Cesare Corte, pittore condannato dall'Inquisizione nella Genova d'inizio Seicento


Ripercorriamo, tramite uno studio di Laura Stagno, la vicenda di Cesare Corte, pittore condannato dall'Inquisizione nella Genova d'inizio Seicento

Ma mentre honorato, e stimato da ogn’uno godevasi Cesare una vita tranquilla; ecco uno strano, et improviso accidente, che qual turbine violento lo sbalzò dal sommo delle felicità, al profondo di non più pensati infortunij, e lo soffocò in un abisso d’amarissime sciagure. Il passaggio è tratto dalle Vite de’ pittori, scultori et architetti genovesi di Raffaele Soprani (1612 - 1672) e si riferisce all’episodio che cambiò, in negativo, l’esistenza di uno dei pittori più stimati del tardo Cinquecento a Genova, Cesare Corte (1550 - dopo il 1619). Un pittore colto, elegante, eccellente conoscitore della filosofia e della letteratura, fine poeta, da tutti considerato un amabile galantuomo che si guadagnava facilmente l’animo d’ogn’uno. La sua indole raffinata, unita alla sua maestria coi pennelli, gli consentì di diventare ben presto uno dei pittori più in vista della Genova del suo tempo: lavorava senza sosta, non lo si trovava mai senza la compagnia di qualche nobil Cavaliere, otteneva le commissioni più prestigiose, tra cui quelle del principe di Massa e Carrara, il genovese Alberico I Cybo-Malaspina.

Ci fu però, a un certo punto della sua vita, un episodio che pose tragicamente fine alla sua carriera. Quale fu dunque l’impensato infortunio, che doppo molte prosperità rese infelice il Pittore? Alla vicenda di Cesare Corte ha dedicato di recente uno studio Laura Stagno, storica dell’arte dell’Università di Genova: lo studio è integralmente reperibile anche sul web e s’intitola “«Uno strano, & improviso accidente»: la vicenda del pittore eretico Cesare Corte”. L’episodio che sconvolse la vita di Cesare Corte fu pertanto, come si può intuire dal titolo del contributo di Laura Stagno, un’accusa di eresia, che gli venne mossa nel 1612. Sono i due maggiori biografi dei pittori genovesi del tempo, ovvero il già citato Soprani e Carlo Giuseppe Ratti (1737 - 1795), che ci descrivono a grandi linee come andarono le cose. O almeno, come andarono in apparenza. Si narra infatti che Cesare Corte ricevette una cassetta da un amico francese che doveva tornare in patria e che, ci fa sapere Ratti, si chiamava Orlando Enrì: questi strappò a Cesare la promessa di custodire con cura l’oggetto fino al suo ritorno. Il caso volle che l’amico non fece più ritorno della Francia, perché morì, e il pittore decise dunque di aprire la cassa: la trovò piena di libri bollati come eretici dalla Chiesa. Non sappiamo bene quali fossero questi libri, ma sappiamo che erano per la maggior parte scritti in greco: la cosa non costituì ostacolo per Cesare Corte, che conosceva bene il greco e non ebbe pertanto alcuna difficoltà a comprendere il loro contenuto. I biografi ci raccontano che l’artista li lesse avidamente, nonostante propugnassero dottrine non in linea con l’ortodossia cattolica, e che iniziò poi a scrivere concetti altrettanto empij: in particolare, ci fa sapere ancora Ratti, un commento all’Apocalisse di Giovanni del tutto contrario all’interpretazione della Chiesa.

Cesare Corte fu così denunciato all’Inquisizione. Vale la pena evidenziare come non soltanto fosse ovviamente proibito diffondere concetti ritenuti eretici, ma era vietata anche la sola detenzione di libri messi all’Indice, tanto che, come nota lo storico Mario Infelise, “dopo il 1559”, anno di pubblicazione del cosiddetto Indice paolino, il primo Indice dei libri proibiti, “la detenzione di libri divenne il più frequente elemento d’accusa nei processi per eresia”, anche se non era facile che sulla base della sola detenzione si perseguisse il colpevole: era però molto frequente che tale reato aggravasse situazioni già compromesse, quale poteva appunto essere quella di Cesare Corte. Dopo la denuncia, venne infatti incarcerato: era il 30 dicembre del 1612 e, dati i rischi che stava per correre, decise di abiurare pubblicamente, nella chiesa di San Domenico, le proprie convinzioni. Gli fu quindi comminata la pena del carcere perpetuo, con obbligo di rimanere a regime di pane e acqua ogni venerdì, di recitare le orazioni quotidianamente, e di confessarsi e comunicarsi quattro volte l’anno. Le dure condizioni a cui Cesare Corte fu sottoposto in carcere minarono il suo fisico, tanto che morì malato in prigione, probabilmente dopo il dicembre del 1619, quando gli fu concessa la possibilità (lo sappiamo dai documenti) di dipingere in carcere.

Laura Stagno si è posta una domanda: è possibile che Cesare Corte abbia maturato idee considerate eretiche in un così breve lasso di tempo? La risposta è che occorre considerare l’ambiente nel quale l’artista si formò e visse. Il padre, Valerio, era un artista originario di Venezia, e sappiamo come la Serenissima fosse, all’epoca, protagonista di feroci scontri con la Chiesa: Valerio, anch’egli colto intellettuale, avrebbe continuato a mantenere i rapporti con la città d’origine, il che ha indotto gli studiosi a pensare, dato anche il forte interesse di Valerio per un’arte tapina come l’alchimia (interesse che, stando a Raffaele Soprani, gli avrebbe fatto sperperare gran parte delle sue ricchezze), che l’artista fosse orientato verso pensieri e interessi sospetti alle autorità ecclesiastiche. Inoltre, Cesare Corte viaggiò in Francia (Laura Stagno ipotizza che proprio là conobbe l’amico che gli avrebbe consegnato i libri proibiti) e in Inghilterra, dove lavorò per la regina Elisabetta, scomunicata nel 1570 da Pio V. È quindi indubbio, secondo Laura Stagno, che Cesare Corte abbia frequentato luoghi e ambienti in cui la Riforma Protestante aveva trovato ampia diffusione: queste circostanze lo avrebbero dunque predisposto ad accogliere il pensiero eretico.

È comunque molto difficile, se non quasi impossibile, trovare tracce dell’eterodossia di Cesare Corte nelle sue opere. Sono state fatte diverse congetture al proposito, ma spesso si rivelano in forzature che possono agevolmente adattarsi sia a una visione che ritiene Cesare Corte un eretico, sia a una visione che invece lo considera un tranquillo osservante dell’ortodossia. Il dipinto che lascia intravedere maggiori possibilità di vedere in Cesare Corte un artista che si allontana dagli schemi del cattolicesimo è una Pietà conservata nell’Oratorio del Carmelo di Loano, in provincia di Savona, e che deriva da un disegno di Michelangelo oggi conservato a Boston.

Cesare Corte e Michelangelo, Pietà
A sinistra: Cesare Corte, Pietà (1610 circa; Loano, Oratorio del Monte Carmelo). A destra: Michelangelo Buonarroti, Pietà per Vittoria Colonna (1540 circa; Boston, Isabella Stewart Gardner Museum)

Il verso dantesco nella Pietà di Michelangelo
Il verso dantesco nella Pietà di Michelangelo
Michelangelo realizzò il disegno per la sua amica Vittoria Colonna (1490 - 1547), che intorno agli anni Trenta del Cinquecento conobbe un profondo rinnovamento spirituale, che sperimentò una decisa accelerazione durante gli anni della predicazione a Napoli del teologo spagnolo Juan de Valdés, un colto e raffinato teologo spagnolo vicino agli ambienti riformati, e che fu presente a Napoli tra il 1536 e il 1541. Attorno a Juan de Valdés, si radunò un nutrito gruppo di intellettuali, che manteneva contatti con Vittoria Colonna e che includeva personalità come Giulia Gonzaga, Marcantonio Flaminio, Bernardino Ochino, Pietro Carnesecchi. A seguito della scomparsa di Juan de Valdés, avvenuta nel 1541, il gruppo si spostò a Viterbo, città dove risiedeva il cardinale Reginald Pole, attorno al quale il circolo, ricostituitosi e arricchitosi di nuovi elementi (tra i quali lo stesso Michelangelo), continuò a discutere di temi legati alla riforma della fede. Il celebre gruppo, noto come Ecclesia Viterbiensis, aveva particolarmente a cuore il tema della salvezza per sola fede: in altri termini, Dio concederebbe agli uomini la salvezza non in virtù dei loro meriti ma in virtù della sincerità della loro fede in Dio, nelle parole di Cristo, e nel sacrificio da lui fatto per salvare l’umanità. Proprio il sacrificio di Cristo sarebbe, secondo questa interpretazione della fede, l’unica via che Dio ha dato agli uomini per salvarsi. Sulla base di questo assunto, Michelangelo appose sul legno della croce, nel disegno, il verso dantesco Non vi si pensa quanto sangue costa (tratto dal XXIX canto del Paradiso), riferito al sacrificio (di Cristo, degli Apostoli, dei martiri, di coloro che in generale hanno dato la vita per la fede) compiuto per diffondere le Scritture.

L’iconografia della Pietà per Vittoria Colonna, che trae spunto dalle Pietà nordiche e da quelle venete, che introducono il motivo degli angeli che aiutano la Madonna a sorreggere il corpo di Cristo, viene fedelmente riproposta da Cesare Corte nel suo dipinto per Loano. Sicuramente il pittore conobbe l’opera michelangiolesca grazie a una delle numerose copie che circolavano già nel tardo Cinquecento: l’opera infatti riscontrò un vasto successo, e non soltanto negli ambienti riformati. Anche la commissione a Cesare Corte del dipinto di Loano maturò in ambito di stretta osservanza cattolica: il richiedente era infatti Andrea II Doria, esponente della celebre famiglia genovese, marchese di Torriglia e conte di Loano col nome di Andrea I. Le fonti lo ricordano come un uomo pio e fortemente devoto: non sappiamo tuttavia se si deve a lui la scelta del soggetto, e nel caso in cui si debba a Cesare Corte non possiamo sapere se la ripresa del disegno michelangiolesco ebbe lo scopo di alludere a istanze riformate. Arrivare a una conclusione risolutiva non è possibile, anche perché nel processo a cui Cesare Corte fu sottoposto non vengono menzionate le sue opere: siamo dunque convinti che intorno a questa vicenda ci sia ancora da indagare.

Per chi volesse approfondire, proprio su questi temi, e proprio sulla vicenda di Cesare Corte, Laura Stagno terrà una conferenza giovedì 18 febbraio 2016 alle 17:30: l’appuntamento è a Genova, a Palazzo Lomellino.


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

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