Amore e Psiche giacenti: la storia del capolavoro di Antonio Canova


Genesi e caratteristiche di Amore e Psiche giacenti, il capolavoro di Antonio Canova realizzato tra il 1787 e il 1793 e conservato al Louvre.

Una vena di sentimentale delicatezza connota il capolavoro di Antonio Canova (Possagno, 1757 – Venezia, 1822) fin dal titolo con cui il Louvre ha deciso di presentarlo al suo pubblico: Psyché ranimée par le baiser de l’Amour, ovvero “Psiche risvegliata dal bacio di Amore”. Non “Amore e Psiche giacenti”, come l’opera è nota in Italia, oppure “Amore e Psiche che si abbracciano”, denominazione con cui Canova, in una lettera del 12 dicembre 1801 ad Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy, si era riferito al gruppo scultoreo. Più che alle pulsioni sensuali, che comunque in Canova non sono sopite, il titolo in francese preferisce dar rilievo alla dolcezza del gesto, e contemporaneamente intende connotare con precisione il momento della favola al quale stiamo assistendo, benché l’interpretazione dello scultore veneto sia leggermente diversa rispetto al testo letterario a cui si rifà. Val dunque la pena raccontare la bella storia di Amore e Psiche che il poeta Apuleio narra nella sua celebre opera, L’asino d’oro, unico romanzo dell’antichità romana che conosciamo per intero: la favola è una lunga digressione che il lettore incontra durante lo svolgimento della trama.

Antonio Canova, Amore e Psiche giacenti
Antonio Canova, Amore e Psiche giacenti (1787-1793; marmo, 155 x 168 x 101 cm; Parigi, Louvre). Foto di Francesco Gasparetti - Credit

Psiche è una bellissima ragazza, la cui avvenenza suscita la curiosità e, allo stesso tempo, la gelosia di Venere: i tanti uomini innamorati di Psiche, infatti, hanno preso a paragonare la giovane alla dea della bellezza. Quest’ultima, per punirla, decide di inviare contro di lei suo figlio, Amore: le frecce del dio hanno infatti il potere di far innamorare le persone, e l’idea è quella di far innamorare Psiche dell’uomo più brutto sulla faccia della terra. Amore sbaglia però a scoccare la freccia, e finisce col colpirsi da solo: è dunque lui a innamorarsi perdutamente di Psiche. Ma il giovane dio non può mettere la madre a conoscenza della situazione: la reazione di Venere avrebbe infatti risvolti molto pericolosi. Così, Amore fa in modo che Psiche giunga al suo palazzo: il dio, celandosi di continuo per non rivelare la propria identità, riesce a conquistarla, e i due passano insieme accesi incontri di passione, che nessuna donna mortale aveva mai sperimentato. Tuttavia una notte Psiche, su consiglio delle sorelle invidiose, decide di spiare l’amante mentre dorme, per conoscerne l’identità. Non fa però i conti con la sua lampada a olio: una goccia scivola dalla lampada e termina sulla pelle di Amore, che si risveglia e, deluso e adirato, abbandona la ragazza.

Psiche è affranta per il dolore, tenta invano di uccidersi, non riesce a trovare pace, comincia a vagare per la terra alla ricerca di Amore: la soluzione, pensa la ragazza, è rivolgersi a Venere, pur sapendo che la scelta potrà costarle molto cara. Venere, infatti, sottopone Psiche ad alcune durissime prove: l’ultima di queste consiste nel recarsi agli inferi per chiedere alla dea Proserpina un’ampolla contenente un po’ della sua bellezza. Psiche supera tutte le prove, si reca nell’oltretomba, riesce a ottenere il vasetto, ma la sua curiosità la porta ad aprirlo: si rivela una trappola di Venere, perché il contenuto del vaso è un’aria soporifera che la getta in un profondissimo sonno. Amore, che nel frattempo ha cominciato ad avvertire la mancanza di Psiche ed è arrivato a ritenere insopportabile la sua assenza, corre in soccorso dell’amata e, pungendola con una freccia, la risveglia, rimproverandola perché già per la seconda volta la sua curiosità ha rischiato di esserle fatale. Amore vola quindi da Giove per chiedergli aiuto: il padre degli dèi acconsente all’unione dei due, e il racconto termina con il matrimonio, che permette a Psiche di diventare una dea.

Il momento della favola descritto da Canova è quello del risveglio di Psiche dopo il sonno infernale: ad aiutarci nell’identificazione del preciso istante è il vasetto che la ragazza ha riportato con sé dagli inferi, e che notiamo dietro la sua schiena. Tuttavia, come anticipato, nell’opera canoviana Amore non risveglia Psiche “innoxio punctulo sagittae suae” (ovvero “con un’innocua puntura della sua freccia”), bensì con un languido bacio. A ricordare le motivazioni che spinsero Canova a dare una propria interpretazione della favola raccontata da Apuleio è Leopoldo Cicognara (Ferrara, 1767 – Venezia, 1834), storico dell’arte amico dello scultore veneto, che nella sua Storia della scultura, pubblicata tra il 1813 e il 1818, scrive che il modo “non così semplice e innocente” con cui Canova trattò il soggetto “non ebbe altra origine che da un’osservazione fatta all’artefice da milord Bristol, cui parve freddo il Teseo sedente; onde egli si propose di fare un lavoro di carattere assai caldo e passionato”. Il personaggio citato da Cicognara, Fredrick Augustus Hervey, quarto conte di Bristol, era stato cliente di Canova, e secondo la ricostruzione di cui sopra ebbe il merito di aver stimolato nell’artista la volontà di trattare con maggior passione i suoi soggetti: ecco dunque spiegato il perché di quel caldo bacio che Amore dona a Psiche per risvegliarla dal proprio sonno.

Il gruppo visto da dietro
Il gruppo visto da dietro. Foto di Francesco Gasparetti - Credit


Particolare con il vaso e le frecce
Particolare con il vaso e le frecce. Foto di Francesco Gasparetti - Credit

Ci sarebbe un preciso precedente iconografico a cui Canova si sarebbe ispirato per realizzare il gruppo. In particolare, il critico Karl Ludwig Fernow (che fu sempre particolarmente duro nei confronti dell’artista veneto) aveva notato come Canova avesse tratto ispirazione da un dipinto con Fauno e Baccante proveniente da Ercolano (che a sua volta aveva ispirato un’incisione di Filippo Morghen che costituirebbe un altro precedente importante): è del resto noto che Canova, in occasione del suo soggiorno napoletano del 1780 (soggiorno poi ripetuto nel 1787, lo stesso anno in cui ricevette l’incarico per Amore e Psiche giacenti), ebbe modo di visitare le rovine di Ercolano, oltre a quelle di Pompei e Paestum, ma è parimenti probabile che fosse stato proprio Morghen il suo “tramite” col dipinto antico. L’ispirazione potrebbe però essere giunta anche da altre fonti: per esempio un dipinto di Jacopo Amigoni, artista veneto come Canova, che raffigura Flora e Zefiro in un atteggiamento che vagamente può richiamare quello assunto da Amore e Psiche nel gruppo dello scultore di Possagno. O ancora, una possibile fonte, individuata da Gian Lorenzo Mellini, potrebbe essere una porcellana della manifattura di Ludwigsburg, modellata da Christian Wilhelm Beyer e riprodotta in diversi esemplari, che raffigura una ninfa con un fauno che s’abbracciano.

Filippo Morghen, Fauno e baccante
Filippo Morghen, Fauno e baccante (1757; incisione dal libro Le pitture Antiche d’Ercolano, vol. I pl. XV; Parigi, Bibliothèque Nationale de France)


Jacopo Amigoni, Flora e Zefiro
Jacopo Amigoni, Flora e Zefiro (1725-1735 circa; olio su tela, 157,5 x 109,3 cm; Collezione privata). Il dipinto è passato in asta da Sotheby’s nel 2014.


Porcellane di Ludwigsburg
Manifattura di Ludwigsburg su modello di Christian Wilhelm Beyer e Johann Adam Bauer, Coppia di scene di Baccanali (1770 circa; porcellana, lunghezza 26 cm; Collezione privata). La coppia è passata in asta da Sotheby’s nel 2007.

Certo è che lo studio del gruppo fu particolarmente laborioso, come attestano i disegni e i bozzetti in terracotta che si sono conservati: prove che, peraltro, ci aiutano anche nell’operazione di discernimento delle fonti iconografiche. C’è in particolare un foglio, conservato al Museo Civico di Bassano del Grappa (inventario E.b. 172.1183), dove, nell’angolo in alto a destra, compare uno schizzo con due figure giacenti che paiono ricalcare l’incisione di Morghen tratta dal libro Le pitture antiche d’Ercolano: il braccio sollevato della donna, motivo che ritorna in tutti gli studî per Amore e Psiche giacenti, è quello che poi ritroveremo anche nella scultura finita. C’è poi un bozzetto in terracotta, conservato al Museo Correr di Venezia, che rappresenta un momento successivo dell’elaborazione del gruppo, benché risulti ancora evidente la dipendenza dal modello antico: è comunque chiaro come Canova abbia già in mente che la scena dovrà avere una certa connotazione erotica, quale quella che traspare da questo bozzetto, che sembra rappresentare più l’inizio d’un amplesso che un bacio tra due personaggi mitologici. L’idea sembra essere ormai quasi del tutto fissata in un ulteriore disegno, sempre conservato a Bassano (inventario E.b. 29.1040), in cui si delinea una posa quasi del tutto identica a quella del gruppo finito: Psiche è sdraiata, con la schiena leggermente alzata, e tende le braccia verso il collo di Amore. Il suo amante sopraggiunge da dietro, con le ali spiegate, una gamba piegata a poggiare sul ginocchio e l’altra distesa, mentre si protende verso l’amata per darle un bacio.

Antonio Canova, Ninfe che scoprono amorino e altre figure aggruppate
Antonio Canova, Ninfe che scoprono amorino e altre figure aggruppate (1787; disegno a carboncino su carta, 22 x 32,9 cm; Bassano del Grappa, Museo Civico, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)


Antonio Canova, Amore e Psiche giacenti, terracotta
Antonio Canova, Bozzetto per Amore e Psiche giacenti (1787; terracotta, altezza 25 cm; Venezia, Museo Correr)


Antonio Canova, Amore e Psiche giacenti, disegno
Antonio Canova, Amore e Psiche giacenti (1787; disegno a matita grassa su carta, 19,5 x 33,5 cm; Bassano del Grappa, Museo Civico, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)

Il processo creativo era già terminato nel 1788, anno in cui Canova aveva preparato due gessi da cui avrebbe ricavato l’opera finita in marmo di Carrara. Il committente era un nobile inglese, John Campbell (diventato, nel 1796, primo barone di Cawdor), che però non sarebbe mai entrato in possesso del marmo: Canova terminò l’opera nel 1793, e all’epoca Campbell, per ragioni non ancora del tutto chiarite, non poté finire di pagarla. Il gruppo rimase dunque nello studio dello scultore fino al 1798, quando un certo “Enrico Hoppe olandese” (Hugh Honour, grande studioso di Canova, lo identifica con Henry Philip Hope, membro di una famiglia di banchieri anglo-olandesi) offrì per l’opera la cifra di duemila zecchini: la stessa con cui a brevissima distanza, ovvero nel 1800, la scultura fu ceduta a Gioacchino Murat, che la installò nella sua residenza, il castello di Villiers-la-Garenne, dove anche Napoleone ebbe modo di ammirarla. L’opera fu quindi spostata al Palazzo di Compiègne e, dopo che Murat divenne re di Napoli, fu infine trasferita al Louvre, dove la si può tuttora osservare.

L’opera destò ammirazione da parte di molti, anche in virtù della composizione che, pur gettando le proprie solide basi su esempî più antichi, giungeva a una propria peculiare originalità (anche perché mai nel marmo s’era vista una composizione così speciale), frutto di una fantasia inventiva che in Canova fu sempre molto fervida. Anche il già citato Cicognara notava la novità dell’atteggiamento, e di certo la scultura di Canova è anche un mirabile esempio di sapienza compositiva, con i corpi che s’incrociano su due morbide diagonali che donano equilibrio al tutto e s’intersecano in uno dei punti più ammirati della scultura, ovvero il braccio di Amore che copre il seno di Psiche. E ancora, impossibile non lodare le braccia della giovane, sollevate a formare un cerchio che incornicia il volto di Amore, o il cerchio che a sua volta Amore crea cingendo il corpo dell’amata, e che va a intrecciarsi con quello creato dalle braccia di lei: una complessità tale da offrire molteplici punti di vista all’osservatore, e che consentono a Canova di oltrepassare, come ebbe a scrivere un insigne storico dell’arte come Giuliano Briganti, “quella fissità iconica”, “quella rigidità statuaria chiusa nelle due visioni, frontale e di profilo” e “quell’assoluto tipologico cui tendeva Thorvaldsen”. Basti solo pensare che, al fine di individuare il vaso di Psiche e le frecce di Amore, è necessario girare attorno alla statua e vederla da dietro: altrimenti è impossibile scorgere i due elementi.

I cerchi disegnati dalle braccia di Amore e Psiche
I cerchi disegnati dalle braccia di Amore e Psiche. Credit


Dettaglio dei volti
Dettaglio dei volti. Foto di Joseph Kranak - Credit

Uno scultore allievo di Canova, Antonio D’Este, nelle sue Memorie così ricordava il gruppo: “Amore poi la punta del piede destro sull’orlo estremo appoggiando, e reggendosi sul sinistro ginocchio che riposa verso l’estremità del sasso, cinge con i suoi amplessi la tenera amica, e col braccio sinistro ne preme il non ancor maturo petto, diviso in guisa che con quello posa in passando sull’inferior parte della sinistra mammella di lei, e ne raccoglie, e ne sostiene leggermente con la mano la destra. In simile atto china egli alquanto la fronte, e con un mezzo sorriso dell’inferior labbro, che sporge parte in fuori, sembra vicino a deporre un bacio sull’amato sembiante, mentre egli colla destra mano sostiene il capo di Psiche, da cui sparsi ed erranti gli scomposti crini discendono”. Tuttavia, Antonio D’Este non poteva far a meno di notare che “l’autore rese questo gruppo onesto” (laddove per “onesto” dobbiamo intendere “casto”), “perché l’abbracciamento di Amore colla sua amata donzella è sì innocente e casto, che non lascia formare pensiero men che onesto”. In realtà s’è visto come già Cicognara ritenesse non così “innocente” il modo in cui Canova raffigurò i due personaggi, e si è visto anche come alcuni spunti gli fossero giunti da antiche scene d’erotismo. Proprio su questa sensualità che traspare dall’opera (così come da altre realizzazioni canoviane) s’è voluta soffermare la critica più recente. L’abbraccio tra Amore e Psiche sottende un erotismo sì raffinato e accennato, che comunica più un’idea di tenero sentimento che di desiderio impulsivo, e che viene mitigato anche dai tratti adolescenziali dei due protagonisti, ma rimanda comunque a una dimensione sensuale attraverso cui, con eleganza, s’esprime tutto l’amore tra il dio e la sua amata. È quella “sensualità affinata e senza foga” di cui parlava Mario Praz in un suo saggio e che rappresenta uno dei tratti caratteristici della scultura di Canova: un erotismo che, pur se controllato, differenzia lo scultore veneto da tanti suoi colleghi (come Bertel Thorvaldsen) che cercavano di reprimere totalmente ogni moto sensuale.

Innumerevole lo stuolo di ammiratori che la scultura ebbe fin dal momento in cui fu terminata. Uno dei tanti, il principe Nikolaj Jusupov, fu catturato dall’opera al punto da ordinarne a Canova una replica: è quella che oggi si può osservare all’Ermitage di San Pietroburgo. Ma tanti furono gli artisti, i letterati e i poeti che tesserono le lodi di Amore e Psiche giacenti, o composero liriche che alla scultura s’ispiravano, o che intendevano celebrarla. Valga su tutti quello che è forse l’esempio più appassionato di ammirazione per l’opera di Canova, ovvero quello di Gustave Flaubert. Il celebre scrittore si trovava a Villa Carlotta a Tremezzo: il proprietario, il nobile e collezionista d’arte Giovanni Battista Sommariva, aveva chiesto a uno dei migliori seguaci di Canova, Adamo Tadolini, una copia del gruppo canoviano, e una volta ricevuta la sistemò nella propria dimora. Flaubert la vide, e descrisse l’incontro con l’opera nel suo Voyage en Italie et Suisse: Qu’on me la perdonne, ç’a été depuis longtemps mon seul baiser sensuel; il était quelque chose plus encore, j’embrassais la beauté elle-même (“Mi si perdoni: da molto tempo questo è stato il mio solo bacio sensuale; anzi, è stato qualcosa di più: ho abbracciato la bellezza in persona”).

Bibliografia di riferimento

  • Sergej Androsov, Fernando Mazzocca, Antonio Paolucci (a cura di), Canova. L’ideale classico tra scultura e pittura, catalogo della mostra (Forlì, Musei San Domenico, 25 gennaio - 21 giugno 2009), Silvana Editoriale, 2009
  • Hugh Honour, Antonio Canova. Scritti, Salerno Editrice, 2007
  • Lionello Sozzi, Amore e psiche. Un mito dall’allegoria alla parodia, Il Mulino, 2007
  • Massimiliano Pavan (a cura di), Scritti su Canova e il neoclassicismo, Edizioni Canova, 2004
  • Gian Lorenzo Mellini, Canova. Saggi di filologia e di ermeneutica, Skira, 2002
  • AA.VV., Canova all’Ermitage: le sculture del museo di San Pietroburgo, catalogo della mostra (Roma, Palazzo Ruspoli, 12 dicembre 1991 - 29 febbraio 1992), Marsilio, 1991
  • Ottorino Stefani, La poetica e l’arte del Canova: tra arcadia, neoclassicismo e romanticismo, Edizioni d’Arte, 1984
  • Giuseppe Pavanello, L’opera completa del Canova, Rizzoli, 1976


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo





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