di
Federico Giannini
(Instagram: @federicogiannini1), scritto il 07/10/2016
Categorie: Opere e artisti / Argomenti: Genova - Barocco - Valerio Castello - Arte antica
Tra il 1655 e il 1659 Valerio Castello realizzò un sontuoso ciclo di affreschi a Genova, in Palazzo Balbi-Senarega, per la famiglia Balbi.
Il molto credito che Valerio per tante sue degne opere s’era acquistato, mosse il signor Francesco Maria Balbi a dargli cura di dipingere a fresco la galleria del suntuoso suo palazzo situato nell’ampia strada, che da questa chiarissima Famiglia prende il nome. L’egregio artefice espresse, sì nella volta che nelle pareti, alcune Deità, con finte statue, gruppi di putti, ed altre pittoresche fantasie, che incontrarono l’universal gradimento, e quello principalmente del prefato Cavaliere, che gliene diè larga ricompensa. Così Raffaele Soprani descrive in poche battute, nelle sue Vite degli artisti genovesi, la genesi, la realizzazione e il successo di uno dei massimi capolavori di Valerio Castello (Genova, 1624 - 1659) e del Seicento genovese tutto: il ciclo di affreschi che adorna le sale di Palazzo Balbi-Senarega. L’edificio, negli anni Cinquanta del Seicento, appartiene ancora ai Balbi, una delle più potenti famiglie di Genova. Si trova nella grande strada che dalla famiglia prende il nome (e che ancor oggi si chiama via Balbi), dal momento che qui sorgono le loro residenze e che gran parte dell’aspetto attuale si deve ai lavori di sistemazione a cui i Balbi stessi avevano sottoposto la via agli inizi del Seicento. La costruzione del palazzo risaliva al 1618: era stato ideato con l’intento di ospitare gli appartamenti di Giacomo Balbi (e di sua moglie Bettina Senarega, da cui il nome con cui l’edificio è tuttora noto) e del fratello di questi, Pantaleo.
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Il doppio loggiato di Palazzo Balbi-Senarega a Genova visto dal cortile interno |
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Lo stemma dei Balbi affrescato da Valerio Castello |
Quando Palazzo Balbi-Senarega veniva costruito, Valerio Castello non era ancora nato, ed è un artista giovane quando il nuovo proprietario, Francesco Maria Balbi, lo convoca per affidargli l’incarico di decorare i saloni e i salotti del secondo piano nobile. È il 1654: Valerio ha trentun anni ma è già un pittore di successo, il massimo rappresentante del barocco a Genova. L’edificio, invece, ha subito interventi di ammodernamento e si rende necessario un apparato decorativo adeguato all’importanza del palazzo e della famiglia che qui dimora. Il programma iconografico ha un obiettivo ben preciso: celebrare la potenza dei Balbi, evocando la loro potenza, le loro qualità, le loro doti e le loro attività attraverso vari episodi della mitologia. Il programma riguarda l’intero palazzo: il visitatore, già entrando e trovando di fronte a sé le sculture del sontuoso giardino pensile, deve necessariamente comprendere con chi sta avendo a che fare. Gli affreschi commissionati a Valerio Castello si collocano pertanto entro questo programma volto a esaltare i fasti dei Balbi.
Il pittore inizia forse dall’impresa più impegnativa: affrescare la lunga galleria che sovrasta il giardino, oggi nota come Galleria del Ratto di Persefone, perché l’intera decorazione ruota tutta attorno a tale episodio. Fulcro della narrazione è la dea Demetra (Cerere per i romani), nume tutelare dei raccolti, delle messi, dell’agricoltura, della fecondità della terra: il rimando simbolico è non solo al tema della natura generatrice di prosperità, filo conduttore delle decorazioni di tutto il palazzo, ma anche alla ricchezza della famiglia Balbi. Il racconto inizia sulla lunetta della parete di ingresso con una scena che raffigura la caduta di Fetonte, il mitico figlio di Elio, dio del Sole, che ottenne dal padre la possibilità di poter guidare il carro col quale quest’ultimo portava la luce sulla terra. Tuttavia Fetonte, a causa della sua inesperienza, precipitò nel fiume Eridano (identificato come il Po). Secondo alcune versioni del mito venne fulminato da Zeus, che arrivò a tale decisione per evitare che il giovane causasse danni ulteriori alla terra con il carro del Sole. Fetonte, infatti, aveva bruciato buona parte della vegetazione della terra, inaridendola: l’episodio, apparentemente slegato dal contesto, è dunque legato alla figura di Demetra che, dopo la caduta di Fetonte, si sarebbe prodigata affinché la terra tornasse fertile. Fetonte è rappresentato come un giovane di bellissimo aspetto, mentre viene rovinosamente sbalzato fuori dal carro, che vediamo trainato da una coppia di cavalli imbizzarriti: l’eroe è scorciato prospetticamente, perché Valerio Castello ha voluto darci l’illusione di assistere alla caduta e di vedere Fetonte come se stesse piombando addosso a noi che ci troviamo sotto di lui. Ad accrescere l’illusionismo di questo affresco abbiamo il contesto entro cui sono inseriti gli episodi: un finto loggiato marmoreo dalle possenti e fantasiose architetture barocche, realizzate dal giovane Andrea Seghizzi (Bologna, 1630 - 1684), a cui furono affidate le quadrature, ovvero il complesso delle rappresentazioni in prospettiva dei finti elementi architettonici.
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Valerio Castello, Galleria del Ratto di Persefone (1655-1659; affreschi, Genova, Palazzo Balbi-Senarega) |
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La vista sul giardino dalla Galleria |
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La caduta di Fetonte |
Distogliendo lo sguardo dalla lunetta di Fetonte e volgendoci verso la Galleria, vediamo Demetra (vestita in rosso, accompagnata da alcune ancelle e riconoscibile per le spighe di grano che le adornano il capo) appellarsi direttamente al fratello Zeus, il padre degli dèi, che Valerio Castello raffigura assiso su un trono di nubi assieme a Nettuno (il dio del mare, col tridente) e a Crono (quest’ultimo riconoscibile dalla falce), accompagnato dall’aquila suo simbolo, mentre regge in mano un fascio di fulmini: la dea indica la terra ormai improduttiva, evidentemente supplicando Zeus di fare qualcosa. C’è un altro episodio che si ricollega al tema dell’aridità della terra, questa volta direttamente connesso alla dea delle messi: è il rapimento di sua figlia Persefone, condotta nell’oltretomba da Ade, dio degli Inferi, che si era invaghito di lei e aveva voluto farne sua sposa. Demetra avrebbe voluto riportare la figlia sulla terra: tuttavia Persefone, avendo mangiato alcuni semi di melograno, era costretta a rimanere negli Inferi, perché secondo la mitologia chi si cibava dei frutti dell’oltretomba non aveva più alcuna possibilità di uscita. Zeus fece da “mediatore” tra Demetra e Ade, e si arrivò a un accordo: dal momento che Persefone aveva mangiato solo sei semi, sarebbe rimasta per sei mesi l’anno negli Inferi, e per i restanti sei mesi avrebbe avuto il permesso di ricongiungersi con la madre. Il mito era stato concepito con lo scopo di spiegare l’alternarsi delle stagioni: autunno e inverno nei sei mesi che Persefone passava nell’oltretomba, primavera ed estate nel periodo in cui tornava sulla terra e quest’ultima si ricopriva di nuovo di fiori e frutti. Nell’episodio raffigurato dal pittore genovese, Ade, arrivando ammantato d’una nuvola nera, stringe forte a sé una Persefone che si dibatte disperata, al fine di condurla con sé nel proprio regno. Lo schema narrativo, le pose dei personaggi (per esempio quella di Ade, con il braccio muscoloso che cinge Persefone attorno alla vita per tenerla ferma) richiama quello di altri “ratti di Persefone” che Valerio Castello aveva già dipinto in precedenza: è il caso, per esempio, della tela conservata sempre a Genova ma a Palazzo Reale, e soprattutto del quadro di Palazzo Barberini a Roma, dove le pose dei personaggi sono pressoché identiche a quelle di Palazzo Reale. Si trattava, infatti, di un tema che l’artista aveva più volte affrontato e la cui tradizione iconografica, in ambito barocco, rimontava al celebre Ratto di Persefone di Gian Lorenzo Bernini, oggi a Roma presso la Galleria Borghese (anche in Bernini compare il motivo del braccio di Plutone che si distende per afferrare con forza la giovane).
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Altra veduta della Galleria del Ratto di Persefone. |
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Un dettaglio della volta della Galleria |
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A sinistra, Demetra (veste rossa) e Persefone che gioca con le compagne. A destra, da sinistra, Atena, Afrodite e Artemide |
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Da sinistra: Crono, Zeus, Nettuno |
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Il ratto di Persefone |
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Valerio Castello, Il ratto di Persefone (1650 circa; olio su tela, 148 x 217 cm; Genova, Palazzo Reale) |
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Valerio Castello, Il ratto di Persefone (1650 circa; olio su tela, cm 128 x 151; Roma, Palazzo Barberini, Galleria Nazionale d’Arte Antica) |
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Gian Lorenzo Bernini, Il ratto di Persefone, particolare (1621-1622; marmo, 255 cm; Roma, Galleria Borghese). Credit |
Tornando all’affresco che decora le volte della Galleria, il racconto include tutte le figure coinvolte nel mito di Persefone, assieme ad altre divinità che Valerio Castello inserisce con l’intento di aiutare l’osservatore a distinguere i protagonisti della vicenda. Il tutto si apre con la figura di Apollo, che ha in mano la sua lira e che vediamo nella prima volta, quella vicina alla parete con la Caduta di Fetonte: non lontano da lui, sul lato opposto della scena, abbiamo alcune delle Muse. Il gruppo, essendo quello a cui la mitologia demandava la protezione delle arti e della poesia, ha la funzione di “introdurre”, quasi come stesse recitando una lirica o un poema, l’intera narrazione. Sulla volta che immediatamente precede l’uscita della galleria, abbiamoDioniso che col braccio destro indica Eros, il Cupido dei romani, che sta preparando le frecce da scagliare contro il dio degli Inferi per farlo innamorare di Persefone. Ade sta arrivando circondato dalle solite nubi nere: è raffigurato di spalle, riconoscibile dalla stessa corona che indossa nella lunetta, e lo troviamo opposto alla figura di Demetra. Non distanti, tre dee, ovvero Atena, Afrodite e Artemide, stanno discutendo tra di loro: le connessioni tra queste divinità e la vicenda del rapimento trovano ragion d’essere se ipotizziamo che tra le fonti letterarie di Valerio Castello, oltre alle Metamorfosi di Ovidio, possa essere incluso anche un poemetto di Claudiano, il De raptu Proserpinae, nel quale Atena e Artemide raccolgono fiori insieme a Persefone nel momento in cui la giovane viene rapita da Ade, e Afrodite spinge Eros a far invaghire Ade. Il pittore avrebbe poi dipinto, stando all’identificazione proposta dalla storica dell’arte Ezia Gavazza, alcuni personaggi che compaiono nel racconto dopo la scomparsa di Persefone: sono le figlie di Celeo e Metanira, che Demetra aveva incontrato mentre cercava la figlia, e che l’avrebbero condotta nell’abitazione dei genitori, i quali avrebbero offerto ospitalità alla dea. Quest’ultima, per ricambiare, avrebbe offerto il dono della divinità a un altro figlio di Celeo e Metanira, Demofonte: sulla parete opposta abbiamo la raffigurazione di Demetra che allatta il piccolo. Ancora, abbiamo la figura della ninfa Aretusa, la prima a rivelare a Demetra il rapimento di Persefone: la troviamo vicina al dio Eolo. Vale la pena poi citare la figura di Hermes, il messaggero degli dèi, incaricato da Zeus di far tornare Persefone sulla terra. La giovane, oltre che sulla lunetta, è raffigurata anche nell’affresco principale: la vediamo vicina alla madre, mentre gioca spensierata con alcune compagne.
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A sinistra Eolo, a destra Ade. |
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Apollo con una musa |
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Tre muse e, a sinistra, il dio Efesto |
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A sinistra il gruppo con Atena, Afrodite e Artemide. Al centro Eros, a destra in basso Ermes. |
La figura del Tempo, simboleggiato da Crono nella volta della galleria, è la grande protagonista del grande e scenografico affresco che orna e caratterizza (al punto di dare il nome alla stanza) il soffitto della Sala del Carro del Tempo. Una raffigurazione potente, dove le architetture faticano a contenere i personaggi, perché ci sono mani e nuvole che invadono i finti cornicioni: un’anticipazione delle invenzioni che saranno definitivamente introdotte da un altro grande genio dell’affresco barocco, genovese anch’egli, Giovanni Battista Gaulli detto il Baciccio, che quindici anni dopo, nel suo Trionfo del nome di Gesù realizzato a Roma, si ricorderà probabilmente di spunti e suggestioni che aveva ricevuto nella propria città natale, che all’epoca di Valerio Castello era di fatto diventata una delle capitali della decorazione barocca.
È ancora Raffaele Soprani a fornirci indicazioni su come interpretare le figure di questa magniloquente allegoria: Espresse Valerio nella prefata sala il carro del tempo tirato dalle quattro età dell’uomo: e sopra il cornicione altre cose simboliche, corrispondenti alle età medesime. Dirimpetto alla principal porta d’entrata v’ha la Fama, e varie altre figure: v’ha la Fortuna, ed altre Deità, che danno intero compimento all’emblema. Il carro è rappresentato dinamicamente nel suo travolgente incedere che non s’arresta di fronte ad alcunché, a dare una rappresentazione visiva, particolarmente efficace, del tempo che scorre inesorabile. E se l’allegoria non fosse sufficientemente chiara, a renderla ancor più manifesta pensano i putti in alto a sinistra, che recano un cartiglio con la scritta Volat irreparabile (a volare in modo inevitabile è, ovviamente, il tempo), espressione derivata dalle Georgiche di Virgilio. Non si tratta però di un affresco dai toni negativi, come precisa la succitata Ezia Gavazza: in alto a sinistra abbiamo infatti una figura alata che indica l’allegoria dell’Eternità. Quest’ultima è all’estrema sinistra, assisa su un trono marmoreo, e dispensa alle figure che trainano il carro del tempo i simboli dell’eternità (il cerchio) e della gloria (la corona). Eternità e gloria sono dunque i fini ultimi dello scorrere del tempo, e ovviamente sono anche gli obiettivi a cui aspira la famiglia Balbi.
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Valerio Castello, Sala del Carro del Tempo (1655-1659; affreschi; Genova, Palazzo Balbi-Senarega). |
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Dettaglio della Sala del Carro del Tempo. |
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I putti col cartiglio e la figura del Tempo. |
Francesco Maria Balbi, dopo aver visto i risultati dei primi due lavori di Valerio Castello e Andrea Sighizzi, è entusiasta, e come attesta anche Soprani, decide di affidare al grande pittore e al suo collaboratore la decorazione di altre due sale, ovvero la Sala della Pace e la Sala di Leda: Terminata quell’opera non cessò già nel signor Balbi il genio d’occupare il nostro pittore. Che però gli diede la cura d’ornargli altri due salotti. Valerio effigiò nel primo le tre Grazie con varj putti, e medaglie all’intorno, e nel secondo, quattro favole di Diana, e d’altre Deità. In que’
salotti lavorò anche il Sighizzi, che vi fece gli esteriori ornamenti, e le prospettive. Nella Sala della Pace, alzando gli occhi, ci si parerà davanti il sontuoso spettacolo di un soffitto sfondato illusionisticamente: le notevoli architetture di Sighizzi si aprono, formando quasi un quadrifoglio, su un cielo terso, come se davvero non ci fosse alcunché sopra le nostre teste, ma solo la volta celeste. Nel cielo appaiono le figure di tre divinità, identificate come la Pace, l’Allegrezza e l’Abbondanza. Le figure occupano i lobi del quadrifoglio con elevatissima sapienza spaziale: il nostro occhio segue due diagonali, innescate dalla figura centrale della Pace, che regge in mano un ramoscello d’ulivo in attesa che i due putti che provengono da destra, insieme alla colomba, gliene portino un altro. La prima diagonale è proprio quella che parte da questi due putti e prosegue, nella parte opposta, con la figura dell’Allegrezza che spande fiori sugli amorini che accorrono, in basso a sinistra, verso di lei, completando la linea immaginaria che ha inizio in alto a destra. La seconda diagonale ha il suo centro nel ramo d’ulivo sorretto dalla Pace e le sue estremità nella figura dell’Abbondanza, seduta alla sinistra della Pace, che poggia la mano su una cornucopia, e nei putti che svolazzano in alto a sinistra. La decorazione, particolarmente carica, prosegue negli arconi, anch’essi aperti sull’azzurro limpido del cielo e sui quali s’affacciano putti recanti ogni sorta di dono. Le colonne, il cornicione e i pennacchi sono colmi di statue di divinità, di elementi decorativi (ghirlande, conchiglie, festoni), e i finti marmi non presentano un singolo centimetro che non sia ornato. L’immagine corona il programma iconografico presentandoci le tre qualità che avrebbero dovuto accompagnare l’operato della famiglia Balbi.
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Valerio Castello, Sala della Pace (1657-1659; affreschi; Genova, Palazzo Balbi-Senarega). |
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Dettaglio della Sala della Pace. |
Gli interventi di Valerio Castello nel Palazzo di Francesco Balbi terminano nella Sala di Leda, un salotto facente parte del nucleo più antico del Palazzo (dunque risalente al 1618-1620), bisognoso di rinnovamenti: anche qui, appariscenti architetture dorate simulano l’apertura di un oculo entro il quale l’artista genovese ha collocato la figura di Leda, eroina della mitologia greca, posseduta da Zeus che, per unirsi a lei, aveva assunto le sembianze di un cigno (dall’unione sarebbero poi nati i Dioscuri, Castore e Polluce). La candida figura di Leda, portata in volo da tre putti con la complicità del padre degli dèi che si è già trasformato in cigno, contrasta con lo sfarzo sfrenato dell’apparato decorativo, altra importante testimonianza dei particolari (per quanto aggiornati) gusti della famiglia Balbi.
La vita di Valerio Castello termina, in circostanze non ancora ben chiarite, nel 1659: l’artista ha solo trentacinque anni e i suoi lavori in Palazzo Balbi verranno portati a compimento da altri artisti, a cui verrà affidata la prosecuzione del ciclo con altre scene che decorano ulteriori sontuosi ambienti. Oggi Palazzo Balbi-Senarega è sede della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Genova, che lo ha rilevato nel 1972 dagli ultimi proprietari. La Galleria del Ratto di Persefone, per esempio, ospita una sezione della biblioteca, mentre nei salotti adiacenti si trovano sale di lettura, sale computer, uffici. La visita a questo inestimabile capolavoro del barocco italiano si cala dunque entro un contesto particolare, perché ci troviamo in un luogo attivo, e occorre tener conto che le esigenze di chi vive quotidianamente questo luogo sono di gran lunga diverse da quelle di chi vi entra per ammirare i capolavori di Valerio Castello (e non solo). Ma il bello di Genova (e dell’Italia in generale) è anche questo: vedere che capolavori che hanno segnato la nostra storia dell’arte all’interno di edifici che, magari spesso con funzioni diverse rispetto a quelle originarie, sono tuttora vissuti.
Bibliografia di riferimento
- Marzia Cataldi Gallo, Luca Leoncini, Camillo Manzitti, Daniele Sanguineti (a cura di), Valerio Castello, 1624-1659: genio moderno, catalogo della mostra (Genova, Museo di Palazzo Reale - Teatro del Falcone, 15 febbraio - 15 giugno 2008), Skira, 2008
- Camillo Manzitti, Valerio Castello, Allemandi, 2004
- Ezia Gavazza, Lo spazio dipinto: il grande affresco genovese nel ’600, SAGEP, 1989
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L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).