Fino al XIX secolo, era molto raro, se non quasi impossibile, trovare artisti che scegliessero uno specifico titolo per una loro opera. Di conseguenza, le denominazioni con le quali oggi conosciamo moltissimi capolavori, anche celebri in tutto il mondo, derivano o da catalogazioni in archivi storici, o da documentazioni anch’esse storiche (note di pagamento, lettere d’incarico, e via dicendo), oppure da descrizioni redatte da storici dell’arte (spesso e volentieri contemporanei dell’artista) che per primi si sono occupati del dipinto. Pertanto, se un titolo non è stato appositamente scelto da un artista, potremmo considerarlo quasi come una sorta di indicazione convenzionale. Nasce dunque una domanda che si potrebbe porre, al giorno d’oggi, un conservatore di una collezione d’opere antiche: ha senso modificare le denominazioni delle opere d’arte (quando, ovviamente, non scelte dall’artista) per aggiornarle secondo il modo di pensare della società contemporanea?
Al Rijksmuseum di Amsterdam, lo staff che cura le raccolte antiche si è sicuramente posto la domanda, e dobbiamo dedurre che la risposta sia stata affermativa, perché è in corso una mastodontica opera di aggiornamento dei titoli delle opere: la misura, annunciata lo scorso 9 dicembre durante una conferenza stampa, mira a eliminare, da titoli e descrizioni delle opere conservate nel museo, termini che potrebbero risultare offensivi o non appropriati secondo la nostra attuale sensibilità. Alcuni dei termini? Neger (“negro”), kaffer (come neger, utilizzato in Sudafrica), mongooltje (“mongoloide”), dwerg (“nano”), hottentot (“ottentotto”), bosjesman (“boscimano”), eskimo (“eschimese”), indiaan (“indiano d’America”), eccetera. Tutti da sostituire con termini più rispettosi, oppure semplicemente da cancellare. In alcuni casi, perché si tratta di parole ritenute offensive: è il caso, per esempio, di neger, ma anche di eskimo (gli abitanti della Groenlandia e delle terre vicine preferiscono esser chiamati Inuit) e di hottentot, che deriva da una parola in afrikaans che significa “balbuziente”, e che fu affibbiata dai coloni alle popolazioni khoi per via della lingua da questi ultimi parlata (è lo stesso principio per il quale gli antichi greci chiamavano barbari le popolazioni non greche: bárbaros in greco antico significa proprio “balbuziente”). In altri casi, perché sono termini che denotano un punto di vista marcatamente occidentale, irrispettoso del fatto che diverse popolazioni, come quelle che costituiscono l’ampio gruppo degli indiani d’America, hanno denominazioni originarie diverse.
Incisione del 1727, di Abraham Zeeman, a cui è stato cambiato il titolo: non più Der Hottentotten manier van oorlogen (“Il modo in cui gli ottentotti guerreggiano”) ma Khoi in oorlog (“Khoi in guerra”) |
Il provvedimento del Rijksmuseum potrebbe essere inteso proprio come un azzardo. Utilizzare il termine khoi invece di ottentotto per un’opera del Settecento (anche laddove il titolo è chiaramente indicato) potrebbe far apparire le descrizioni più rispettose agli occhi di noi contemporanei. E non è detto che sia sbagliato farlo, ma accanto al termine corretto occorerebbe dar conto anche di quello rimpiazzato, perché se le modifiche non vengono adeguatamente spiegate, il rischio è quello di non fornire al visitatore informazioni importanti sulla storia. Si andrebbe, in sostanza, a recidere un determinato legame con il passato: nel caso dei dipinti raffiguranti le popolazioni khoi, il legame dell’Olanda con il suo passato coloniale. Un passato tutt’altro che felice, dal momento che anche gli olandesi ridussero spesso in schiavitù le popolazioni dei territori da loro conquistati, e non mancarono neppure brutali massacri: glissare sull’idea di superiorità che portò i coloni ad affibbiare alle popolazioni locali nomi che rispecchiavano il punto di vista degli invasori non potrebbe configurarsi come un torto nei confronti di popoli che dovettero subire atrocità e sofferenze? Il passato non può essere dimenticato, anzi: dev’essere ricordato affinché in futuro non si ripetano gli stessi sbagli.
Il caso forse più dibattuto è quello relativo a un dipinto realizzato attorno al 1900 dall’olandese Simon Maris e noto, fino a prima del cambio d’intitolazione, come Negerinnetje (“Ragazza negra”, titolo con cui entrò nel 1922 nelle collezioni del Rijksmuseum): il titolo è stato modificato in Jonge vrouw met waaier (“Ragazza con ventaglio”). Se in effetti, in italiano come in olandese, l’aggettivo “negro” è ormai utilizzato solo in senso dispregiativo, è anche vero che eliminare il riferimento al colore della pelle dal dipinto potrebbe far perder di vista il senso che l’artista volle conferire al quadro (o quello che i suoi contemporanei vollero intuirci). Quella che il Rijksmuseum vuol portare avanti è, in sostanza, un’operazione tutt’altro che semplice. Non è detto che non la si possa fare, e non è neppure detto che occorra lasciare i titoli immutati nel tempo. È però necessario che le modifiche vengano attuate non soltanto nel rispetto dei soggetti raffigurati, ma anche nel pieno rispetto della storia: l’arte prodotta secoli fa non può essere adattata indiscriminatamente ai valori contemporanei, perché farlo significherebbe perdere una parte di storia. Infine, si tratta di un’operazione che non deve investire soltanto le parole: i pregiudizi non si cancellano semplicemente cambiando un nome, ma si cancellano con adeguate politiche di educazione, con incentivi alla cultura, con l’abbattimento delle disuguaglianze. In definitiva: il Rijksmuseum ha fatto bene ad avviare questa rivisitazione dei titoli delle opere? Forse non stanno sbagliando: ma di certo dovranno adottare moltissime cautele per non cadere in eccessi che rischierebbero di causare molti più danni di quelli a cui vorrebbero porre rimedio.
Particolare del dipinto di Simon Maris, realizzato attorno al 1900, con il titolo modificato (“Ragazza con ventaglio”, già “Ragazza negra”) |
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).