Tra tutte le mostre che si sono viste alle Scuderie del Quirinale, forse Il Museo Universale. Dal sogno di Napoleone a Canova è la più ambiziosa, e sicuramente una delle più allettanti per un pubblico desideroso di uscire dalla logica della mostra blockbuster, alla quale talvolta neanche la sede espositiva romana ha rinunciato, alternando esposizioni sofisticate (ma non per questo inaccessibili) ad altre innegabilmente più grossolane. Ma, ovviamente, non è solo nella qualità della proposta che risiede l’interesse di una mostra che intende partire da un tema, quello del recupero delle opere italiane finite in Francia a seguito delle requisizioni napoleoniche, che è molto più complesso di quanto si possa immaginare. Anche perché i curatori hanno ben pensato di andare a toccare diversi argomenti (il recupero tout court non è che uno degli “ingredienti” che concorrono a formare l’impianto della mostra), dall’istituzione delle prime pinacoteche pubbliche alla nascita del concetto di opera d’arte come bene dotato non più solo di valore materiale ma anche di un elevato valore simbolico. Un valore, è bene sottolinearlo per una più corretta inquadratura storica degli eventi che interessarono l’Italia in quegli anni, riconosciuto tanto dagli occupanti francesi (per i quali le opere, come si vedrà in mostra, non erano solo mero bottino di guerra, bensì soprattutto strumento utile per l’educazione dei cittadini) quanto dagli abitanti dei territori italiani occupati, che iniziavano a manifestare diffusamente i segni di un’identità culturale capace di accomunare tutta la futura Italia (benché tali manifestazioni provenissero per lo più dalle élite colte) e a comprendere che l’arte avesse un valore pubblico di straordinaria importanza.
C’è una sala in particolare (l’ottava delle dieci che compongono il percorso della mostra), che offre tangibile dimostrazione di autentiche ribellioni di intere comunità occorse laddove qualcuno s’era azzardato a palesare l’intenzione di cedere un’opera d’arte fuori dall’ambito in cui era stata prodotta, privandone in tal modo i cittadini. L’orgoglio di questi ultimi, il fatto che le comunità cominciassero a identificarsi anche nella loro eredità artistica, e la coscienza che iniziava a spingere gli abitanti di un villaggio o di una città a riconoscere le opere come tasselli di una “patrimonialità culturale sentita come bene comune e risorsa per la collettività” (così nel catalogo Valter Curzi, curatore dell’esposizione assieme a Carolina Brook e a Claudio Parisi Presicce) impedì in maniera decisiva l’alienazione di beni che, grazie a tale sentire comune, sono oggi ancora conservati nei luoghi che li videro nascere. È il caso, per esempio, di una Madonna con Bambino e santi, opera di Giovanni Santi il cui tentativo di cessione fu ostacolato da un nobile marchigiano, il conte Pompeo Benedetti di Montevecchio, e fu definitivamente bloccato da parte delle autorità pontificie (ragion per cui il dipinto poté restare nelle Marche), o di una Madonna col Bambino e i santi Francesco e Bernardino da Siena, tavola del 1458 del pittore umbro Niccolò di Liberatore (noto anche come Niccolò l’Alunno): era lo scomparto centrale di un polittico realizzato come ex voto dopo una pestilenza e successivamente smembrato, ed essendo l’unica parte rimasta a seguito dello smembramento, la comunità di Deruta, borgo in cui l’opera si trovava, si oppose fermamente alle vendita tentata dal convento francescano che la custodiva e si spese per far sì che il dipinto fosse dapprima restaurato dal Comune e quindi collocato nella locale chiesa di San Francesco (oggi si trova sempre a Deruta, ma nella Pinacoteca Comunale). Testimonianze storiche di un attaccamento collettivo all’arte al cui sorgere si stava assistendo.
Giovanni Santi, Madonna con Bambino e santi Elena, Zaccaria, Sebastiano e Rocco (1484-1489 circa; tempera su tavola, 221 x 186 cm; Fano, Pinacoteca del Palazzo Malatestiano) |
Niccolò di Liberatore detto l’Alunno, Madonna col Bambino e i santi Francesco e Bernardino da Siena (1458; tempera su tavola, 234 x 144 cm; Deruta, Pinacoteca Comunale) |
Il carnet dell’esposizione si fa, insomma, particolarmente fitto, e la mostra corre il rischio di generare un po’ di confusione nel visitatore, anche perché bisogna considerare che il titolo è leggermente fuorviante. Quest’ultimo, infatti, compie indubbiamente un’approssimazione per difetto: il “museo universale” non è materia centrale ed esclusiva della rassegna. A tale riduzione, tuttavia, rimedia sommessamente l’espressione “da Napoleone a Canova” scelta per il sottotitolo: benché ci troviamo di fronte a quella che appare come un’abitudine ormai consolidata (siamo letteralmente sopraffatti dalle mostre “da questo a quell’altro”), non si può negare che il “da... a”, in questo caso, risponda bene alla necessità di circoscrivere il raggio d’azione della mostra fissando due poli che si fanno carico di sorreggerne l’impalcatura. Napoleone: le spoliazioni, l’idea di formare a Parigi un “museo universale” naturale prodotto dell’età dei lumi, che potesse radunare tutto il meglio della produzione artistica europea, l’equazione secondo la quale “cultura” equivale a “libertà” (il concetto può sembrare paradossale se inquadrato nel contesto di un’occupazione militare, ma per i francesi dell’epoca aveva un senso di cui diremo meglio tra poco). Canova: il recupero delle opere e la restituzione ai loro antichi proprietari quando possibile (con il conseguente venir meno di quelle aspirazioni all’universalità che avevano mosso l’azione dei commissari francesi), l’idea di un’Italia “una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor” (lo scultore veneto, avendo promosso la realizzazione di una serie di busti di grandi artisti italiani da collocare nel Pantheon, dei quali abbiamo alcuni esempi nell’ultima sala, si può ritenere un sostenitore di fatto dell’assunto manzoniano), il valore identitario delle opere d’arte, accolte da tripudio quando rientravano. Nel mezzo: la nascita delle pinacoteche, l’arte per risvegliare le coscienze, i classici del passato come esempio per le generazioni del presente (per gli artisti, ma anche per chiunque altro).
Il racconto, tuttavia, parte da Canova e si chiude con Canova. L’artista fu uno dei commissari inviati in Francia al fine di recuperare le opere sottratte dai francesi durante la loro occupazione: nella fattispecie, fu il commissario designato dallo Stato Pontificio, sotto il papato di Pio VII. Giova sottolineare che il recupero era affare tutt’altro che facile. Non solo perché le espropriazioni avevano raggiunto proporzioni notevoli e sussistevano, pertanto, oggettive difficoltà nelle operazioni di censimento, di individuazione e di recupero. Ma anche perché l’Europa (siamo nel 1815) veniva da un decennio abbondante di guerre, gli equilibri erano stati sconvolti e la diplomazia internazionale si muoveva su terreni particolarmente delicati (tanto che per agevolare l’opera di Canova intervenne anche il re Giorgio IV d’Inghilterra, che per rinsaldare i rapporti diplomatici col papato aveva offerto un importante contributo economico destinato al recupero delle opere che avevano preso la strada della Francia). Ci vollero due anni per veder la maggior parte delle opere tornare al proprio posto. Non tutte fecero ritorno a casa, e in tal senso fu determinante l’abilità diplomatica dei commissari. La prima sala de Il Museo Universale omaggia dunque l’asse Canova-Giorgio IV con i ritratti dei due personaggi ed espone alcune delle opere che si poté far rientrare: tra queste, il celeberrimo gruppo del Laocoonte (in mostra un calco in gesso), che peraltro affrontò un viaggio piuttosto sofferto dacché subì, causa condizioni climatiche avverse, una rottura sul Moncenisio, e la Strage degli innocenti di Guido Reni, che rappresenta uno dei prestiti più importanti (se non il prestito più importante in termini assoluti) di tutta la mostra.
La Strage degli Innocenti di Guido Reni e il calco del Laocoonte |
Guido Reni, Strage degli Innocenti (1611; olio su tela, 268 x 170 cm; Bologna, Pinacoteca Nazionale) |
Calco del Laocoonte (XIX secolo?; gesso, 205 x 158 x 105 cm; Roma, Città del Vaticano, Musei Vaticani) |
Le sale successive del primo piano delle Scuderie del Quirinale indagano sui perché delle spoliazioni e sui motivi che portarono i commissari francesi a scegliere alcuni artisti piuttosto che altri (la direttrice visiva è connotata da un rilassante azzurrino che accompagna il visitatore lungo le prime cinque sale del percorso). I francesi giustificavano i saccheggi ai quali sottoponevano le terre conquistate sia, ovviamente, sulla base di presupposti giuridici, dato che le requisizioni delle opere d’arte rientravano nelle condizioni dei trattati che gli occupanti concordavano con gli occupati (benché si registrarono diversi casi di opere asportate in maniera illegittima), sia su basi “pratiche” (gli occupanti ritenevano che i loro restauratori fossero i più abili e titolati per riparare le opere bisognose di cure), sia su basi culturali: s’è detto, infatti, che si cominciava a pensare che cultura e libertà fossero due concetti sovrapponibili. A chiarire la posizione della Francia aveva pensato già nel 1794 il generale Jacques-Luc Barbier che, dopo aver razziato dipinti nelle Fiandre occupate dall’esercito rivoluzionario, aveva affermato che i capolavori “troppo a lungo erano stati insudiciati dalla vista della servitù” e che “è in seno ai popoli liberi che deve restare la traccia degli uomini celebri”. E dal momento che la “patria delle arti e del genio, della libertà e della santa eguaglianza” era individuata nella repubblica francese, la naturale conseguenza di tali asserzioni era che la Francia, in quanto patria della libertà (e di conseguenza di tutti gli uomini liberi) poteva ritenersi depositaria di tutta l’arte prodotta dagli uomini liberi. Questa, in breve, la base ideologica che servì per giustificare le spoliazioni.
Una base senza la quale non avrebbe potuto veder luce il progetto di quel museo universale che dà il titolo alla mostra e che doveva aver sede a Parigi, capitale della “patria della libertà”, “Atene moderna” e città destinata a detenere il primato della cultura, a scapito di una Roma che, in quanto sede papale, secondo l’ideologia rivoluzionaria non poteva avere i requisiti minimi necessari per essere considerata patria delle arti. Il “museo universale” doveva riunire tutta la più significativa produzione dei grandi artisti del passato, in modo che non soltanto cultori e intellettuali potessero aver accesso all’arte, ma che le opere dei geni della storia dell’arte potessero essere messe al servizio di tutti i cittadini. Se tuttavia i mezzi furono alquanto discutibili, è necessario riconoscere che, come sottolinea il succitato Curzi nel suo saggio, “nell’idea della democratizzazione della cultura, l’esperienza napoleonica segnò un passaggio di fondamentale importanza e l’eredità più preziosa rimase proprio nella concezione e nell’organizzazione culturale del museo e del suo ruolo sociale”. Certo: non mancarono voci contrarie, la più famosa delle quali è senza dubbio quella di Quatremère de Quincy, che nei suoi scritti (in particolare nelle Lettres à Miranda) si scagliò con toni infuocati contro le ruberie messe in atto dai suoi connazionali. “C’est une folie”, scriveva Quatremère de Quincy, “de s’imaginer qu’on puisse jamais produire, par des échantillons, réunis dans un magasin, de toutes les écoles de peinture, le même effet que produisent ces écoles dans leur pays” (“È una follia immaginare che si possano produrre, attraverso esempi di tutte le scuole di pittura riuniti in un magazzino, gli stessi effetti che quelle scuole producono nei loro paesi”). Peccato solo che la mostra non dia conto delle voci contrarie, e che per ovviare a questa lacuna occorra leggersi il rapido saggio in catalogo di Sergio Guarino a cui è affidato, tra gli altri, il compito di dar conto dell’opposizione che l’ideologia rivoluzionaria e napoleonica incontrò in Francia.
Quali furono, comunque, gli artisti selezionati per l’invio oltralpe? La risposta a questa domanda spetta a pressoché tutte le sale del primo piano. I commissari francesi inviati nelle terre occupate rastrellarono principalmente opere d’arte classica (in mostra abbiamo diverse copie, come quella del Laocoonte di cui si parlava sopra o quella della Venere Capitolina, ma anche un originale come il cosiddetto Giove di Otricoli del I secolo avanti Cristo, che arriva dai Musei Vaticani) e opere di artisti che, dal Rinascimento alla modernità, reinterpretarono il gusto classico secondo la loro rinnovata sensibilità. Non potevano certo mancare Raffaello, considerato “le premier peintre du monde” (in mostra abbiamo il celeberrimo Ritratto di papa Leone X), e neppure i classicisti bolognesi: i francesi accordarono loro una speciale predilezione, e il corpus di opere emiliane presente alle Scuderie del Quirinale è senz’ombra di dubbio il più consistente. A Parigi furono dunque inviate casse contenti opere di Correggio, di Guido Reni, dei Carracci, del Domenichino, di Francesco Albani, del Guercino: in mostra ci sono esempi di altissima qualità per ognuno di questi artisti. Particolarmente paradigmatico è, per esempio, un Compianto di Annibale Carracci molto apprezzato da Bellori, che viene individuato dai curatori come una delle fonti storiche scelte come “guida” per orientarsi tra le opere da spedire in Francia. Allo stesso modo, la splendida Fortuna di Guido Reni: questa figura così leggera ed eterea era vista come una sorta di trasposizione moderna delle Veneri antiche. Se i bolognesi erano ammirati per la loro pittura cristallina, la finezza del loro disegno, la capacità di sublimare la natura in forme ideali, i veneti erano invece apprezzati per l’originale e straordinario uso del colore: dipinti di Tiziano (l’Assunta della Cattedrale di Verona), del Veronese e del Tintoretto riempiono le pareti della quinta e ultima sala del primo piano.
Obiettivo dei francesi era, come spiega la curatrice Carolina Brook nel suo saggio in catalogo, quello di “stabilire con il passato una sorta di continuità estetica”: per conseguirlo, le opere confiscate al clero e agli aristocratici banditi dalla repubblica non erano sufficienti. Era dunque necessario ricorrere alle opere delle terre di conquista, la maggior parte delle quali avrebbe dovuto rimpinguare la collezione del Muséum National (il Louvre), che doveva diventare, citando ancora Carolina Brook, “il luogo privilegiato della cultura rivoluzionaria, in grado di coagulare al suo interno diverse funzioni sociali, dalla formazione per gli artisti, al diletto per gli intenditori, fino all’educazione civica per i cittadini, stimolati attraverso l’osservazione delle belle arti a un nuovo sentimento di appartenenza”.
Testa di Giove detta Giove di Otricoli (I sec. a.C.; marmo greco con integrazioni tardosettecentesche in marmo lunense; Roma, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Pio Clementino) |
Raffaello, Ritratto di Leone X (1518; olio su tela, 155,2 x 118,9 cm; Firenze, Uffizi) |
Le sale con le opere dei pittori emiliani |
Guido Reni, La Fortuna con una corona (1637 circa; olio su tela, 163 x 132 cm; Roma, Accademia Nazionale di San Luca) |
Annibale Carracci, Compianto sul Cristo morto con i santi Francesco, Chiara, Giovanni evangelista, Maria Maddalena e angeli (1585; olio su tela, 373,8 x 239,7 cm; Parma, Galleria Nazionale) |
La sala con le opere dei pittori veneti |
Tiziano, Assunzione della Vergine (1530-1532; olio su tela, 394 x 222 cm; Verona, Cattedrale di Santa Maria Assunta) |
Interessante ribadire come questo sentimento di appartenenza si fosse però sviluppato anche tra gli occupati. Tolta la sesta sala, avulsa dal percorso del secondo piano (il tema è la rivalutazione dei primitivi, ovvero dei pittori “prima di Perugino” che erano stati inizialmente scartati dagli addetti al rastrellamento delle opere: sullo stesso argomento è incentrato un saggio a catalogo di Ilaria Miarelli Mariani), il resto dell’esposizione è dedicato, appunto, a quanto succedeva in terra italiana a seguito dei furti. Il cambio tematico è sottolineato anche dal diverso colore degli allestimenti: un rosso amaranto, probabilmente scelto per evidenziare il fervore col quale ci si dedicò, dal 1815, al recupero delle opere. Le pinacoteche pubbliche (come quella di Bologna, quella di Brera, o le Gallerie dell’Accademia di Venezia), già sorte in epoca napoleonica per accogliere dipinti e sculture provenienti dagli edifici delle congregazioni religiose soppresse e allestite anch’esse sul modello del “Museo universale”, erano state ideate con l’obiettivo di radunare il meglio delle produzioni artistiche locali, e dopo il 1815 si trovarono a dover ospitare opere che tornavano dalla Francia. Chiude la rassegna (e qui gli organizzatori si sono giocati la carta dell’allestimento di forte impatto scenografico) il gesso della Venere italica di Canova attorniato (fa un po’ voyeur) da una selezione dei busti degli artisti illustri realizzati per il Pantheon, dietro impulso dello stesso Canova. La Venere italica, che doveva nascere come copia della Venere de’ Medici requisita, era in realtà un’invenzione iconografica di Canova, che la pensò come simbolo della nazione stessa e del suo genio artistico. Stavano nascendo i presupposti per il Risorgimento: quest’ultima allusione è demandata alla Meditazione di Francesco Hayez (intesa come “Meditazione sulla storia d’Italia”), posta in diretto dialogo con la Venere italica.
Le sale del secondo piano |
Ultima sala con Venere Italica e busti degli artisti illustri |
Antonio Canova, Venere Italica (1809-1811; gesso, 72 x 52 x 55 cm; Possagno, Gipsoteca Canoviana) |
Francesco Hayez, Meditazione (1851; olio su tela, 92,3 x 71,5 cm; Verona, Galleria d’Arte Moderna Achille Forti) |
Si esce a rimirare il panorama su Roma dall’alto del Quirinale con l’impressione di aver assistito a un’esposizione che si dipana tra alti e bassi (uno degli alti, giova evidenziarlo, sono i pannelli che recano le date e il percorso di tutti rientri), divisa nettamente in due sezioni, una (la prima) di più agevole leggibilità, l’altra un po’ più caotica e leggermente disorientante (dato che le sale dedicate alla nascita delle pinacoteche si confondono con quelle dedicate all’arte come identità culturale in un susseguirsi non proprio lineare): nonostante ciò non si può negare che Il Museo Universale. Da Napoleone a Canova sia una mostra di qualità, ed è lodevole l’intento di allestire una rassegna su un frammento della nostra storia tanto noto quanto in realtà poco approfondito, perché da sempre coperto dalle nubi della retorica nazionalista: la lettura offerta dall’esposizione è senza dubbio quanto di più imparziale si potesse pretendere e ci induce a riflettere non tanto sull’avidità con la quale i francesi predarono il territorio italiano, quanto semmai sul fatto che (paradossalmente) fu nel contesto delle spoliazioni napoleoniche che si sviluppò l’idea moderna di museo. L’idea dei rivoluzionari era certo particolarmente utopistica ma servì da base per future riflessioni sulla fruibilità dell’arte: sono assunti che dalla mostra emergono in modo chiaro. Il catalogo è un utile strumento di approfondimento: dei saggi più interessanti s’è già detto, quindi ci limiteremo ad affermare che non ci sono ostacoli per considerare il catalogo come un contributo fondamentale offerto agli studi su questo breve ma convulso periodo della storia dell’arte.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).