Un significativo ritratto del Bronzino: il nano Braccio di Bartolo, detto Morgante


Il Bronzino dipinse questo ritratto di Braccio di Bartolo, il nano della corte medicea soprannominato Morgante, forse per dimostrare la superiorità della pittura rispetto alla scultura.

Ritrasse poi Bronzino al duca Cosimo Morgante nano ignudo tutto intero, et in due modi, cioè da un lato del quadro il dinanzi e dall’altro il di dietro, con quella stravaganza di membra mostruose che ha quel nano, la qual pittura in quel genere è bella e maravigliosa. Così Giorgio Vasari descriveva, nell’edizione del 1568 delle sue Vite, uno dei più celebri dipinti del Bronzino (1503 - 1572), quello che raffigura Braccio di Bartolo, il nano della corte del duca Cosimo I de’ Medici: originario di Castel del Rio, un borgo sull’Appennino bolognese, ricopriva il ruolo di giullare e buffone (ruolo tipico dei nani di corte all’epoca) ed era stato cinicamente soprannominato Morgante, come il gigante del noto poema di Luigi Pulci. È lo stesso personaggio che Valerio Cioli adoperò come modello per la celeberrima fontana del Bacchino che adorna i giardini di Boboli a Firenze.

Valerio Cioli, Fontana del Bacchino
Valerio Cioli, Fontana del Bacchino (1560; marmo bianco, altezza 116 cm; Firenze, Giardini di Boboli)
L’opera è citata per la prima volta nel primo inventario della Guardaroba Medicea, che fu redatto nel 1553: non conosciamo la data esatta di realizzazione, ma si può far risalire la tela all’incirca allo stesso periodo in cui fu compilato l’inventario (ci si può spingere fino alla fine degli anni Quaranta). Si tratta di un dipinto che attira facilmente l’attenzione dei visitatori degli Uffizi, il museo dove è oggi conservato, non soltanto per l’insolito soggetto, un nano di corte, ma anche perché l’opera è dipinta su entrambi i lati, e ci mostra Braccio di Bartolo totalmente nudo, come ricorda anche Vasari, anche se Bronzino ha strategicamente piazzato una farfalla che svolazza davanti alle pudenda del nano onde sottrarle allo sguardo dell’osservatore. Il personaggio è visto sia di fronte che, sul lato posteriore, da dietro. Sul recto, ovvero il lato anteriore, vediamo anche, nell’angolo in alto a destra, una ghiandaia, un uccello particolarmente diffuso nei nostri boschi: il nano infatti si sta dando alla caccia, una delle sue passioni, che era solito praticare nelle riserve medicee, in particolare nei giardini della Villa di Castello (Braccio di Bartol doveva prestarsi, così come gli altri nani di corte, a essere dileggiato e sbeffeggiato, ma tutto sommato poteva condurre una vita agiata alla corte medicea). La civetta che il nano tiene sulla mano destra, e che è assicurata a una piccola corda legata alla mano sinistra, è funzionale a questa attività: il rapace era impiegato, in notturna, in una speciale tecnica venatoria col fine di attirare le prede. Il verso, cioè il lato posteriore dell’opera, ci restituisce infatti il nano con la civetta in spalla e con la ghiandaia, catturata, in mano. Il fatto che Braccio di Bartolo avesse una certa dimestichezza con queste pratiche risulta anche da una lettera del 1544, nella quale si parla di una serata trascorsa da Cosimo I nel suo giardino, “dove il Nano [...] havendo messo li appresso la sua civetta ha preso sei o otto uccellini con piacer di Sua Excellenza”.

Bronzino, Il Nano Morgante
Bronzino (Angelo Tori), Ritratto del nano Braccio di Bartolo, detto Morgante (prima del 1553; olio su tela, 149 x 98 cm; Firenze, Uffizi), recto e verso

Una realizzazione così insolita doveva per forza avere un suo scopo: a dare una spiegazione plausibile provò, nel 1956, lo storico dell’arte statunitense James Holderbaum, che in un suo articolo uscito quell’anno sul Burlington Magazine ricondusse il dipinto al cosiddetto Paragone delle arti, una disputa iniziata nel 1546 dal letterato Benedetto Varchi (1503 - 1565), che volle coinvolgere i maggiori artisti della Firenze del tempo al fine di chieder loro quale fosse l’arte più illustre, la pittura o la scultura. Gli artisti risposero esponendo le loro ragioni in lettere indirizzate a Benedetto Varchi, e il Bronzino si schierò a favore della pittura. Holderbaum riteneva che Bronzino avesse realizzato il dipinto nel quadro di questa disputa, per dimostrare la superiorità della pittura che, al contrario della scultura, darebbe modo all’artista di raffigurare lo scorrere del tempo: se sul lato anteriore del dipinto è raffigurato il momento iniziale della caccia, il lato posteriore raffigura invece la fine, con la preda catturata. È proprio questo il senso che oggi la critica tende ad attribuire all’opera del Bronzino.

Il dipinto introduce poi un ulteriore motivo di riflessione. L’eccezionale capacità descrittiva del Bronzino, che lo ha reso uno dei più abili (ma anche dei più freddi) ritrattisti dell’intera storia dell’arte, e la straordinaria naturalezza con la quale era solito effigiare i soggetti, hanno portato molti commentatori, soprattutto quelli antichi, a profondere bizzarre celebrazioni dell’opera, fondate sul contrasto tra l’abilità del pittore e le sensazioni di repulsione che il soggetto suscitava in coloro che lo osservavano. Ne è un esempio lo stesso Vasari, che apprezza il fatto che Bronzino sia riuscito in una pittura “bella e meravigliosa” nonostante la “stravaganza di membra mostruose” del nano. E ancora l’erudito Domenico Maria Manni, nelle sue Veglie piacevoli del 1759, sosteneva che Cosimo I volle far ritrarre Braccio di Bartolo “affinché la mostruosità tutta quanta di lui rimanesse visibile all’occhio de’ posteri come cosa maravigliosa”. Oggi considerazioni di questo tipo sarebbero ritenute eticamente inaccettabili, ma in epoche in cui i nani rientravano a pieno titolo nella categoria del “deforme” e del “mostruoso”, il dipinto del Bronzino era visto come una dimostrazione d’abilità e della capacità della pittura di restituire anche soggetti in grado di provocare ripugnanza. Il tutto in linea con le tendenze artistiche del tempo: andavano diffondendosi i dibattiti artistici sul grottesco e sul mostruoso (sono da ricordare, in particolare, gli scritti del pittore portoghese Francisco de Hollanda), e non erano pochi gli artisti che si erano cimentati sul tema (pensiamo alle sculture del Parco dei Mostri di Bomarzo, oppure alle incisioni di Federico Zuccari).

Nel 2010, in occasione della grande mostra sul Bronzino che si è tenuta a Palazzo Strozzi, il dipinto del nano Morgante ha subito un impegnativo restauro, uno dei più importanti degli ultimi anni: l’opera infatti era stata pesantemente alterata nel corso dell’Ottocento, quando si trovava presso la villa medicea di Poggio Imperiale, perché Braccio di Bartolo era stato trasformato nel dio Bacco. In altre parole, la civetta era stata sostituita con un calice di vino, il capo del nano era stato coronato con una foglie di vite, e allo stesso modo veniva aggiunto alla figura del nano una sorta di perizoma, anch’esso fatto d’uva e di foglie di vite.

Il dipinto prima del restauro, con i rifacimenti ottocenteschi
Il dipinto prima del restauro, con i rifacimenti ottocenteschi

Il restauro, oltre a integrare le cadute di colore e a riparare i tagli e le lacerazioni che aveva subito nel corso dei secoli, ha totalmente eliminato le aggiunte ottocentesche, restituendoci l’originaria immagine così com’era stata pensata dal Bronzino: dopo la mostra, con l’apertura delle nuove sale degli Uffizi, l’allora direttore Antonio Natali ha voluto sistemare il dipinto al centro della sala 64, una delle due dedicate al Bronzino. Dunque, Braccio di Bartolo occupa adesso un ruolo centrale all’interno di uno dei maggiori musei mondiali: con la nostra sensibilità moderna, possiamo pensare che, malgrado i dileggi che il nano dovette subire in vita, la sua fama ha travalicato i secoli e Braccio è ora il protagonista indiscusso di un dipinto d’incommensurabile maestria e dal profondo significato allegorico nel contesto di un’illustre disputa tra artisti e letterati. Qualità che lo rendono una delle più importanti opere del Cinquecento.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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