Sfogliando qualche libro di storia, o anche qualche guida turistica poco aggiornata, sarà capitato, qualche volta, di trovare Forlì, una delle città più ricche d’arte e di storia della Romagna, etichettata come “la città del Duce”. Benché si tratti, ovviamente, di una definizione riduttiva, è comunque ancora chiara al giorno d’oggi l’impronta che il regime fascista volle lasciare sulla città, che fu una sorta di “laboratorio” in cui venivano sperimentate soluzioni architettoniche e sociali volte alla costruzione della perfetta “città fascista”: del resto, Benito Mussolini nacque a una decina di chilometri dalla città, a Predappio, sulle prime propaggini dell’Appennino forlivese.
Mussolini aveva in mente un chiaro progetto di grandeur fascista per una città che, all’epoca, contava poco più di cinquantamila abitanti. Si partì dunque nel 1924 (appena un paio d’anni dopo la marcia su Roma) dalla stazione ferroviaria: il piccolo fabbricato risalente all’anno dell’Unità d’Italia, il 1861, fu sostituito da un edificio di più ampio respiro, che si ispirava alle stazioni delle grandi città, come la vecchia stazione di Milano centrale (anch’essa, peraltro, radicalmente rinnovata proprio in quegli anni). L’intento era duplice: riallacciarsi alla storia di Forlì e al contempo dichiarare la grandezza del Duce e di quella che era considerata la sua città. L’ingegner Ezio Bianchi, il progettista, realizzò così un edificio dallo stile che s’ispirava apertamente a quello degli edifici rinascimentali del centro storico, ma che guardava anche all’aspetto neoclassico del Palazzo Comunale, con le lesene a incorniciare le finestrelle nel corpo centrale del fabbricato e il leggero bugnato che rivestiva i primi due piani. Dalla stazione aveva poi inizio il lungo viale Mussolini, progettato per collegare la stazione al centro storico e destinato ad accogliere alcuni degli edifici amministrativi della città. Si trattava di un asse viario anch’esso ispirato ai modelli delle grandi città europee, che partiva dalla stazione e culminava all’incrocio con la via Emilia, con il monumento ai caduti che occupava il centro di piazzale della Vittoria e che fu realizzato nel 1931 su progetto dell’architetto Cesare Bazzani, uno dei protagonisti delle trasformazioni architettoniche della Forlì fascista.
La stazione di Forlì. Foto nel pubblico dominio |
Viale Mussolini (poi viale XXVIII ottobre, dal 1945 viale della Libertà) nel 1935. |
Proprio a Cesare Bazzani fu affidato il compito di realizzare due degli edifici che ancora oggi contraddistinguono il profilo della vasta piazza Saffi: il Palazzo delle Poste e il Palazzo degli Uffici Statali. Tra gli obiettivi del regime fascista, uno dei principali era quello di migliorare la fruizione dei servizi pubblici, e la costruzione di nuovi edifici che potessero meglio accogliere i cittadini era non soltanto funzionale al raggiungimento di tale obiettivo, ma serviva anche allo scopo di dare agli italiani un’immagine forte, moderna e grandiosa del regime. Non dimentichiamo poi che la velocità dell’informazione e delle comunicazioni era vitale per un regime che aveva nella propaganda una delle sue armi fondamentali: anche per questo il primo edificio a venire costruito in piazza Saffi fu il Palazzo delle Poste. Siamo alla fine del 1930 e per la sua costruzione il regime non si fece scrupoli di abbattere edifici settecenteschi che occupavano il lato della piazza su cui doveva sorgere l’edificio, che avrebbe dovuto sostituire il vecchio ufficio postale sito dietro l’abbazia di San Mercuriale, uno dei più antichi edifici di Forlì, che troviamo sul lato contiguo di piazza Saffi. I lavori terminarono in poco più di un anno, e il nuovo Palazzo delle Poste fu solennemente inaugurato con una veloce ma affollatissima cerimonia, il 30 ottobre del 1932, alla presenza del Duce. Il risultato finale fu un mastodontico palazzo nello stile neorinascimentale tipico di molti edifici fascisti: l’idea di base era quella di ricollegarsi all’architettura tradizionale rivisitandola in chiave moderna e secondo le esigenze del regime. Ovvero, facendo sfoggio di un’aulica e retorica grandezza che richiamasse alla mente i fasti dell’Impero romano: e sappiamo benissimo che i paragoni tra Italia fascista e Impero romano fossero uno dei cardini della propaganda mussoliniana. Un mensile dell’epoca, Il Rubicone, presentava la costruzione, in un tripudio dell’enfatico eloquio tipico del fascismo, come un palazzo che “troneggia lucido e terso nel severo consesso degli altri edifici”, in un articolo pubblicato sul sito del progetto Atrium, volto a conservare la memoria delle architetture dei regimi totalitari del XX secolo.
Forlì, piazza Saffi vista dal lato meridionale. Sulla sinistra il Palazzo Comunale e, dietro, il Palazzo degli Uffici Statali. Al centro il Palazzo delle Poste. Sulla destra, l’abbazia di San Mercuriale. |
Il Palazzo delle Poste di Forlì |
Il Palazzo delle Poste si presenta dunque con un solido impianto rettangolare, con i vari livelli dell’edificio separati da altissimi cornicioni in travertino, materiale che crea un netto contrasto con il laterizio utilizzato per il resto della facciata. Il piano terra è caratterizzato da un ampio portico con arconi a tutto sesto che imitano la monumentalità dell’architettura romana. Gli oculi, con cornici anch’esse in travertino, che occupano i pennacchi degli arconi, corrispondono alle lesene del piano superiore che incorniciano abbacinanti nicchioni bianchi al cui interno troviamo un’accozzaglia di elementi sovrapposti: una finestra timpanata a sua volta sormontata da un’ulteriore finestra ad arco chiusa da una balaustrina. Questo maldestro tentativo d’imitazione della grandezza dell’architettura romana e rinascimentale terminava con due torrette sugli angoli, con un rivestimento in bugnato a diamante sugli angoli del portico e con un apparato decorativo, in buona parte smantellato dopo la caduta del regime, che proponeva i tipici motivi iconografici della propaganda fascista: fasci littori, aquile, leoni, motivi tratti dalla mitologia classica.
A fianco del Palazzo delle Poste, Cesare Bazzani realizzò, come anticipato, il Palazzo degli Uffici Statali, anch’esso costruito a caro prezzo, in quanto richiese la demolizione di palazzi antichi che occupavano il terreno su cui avrebbe dovuto sorgere: come all’epoca della progettazione del Palazzo delle Poste ci fu chi si oppose alle distruzioni indiscriminate, ma alla fine il progetto fu approvato e le distruzioni ebbero luogo. L’edificio fu realizzato tra il 1935 e il 1936 ed era destinato, come si intende dalla denominazione, ad accogliere gli uffici dell’amministrazione statale, in particolare quelli dei ministeri delle Finanze, dei Lavori Pubblici e dell’Agricoltura. Bazzani, questa volta, si mantenne su linee più sobrie e cercò di rifarsi allo stile razionalista che si era ormai affermato nell’Europa degli anni Trenta pur senza abbandonare i richiami alla classicità cari al fascismo. Sopra a un ampio portico in travertino, con arconi ancora più pesanti e possenti di quelli del Palazzo delle Poste, si eleva quindi una spoglia costruzione in cemento e laterizio, che occupa due strade formando una L: all’incrocio, l’architetto inserì un corpo sporgente, più elevato rispetto al resto dell’edificio, e con grandi paraste rivestite di laterizio a suddividere gli elementi in verticale. Risulta difficile parlare, in architettura, di uno "stile fascista", proprio perché il monumentalismo classicista e il razionalismo andavano spesso a sommarsi e a fondersi assieme o, come nel caso del Palazzo delle Poste e del Palazzo degli Uffici Statali, a convivere a pochi metri di distanza.
Il Palazzo degli Uffici Statali |
Il lato di piazza Saffi coi palazzi Pantoli, Rolli e Landini, demoliti per lasciare il posto al Palazzo delle Poste. Foto da una cartolina di fine Ottocento (con la vecchia denominazione “piazza Vittorio Emanuele”), pubblicata sul sito www.brunoraineri.it. |
Palazzo Baratti, demolito per permettere la costruzione del Palazzo degli Uffici Postali. Sulla destra si nota il Palazzo delle Poste: la foto risale dunque a un periodo compreso tra il 1932 e il 1935. Immagine pubblicata sul sito www.funzioniobiettivo.it |
Silvio Corbari e Iris Versari |
Passeggiando per le strade di Forlì è facile imbattersi in simboli del Ventennio o in costruzioni forse meno imponenti di quelle di piazza Saffi, ma egualmente appariscenti. Una delle più scenografiche è la ex Casa del Mutilato, anch’essa opera di Cesare Bazzani, realizzata tra il 1930 e il 1932. Impossibile non notarla: la facciata, che ricorda quella di un tempio classico con le sue lesene in travertino che sorreggono un grosso timpano (da notare che l’edificio si trova in una stradina di pochi metri di larghezza), è ornata con un magniloquente apparato decorativo che oggi ci può apparire eccessivamente carico e inutilmente retorico, ma che all’epoca era stato ideato con l’obiettivo di esaltare i reduci delle guerre. La porta d’ingresso, fiancheggiata da due imponenti fasci littori, è sovrastata da un bassorilievo con un gladio sormontato da un elmo e avvolto da motivi vegetali, mentre sul timpano appaiono due figure di guerrieri nudi che brandiscono lunghe lance. Anche la porta, in bronzo, presenta riquadri con simboli militari. Oggi, l’edificio ospita al suo interno il Museo Dante Foschi, che conserva cimeli di guerra.
La facciata della ex Casa del Mutilato |
Queste non sono che alcune delle testimonianze della Forlì fascista, benché molti dei simboli che la ornavano siano stati distrutti, come avvenuto per il Palazzo delle Poste, a seguito della caduta del regime. Ultimamente, sono nati progetti di valorizzazione di questo patrimonio storico e architettonico che caratterizza la città: lungi dal voler far diventare la città meta di un atroce turismo di nostalgici, si tratta di testimonianze di una delle pagine più brutte della nostra storia, che come tali vanno preservate. La storia deve, appunto, servire da guida per il futuro. Per questo motivo quello che un tempo era noto come viale Mussolini e poi come viale XXVIII Ottobre (il giorno della marcia su Roma), nel 1945 è stato ribattezzato viale della Libertà, in omaggio al valore che, più di ogni altro, fu negato dal fascismo.
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo