finestre sull’Arte |
L’idea di Federico Cornaro era, tutto sommato, piuttosto semplice: sua intenzione era infatti quella di celebrare la famiglia, che fino ad allora contava sette cardinali, compreso Federico stesso, e un doge (Giovanni I Cornaro, suprema autorità della Repubblica di Venezia dal 1625 al 1629, nonché padre di Federico), onorando al contempo la più importante santa dell’ordine carmelitano, lo stesso per il quale era stata costruita la chiesa di Santa Maria della Vittoria. Gli otto Cornaro vengono tutti ritratti nei palchetti ai lati del gruppo principale: a destra, troviamo Francesco senior, Federico (è il secondo), Andrea e Luigi, mentre a sinistra osserviamoFederico senior, Francesco iunior, Marco (il più giovane) e il doge Giovanni I. Tutti i personaggi si affacciano alle balaustre dei palchetti: alle loro spalle si aprono splendide architetture in stucco rese prospetticamente.
Bernini ovviamente non si limita a un semplice ritratto di famiglia. Per lui tutto è funzionale a catturare l’osservatore (ma non sarebbe azzardato utilizzare anche il termine “spettatore”), e di conseguenza anche i ritratti dei Cornaro partecipano alla grande scenografia teatrale che ha ideato per la Cappella Cornaro (non a caso molti storici dell’arte hanno parlato di theatrum sacrum, “teatro sacro”): architettura, scultura e pittura si fondono per guidare l’osservatore a contemplare la visione che si para dinnanzi a lui, ma anche per indurlo a riflettere sul mistero dell’estasi di santa Teresa. Lo spettatore rimane sì coinvolto, ma una certa distanza lo divide dalla scena sacra, e in più le espressioni stupite, sorprese e talora sconcertate dei Cornaro vogliono con evidenza sottolineare l’impossibilità, da parte della mente umana, di scrutare i disegni della divinità. Occorre comunque sottolineare le differenze che intercorrono tra i due palchetti e che hanno fatto supporre l’esteso ricorso ad aiuti di bottega. Il gruppo di destra, ricavato da un unico blocco di marmo e che evidenzia modi diversi rispetto a quello di sinistra (il ritratto di Federico, l’unico a non essere eseguito postumo, ci appare più vivido rispetto agli altri, e probabilmente se ne occupò il maestro in persona) è da assegnare a Bernini, con probabile aiuto di Jacopo Antonio Fancelli (Roma, 1606 - 1674), fratello del più noto Cosimo. Il gruppo di sinistra, meno vigoroso e invece più delicato, denota la partecipazione di un artista diverso e indipendente, capace di “dare già una interpretazione personale del Bernini, pittorica, vibrante e sentimentale” (così Livia Carloni): si tratterebbe di Antonio Raggi (Vico Morcote, 1624 – Roma, 1686), scultore svizzero del Canton Ticino verso il quale sono documentati alcuni pagamenti riconducibili all’impresa della cappella Cornaro.
Il palchetto di sinistra nel contesto della cappella Cornaro. Foto: Finestre sull’Arte |
Il palchetto di sinistra. Credit |
Il palchetto di destra nel contesto della cappella Cornaro. Foto: Finestre sull’Arte |
Il palchetto di destra. Credit |
Come detto, i personaggi nei palchetti ci conducono verso il fulcro di questo teatro sacro: il gruppo che rappresenta la transverberazione di santa Teresa, ovvero la visione dell’angelo che trafigge il cuore della santa con una freccia (transverberare, in latino, significa proprio “trafiggere”). Ogni particolare viene studiato da Bernini nei minimi dettagli: l’architettura stessa si può ritenere parte integrante dell’opera. Per “incorniciare” il gruppo scultoreo, l’artista progetta una nicchia dall’andamento curvilineo, convessa, inquadrata da due coppie di colonne e sormontata da un timpano anch’esso curvilineo: un espediente per avvicinare l’opera all’osservatore e per accrescere la teatralità dell’insieme. A completare quell’unità delle arti alla quale spesso tendeva l’arte barocca e che spesso connotava anche le macchinazioni berniniane, concorrono le nuvole in stucco dipinto che decorano il soffitto della cappella Cornaro e che furono realizzate da Guido Ubaldo Abbatini (Città di Castello, 1600 circa – Roma, 1656), all’epoca collaboratore anche in altre imprese di Bernini. Le nuvole di Abbatini invadono tutto lo spazio superiore della cappella spingendosi a debordare oltre i limiti imposti dall’arcone: così facendo, il frescante umbro non solo asseconda la volontà di Bernini di creare uno spazio unico in cui, come detto poc’anzi, architettura, scultura e pittura si uniscono e si mescolano, ma anticipa anche quello che sarà un tratto tipico della grande decorazione barocca e che si diffonderà di lì a pochi decennî. Dalle nuvole s’affacciano schiere angeliche intente a osservare l’evento, e soprattutto, nel mezzo di tale coltre, possiamo osservare la colomba dello Spirito Santo, vera fonte metafisica che giustifica la luce divina che inonda la scena.
Occorre infatti evidenziare che, nel grande teatro berniniano, un ruolo di primo piano viene giocato dalla luce. E non si parla soltanto dei raggi in bronzo dorato che Bernini inserisce dietro le figure dell’angelo e di santa Teresa inondando la nicchia della presenza divina che rende possibile la miracolosa estasi: considerevole è l’importanza della luce naturale. Per procurarsene una fonte inesauribile, Bernini ha voluto aprire una finestra, all’altezza del timpano: la luce naturale in questo modo piove dall’alto illuminando i raggi dorati, coi quali la luce della finestra si fonde, e facendo risaltare le pieghe della veste di santa Teresa scossa dalla visione, il sorriso dell’angelo ben marcato dai contrasti tra la luce e la penombra, il movimento delle braccia della creatura divina che s’appresta a colpire il cuore della santa col suo dardo, il fremito di lei che, in un misto di gioia e dolore, s’abbandona a quella “grande dolcezza” che con tanto ardore aveva descritto nella sua autobiografia. È una luce in cui, come scrisse uno dei maggiori esperti di Bernini, Marcello Fagiolo, “le figure di Teresa e dell’Angelo apparivano veramente come una visione soprannaturale, fantasmatica, galleggiante misteriosamente nel vuoto”. Il mistero a cui lo studioso allude è quello della transverberazione: tanto grande da muovere a stupore gli stessi membri della famiglia Cornaro che assistono all’evento, tanto distante da noi da imporre a Bernini certe soluzioni per far comprendere all’osservatore di trovarsi di fronte a un evento cui è impossibile dare una spiegazione razionale.
La volta con i dipinti di Guido Ubaldo Abbatini. Foto: Steven Zucker |
La finestra vista dall’esterno. Foto: Finestre sull’Arte |
Il volto di santa Teresa. Credit |
Le pieghe della veste e la mano. Credit |
La nuvola e il piede della santa. Credit |
L’angelo. Credit |
Il “galleggiamento” a cui accenna lo studioso è una di queste soluzioni. I corpi in marmo, materiale pesante per antonomasia, ci appaiono oltremodo leggeri nel loro muoversi a mezz’aria (il gruppo, peraltro, non poggia a terra, ma è fissato alla parete della cappella da dietro, per dare l’illusione che le figure si librino davvero nello spazio), sospesi su quelle nuvolette che trasportano santa Teresa in una dimensione spirituale. E ancora, l’aria che solleva la sua veste muovendola in tutte le direzioni e facendole assumere pieghe innaturali sembra quasi annullare la sua natura corporea: sotto le mille pieghe dell’ampio saio non riusciamo a distinguere le fattezze di santa Teresa, e alla nostra vista si presentano solo i piedi delicatissimi, le belle mani e il volto attraversato da questo indicibile sentimento. Eppure, malgrado quest’assenza di corporalità, certi autori hanno provato a fornire un’interpretazione dell’estasi di santa Teresa in chiave erotica: interpretazione certo suggestiva e confortata dalla sottile sensualità che l’opera sicuramente può ispirare, ma che comunque mal s’adatta alle fonti che parlano di Bernini come di un artista molto religioso e che, pertanto, possiamo immaginare poco incline a fornire rappresentazioni della santa che avrebbe potuto ritenere blasfeme.
Se ci capitasse di leggere la biografia di Bernini scritta da suo figlio Domenico, faremmo la conoscenza d’un artista abituato a recitare il rosario, ad ascoltar la messa ogni mattina, a leggere i salmi e a dedicarsi a molte altre pratiche tipiche della religiosità del tempo. La devozione di Bernini viene confermata, tra gli altri, da Paul Fréart de Chantelou, il collezionista francese designato da Luigi XIV per accogliere Bernini durante il suo soggiorno parigino del 1665, che nel suo diario annotava ogni volta che Bernini gli chiedeva d’accompagnarlo a messa, e da Filippo Baldinucci, che ci informa di come l’artista si comunicasse due volte la settimana e di come tenesse “un vivo pensiero della morte, intorno alla quale faceva bene spesso lunghi colloqui col padre Marchesi suo nipote sacerdote della Congregazione dell’Oratorio nella Chiesa Nuova”. Malgrado tali ritratti, ci sono stati autori, provenienti soprattutto dalla psicanalisi, che hanno cercato di leggere in termini più “terreni” l’estasi di santa Teresa. Jacques Lacan, per esempio, così ha parlato della santa Teresa: “Vous n’avez qu’aller regarder à Rome la statue du Bernin pour comprendre tout de suite qu’elle jouit, ça ne fais pas doute” (“Non dovete far altro che andare a Roma a guardare la statua di Bernini per capire subito che lei sta godendo, non ci sono dubbi”). Il verbo jouir utilizzato da Lacan (e che si ricollega al suo concetto di jouissance, molto difficile da definire), è stato da molti interpretato in chiave erotica, quasi che la santa stia provando un orgasmo. Non si tratterebbe, comunque, di visioni forzate: una certa carica sensuale fu avvertita financo dai contemporanei di Bernini. Un anonimo (e piuttosto velenoso) commentatore, contemporaneo di Bernini, scrisse, in riferimento alla santa Teresa, che l’artista “tirò quella Vergine purissima in terra, non che nel terzo cielo, a fare una Venere non solo prostrata, ma prostituta”. Stendhal, nelle sue Promenades dans Rome, riporta che il frate che accompagnava lui e i suoi amici nella visita a Santa Maria della Vittoria gli confidò che "è un gran peccato [sic] que ces statues puissent présenter facilement l’idée d’un amour profane“ (”è un gran peccato che queste statue possano ispirare facilmente l’idea di un amore profano").
Tuttavia, senza entrare nel merito di una disanima anche soltanto parziale di quanti hanno cercato di conferire una connotazione carnale al gruppo berniniano, gli studiosi contrarî a tale visione hanno argomentato sull’espressione assunta dal volto di santa Teresa (che rimane comunque indubbiamente simile a quella di una qualunque donna colta in piena estasi erotica) sostenendo che Bernini non avrebbe fatto altro che attenersi alla sua principale fonte letteraria: l’autobiografia della santa. Di recente, uno studioso specialista del barocco, Saverio Sturm, ha però voluto aggiungere almeno un paio di altre possibili fonti che, affiancandosi alla descrizione citata in apertura del presente articolo, potrebbero aver ispirato l’immagine di Bernini: una è la Llama de amor viva di Giovanni della Croce, mistico carmelitano spagnolo che utilizzò la figura della fiamma per simboleggiare l’incontro dell’anima con Dio (“¡Oh, llama de amor viva, / que tiernamente hieres / de mi alma en el más profundo centro! / Pues ya no eres esquiva, / acaba ya, si quieres, / rompe la tela deste dulce encuentro”, “O, fiamma di amore viva / che teneramente ferisci / della mia anima il più profondo centro! / Poiché non sei schiva, / finisci ormai, se vuoi, / rompi il velo di questo dolce incontro”). L’altra fonte potrebbe essere la Loda a santa Teresa del poeta Antonio Bruni, che incluse la lunga lirica in una raccolta, Le Veneri, pubblicata nel 1633 e dedicata a Odoardo I Farnese, duca di Parma e Piacenza. Nella poesia possiamo leggere un’ampia narrazione dell’incontro tra santa Teresa e l’angelo, di cui riportiamo i versi che descrivono il momento in cui l’angelo trafigge la santa col dardo: “Qui de la pungentissima saetta / de’ mortali invisibile a la luce; / nel grembo virginale il colpo affretta, / de’ bei colpi d’Amor maestro e duce. / Ma, se ’lama di lei l’angel saetta, / Non ne trahe sangue, e ’n lei splendore adduce: / ma, se l’impiaga il cor con freccia d’oro, / Sua medica è la piaga, il duol ristoro. / La vergine ferita il cor ben sente / Stemprato in gioia, e liquefatto in sangue; / ma con teneri gemiti languente / mostra piagato il sen, la piaga essangue. / Estasi amorosissima la mente / l’innebria, e sol d’Amor sospira, e langue / Ma i suoi dolci languori hanno la palma / D’accrescer luce al seno, e piaga a l’alma”.
Quel grande amore di cui parla il poeta è lo stesso che Dio dichiara alla santa per mezzo del cartiglio portato dai due angeli nella parte alta della cappella. Nisi coelum creassem, ob te solam crearem, ovvero “se non avessi creato il cielo, lo creerei soltanto per te”: parole davvero forti, che denotano un amore sconfinato che trascende qualunque dimensione, e che rinforzano il messaggio di una delle sculture più celebrate, meravigliose e intense di tutta la storia dell’arte. E pensare che Gian Lorenzo Bernini, al colmo della sua tipica modestia, era solito dire che la santa Teresa fosse “la men cattiva opera” che avesse realizzato.
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