Mostre: quando esporre una sola opera ha senso


Per approfondire il discorso sugli one-painting show: quando esporre una sola opera ha senso. Ovvero quando ci sono solide basi scientifiche.

Mi ha fatto piacere leggere, su News-Art, l’articolo di Michele Cuppone sull’ostensione della Flagellazione del Caravaggio a Monza. Non solo perché nell’articolo viene citato il mio libro Un patrimonio da riconquistare, ma anche e soprattutto per il fatto che Michele Cuppone ha voluto saggiamente ampliare le vedute del pezzo in cui, alcuni giorni fa, avevo parlato del fenomeno degli one-painting show.

È vero: il mio articolo era di sicuro troppo limitante, in quanto avevo evitato di parlare di quelle mostre di una sola opera che si rendono spesso necessarie e che sono ovviamente utili per far progredire le conoscenze. Ha ragione Cuppone quando sostiene che una mostra dovrebbe esser legittimata quando ha valenza di scientificità. Ma, per citare sempre Tomaso Montanari, che sulla questione “mostre utili contro mostre inutili” ha scritto decine di pagine, occorre aggiungere ulteriori elementi di valutazione: è necessario cioè distinguere tra “mostre utili, belle e riuscite” e “mostre pretestuose, dannose e fallite”, con le prime che “sono quelle sorrette da un’idea, una scoperta, un’acquisizione, una visione storiografica o anche dalla ricostruzione di un nodo storico o stilistico così rilevante da giustificare lo spostamento delle opere”. È evidente che per Montanari una mostra è riuscita quando è in grado di rivolgersi sia a un pubblico di specialisti, sia a un pubblico generico, anche se nella realtà dei fatti assistiamo sempre più spesso a una sorta di contrapposizione tra mostre incapaci di parlare al grande pubblico, ed esposizioni d’intrattenimento che fanno inorridire gli esperti. Credo proprio che il problema principale nasca attorno al pubblico a cui la mostra, di fatto, si indirizza.

Questa antitesi tra “esperti” e “non esperti”, che negli ultimi anni è stata alimentata ad arte da chi ha imparato a organizzare esposizioni dal sapore spiccatamente commerciale, probabilmente è all’origine della proliferazione di tutti quei prodotti d’intrattenimento che vengono spacciati per mostre di elevato profilo culturale. Far presa su un pubblico “non esperto” (e garantirsi quindi elevati risultati in termini di pubblico e quantità), si sa, non è particolarmente difficile, tanto che si è ormai affermato un modello ben preciso, che da anni viene seguito da diverse società specializzate nella produzione di mostre del genere: si raduna un gruppo di opere di artisti noti a tutti e capaci di esercitare un indubbio fascino (Michelangelo, Caravaggio, impressionisti, Frida Kahlo... ), si promuove l’evento con un marketing forte e onnipresente, si fa leva sulle forti emozioni che la mostra sarebbe capace di suscitare, si creano eventi di contorno chiamando a raccolta personaggi di grande impatto sul pubblico (meglio se abituati a comparire in televisione), a mostra in corso si rilasciano a ogni piè sospinto comunicati stampa in cui si annunciano i vari record di visite battuti, ed ecco che qualunque armeggione dotato di agganci giusti, intraprendenza, spirito commerciale e sponsor disposti a sovvenzionare l’operazione, può improvvisarsi curatore. E spesso per riuscire nell’intento basta movimentare anche una sola opera. Anzi: il genere one-painting show sembra essere quello che ultimamente va per la maggiore, in quanto comporta meno rischi, meno spese, meno fatica, ma uguale successo (anche perché le esibizioni di una sola opera sono per la più parte a ingresso libero: così, oltre a far sì che le campagne di marketing insistano sulla gratuità dell’evento, i curatori possono anche vantare finalità che sfiorano il benefico).

Non è tuttavia degli one-painting show biecamente dozzinali che intendo parlare in questo articolo: il lettore potrà farsi un’idea più ampia (e trovare diversi esempi di inutili ostensioni) nel pezzo che avevo dedicato al tema qualche giorno fa. Volevo semplicemente dar conto, onde evitare generalizzazioni che non fanno bene alla materia, di alcune mostre da “una sola opera” condotte in modo ineccepibile e capaci, come si diceva sopra, di far progredire le conoscenze. Posto che non sono del tutto convinto che una ricorrenza sia sufficiente a giustificare un evento (e qui penso al cinquecentenario della scomparsa di Andrea Bregno, festeggiato peraltro nell’anno sbagliato, che ha visto addirittura un comitato nazionale dedicato all’artista, una mostra tutt’altro che memorabile, e un sito web a oggi non più in rete, dunque ormai del tutto inutile, comportando spese che ci avranno visto sicuramente e incredibilmente concordare con la manovra finanziaria che ha inferto tagli ai comitati celebrativi), viene spontaneo concordare con Michele Cuppone nel momento in cui scrive che un’esposizione di una sola opera può essere giustificata qualora si debbano presentare i risultati di un recente restauro, quando un’opera viene restituita alla collettività, o quando l’opera è stata oggetto di indagini che hanno portato a nuove scoperte (per esempio nell’ambito di un dibattito attributivo).

Ci sono dei chiari indizi che possono farci comprendere la bontà di un’operazione. Tanto per cominciare, le finalità della mostra, se valida, sono chiaramente esposte financo nel materiale promozionale. È stato così per un’importante esposizione che si è tenuta, lo scorso anno, al Museo Diocesano di Massa: unico protagonista era un dipinto attribuito a Domenico Fiasella, che era stato oggetto di un recente restauro. Un restauro che ha consentito di ricostruire in modo più sicuro (e più ampio) la storia dell’opera, permettendo inoltre di stabilire con maggior fermezza il nome dell’autore. Occorre sottolineare che la mostra, tuttavia, non esponeva soltanto l’opera: il visitatore era infatti accompagnato in un ricco percorso documentario che il curatore, Andrea Ginocchi, aveva allestito per fornire testimonianze storiche delle vicende conosciute dal quadro (e dai luoghi che nei secoli lo hanno ospitato).

La mostra "La Natività a lume di notte"
La mostra La Natività a lume di notte al Museo Diocesano di Massa

Ci sono tuttavia molti altri esempi virtuosi, che spesso passano inosservati perché propongono opere di artisti che non riescono a far abbastanza presa sul pubblico (magari perché molto meno noti di altri), oppure perché non supportati da adeguate campagne promozionali, ma che riescono comunque a proporsi come operazioni d’indubbia qualità. Penso, per esempio, alla rassegna Raccontami una storia (dell’arte) promossa dal Museo di Palazzo Reale a Genova: nell’ambito del programma, ogni mese, nella Galleria della Cappella, viene esposta un’opera legata alla collezione del museo, oppure solitamente non visibile, o ancora scoperta di recente. Giusto per fermarsi ai primi due mesi dell’anno, abbiamo visto a Palazzo Reale prima la Sibilla Samia del Guercino che, come spiega la pagina web della rassegna, di solito non può essere ammirata dal pubblico “in quanto collocata nella Camera da Letto del Duca di Genova attualmente chiusa al pubblico per motivi di sicurezza”, e poi il Vitellio di Filippo Parodi, un busto marmoreo recentemente riscoperto e che, a seguito di una ricerca che ha permesso di ricostruirne le vicende, è stato proprio in tale occasione esposto per la prima volta al pubblico. E ancora, si potrebbero citare (giusto andando a memoria), la mostra che nel 2014 ha visto restituire alla Galleria Palatina di Palazzo Pitti, dopo un restauro, il ritratto di Baccio Valori eseguito da Sebastiano del Piombo, o ancora la recente esposizione, a Montefalco, della Madonna della Cintola di Benozzo Gozzoli, per continuare con la mostra che ha esposto al pubblico l’inedita Arnina di Lorenzo Bartolini.

Tutte mostre accomunate da un solido impianto scientifico, dai legami (spesso molto forti) tra opere esposte e museo ospitante, dall’elevata professionalità della curatela: caratteristiche che, del resto, non dovrebbero mai mancare a un’esposizione, sia essa di una o più opere. Per quanto il mondo delle mostre d’arte antica rischi di diventare sempre più simile a un circo in cui ognuno sembra essere autorizzato a curare anche la più squallida delle operazioni, occorre dar atto che, per fortuna, possiamo ancora contare su un numero ben nutrito di esposizioni serie: basta solo saper distinguere e fare attenzione. Certo, non è facile: ma se ci troveremo di fronte a comunicati altisonanti mirati a nascondere la mancanza d’idee dell’evento, se le opere non hanno niente a che vedere col contesto in cui sono esposte, se vengono sollevati dubbi sulla scientificità dell’operazione... allora potremo dire di avere un quadro indiziario piuttosto completo.

Di one-painting show si parla anche nel libro di Federico Giannini “Un patrimonio da riconquistare” (2016, Talos Edizioni). Clicca qui per info su dove acquistarlo

Guercino - Raccontami una storia (dell'arte)
La Sibilla Samia del Guercino esposta al Palazzo Reale di Genova nell’ambito della rassegna Raccontami una storia (dell’arte)


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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