Quando i quotidiani ci presentano una nuova scoperta artistica, assistiamo sempre alle prese di posizione di diversi studiosi, che si schierano a favore di un’attribuzione a un determinato artista, oppure assumono pareri del tutto contrari, riconducendo l’opera ad altre mani. Una domanda che spesso caratterizza la curiosità di coloro che assistono ai dibattiti è: come si fa ad attribuire un dipinto? Rispondere a questa domanda significa attraversare secoli di storia della connoisseurship, un termine anglo-francese che indica quell’approfondita capacità, da parte degli esperti conoscitori d’arte, di esprimere pareri sulle opere. Abbiamo dunque deciso di ripercorrere, in breve e senza pretesa di fornire quadri approfonditi, le principali tappe di questa storia, iniziando dalla figura di Giovanni Morelli (1816 - 1891) e dal suo metodo basato sull’individuazione dei cosiddetti motivi sigla.
Franz von Lenbach, Ritratto di Giovanni Morelli (1886; Bergamo, Accademia Carrara) |
Proprio a Milano, Morelli conobbe storici dell’arte e collezionisti per i quali iniziò anche a lavorare (per esempio, fu consulente del marchese Giuseppe Arconati Visconti), fornendo pareri nelle trattative per l’acquisto delle opere d’arte. Significativo fu il viaggio che intraprese insieme a un altro grande studioso, Giovanni Battista Cavalcaselle (1819 - 1897), tra Marche e Umbria per redigere il catalogo delle opere d’arte conservate in quelle regioni: uno studio commissionato da Cavour subito dopo l’Unità d’Italia, nel 1861.
Durante gli anni della sua attività, Morelli mise a punto un metodo particolare, destinato a influenzare molti storici dell’arte che vennero dopo di lui. Lo studioso, imbevuto com’era di positivismo, aveva cercato di escogitare un metodo che potesse applicare il rigore della scienza all’indagine dello storico dell’arte: Morelli pubblicò dunque una serie di scritti, sotto lo pseudonimo russo di Ivan Lermolieff (il cognome è nient’altro che l’anagramma di “Morelli” con l’aggiunta della desinenza tipica dei cognomi russi), sulla rivista viennese Zeitschrift für bildende Kunst (“Giornale della storia dell’arte”), in cui enunciava i principi del suo metodo, approfonditi poi in un’unica opera, pubblicata nel 1890 e intitolata Kunstkritische Studien über Italienische Malerei (“Studi di critica d’arte sulla pittura italiana”), tradotta nel 1897 in italiano da Gustavo Frizzoni. L’aspetto più curioso di quest’ultima opera consiste nel fatto che è scritta in forma di dialogo: una scelta in linea con la propensione al dialogo tipica degli scrittori romantici, che Morelli frequentò a Berlino, nonché idonea per far circolare le sue idee presso un pubblico più ampio, che poteva esser meglio attirato da una forma letteraria più leggera rispetto a quella del trattato.
Morelli, in sostanza, riteneva che la mano d’un artista potesse essere identificata attraverso particolari anatomici caratteristici e ricorrenti nella sua arte, che il pittore ripeteva in modo quasi meccanico, in quanto da lui stesso ritenuti poco significanti nel contesto dell’intera composizione. Sarebbero questi i motivi sigla (o le “cifre morelliane”, come sono state poi definite in un secondo momento) che permetterebbero allo studioso di assegnare in modo corretto un’attribuzione. Ma quali sono questi particolari secondari? Per esempio, la forma del lobo dell’orecchio, il contorno delle palpebre, la lunghezza delle falangi, la conformazione delle dita. Morelli spiega anche per quale ragione lo studioso dovrebbe concentrarsi su questi particolari: quelli più evidenti (per esempio l’espressione di un volto o un modo di sorridere, come quello di Leonardo) sarebbero infatti in grado di estendersi ad altri artisti (pensiamo agli artisti di una bottega o di una scuola che imitano il loro maestro), mentre i particolari più insignificanti non correrebbero questo rischio. Dunque, azzardando un confronto, potremmo dire che come il biologo opera confronti tra i particolari anatomici di animali per classificarli, così lo storico dell’arte confronta i particolari anatomici dei personaggi delle opere onde formulare le attribuzioni.
Orecchie e mani di diversi artisti (illustrazione tratta dall’edizione inglese di Kunstkritische Studien über Italienische Malerei) |
Accanto ai motivi sigla, che costituiscono la classe principale dei caratteri che dovrebbero portare, secondo Morelli, all’individuazione della mano d’un pittore, esisterebbero altre due classi di tratti peculiari, per un totale di tre categorie, che aiuterebbero lo studioso a formulare l’attribuzione più corretta del dipinto. Una delle due restanti classi è composta dalle pose e dagli atteggiamenti, oltre che dalle forme del viso e dall’andamento dei panneggi: si tratta delle caratteristiche che connotano la composizione in generale, e sono ritenute le meno importanti da Morelli, appunto in quanto più evidenti e dunque più sottoposte al rischio d’influire o d’essere influite. L’ultima classe è infine quella delle cosiddette maniere abituali, per usare l’espressione adoperata dallo stesso Morelli: particolari ricorrenti nelle opere di un pittore, che il pittore stesso inserisce senz’avvedersi. Queste “maniere abituali” sono nient’altro che il risultato del ripetersi dei motivi sigla e rivelerebbero pertanto l’identità di un artista. Un grande storico dell’arte, Enrico Castelnuovo, ha efficacemente paragonato il metodo morelliano a quello di Sherlock Holmes: come lo studioso, anche il personaggio di Arthur Conan Doyle riusciva a scoprire l’autore di un delitto attraverso l’analisi di particolari minuti e apparentemente insignificanti, ma che tradivano il colpevole in modo inequivocabile. Del resto, Sherlock Holmes è il primo personaggio letterario che rappresenta il detective che applica il metodo scientifico ottocentesco nelle sue indagini (e Arthur Conan Doyle fu contemporaneo di Giovanni Morelli).
Orecchie di diversi artisti (illustrazione tratta dall’edizione inglese di Kunstkritische Studien über Italienische Malerei) |
Utilizzando questo metodo, Morelli giunse a risultati sorprendenti: formulò infatti diverse attribuzioni che ancor oggi ci appaiono oltremodo robuste e hanno segnato la storia (e verrebbe da dire anche la fortuna) di certi artisti. Basti pensare all’attenzione che Giovanni Morelli dedicò a Giorgione: all’artista veneto, Morelli assegnò alcuni dipinti come la Giuditta dell’Ermitage di San Pietroburgo, il Giovanetto con flauto di Hampton Court, il cosiddetto Ritratto Giustiniani di Berlino e soprattutto la Venere di Dresda, che rimane sicuramente la sua attribuzione più celebre e fortunata, in quanto ancor oggi largamente accettata da quasi tutta la critica (ancorché si tenda a individuare nel dipinto anche la mano di Tiziano, che lo avrebbe completato). Fino all’attribuzione di Morelli, formulata nel 1880 nel suo lavoro Le opere dei maestri italiani nelle gallerie di Monaco, Dresda e Berlino (titolo tradotto dall’originale tedesco), l’opera era ritenuta una copia da Tiziano eseguita dal Sassoferrato: lo studioso, analizzando alcuni particolari (come l’ovale del viso, la forma del pollice, le pieghe del lenzuolo) non soltanto assegnò l’opera al Giorgione, ma si meravigliò anche del fatto che prima di lui nessuno si fosse accorto del capolavoro che era appeso nelle sale della Gemäldegalerie di Dresda.
Il metodo morelliano si attirò comunque diverse critiche, a cominciare da quelle del suo collega Cavalcaselle, che favoriva invece un approccio basato soprattutto sull’impressione d’insieme, e particolarmente sprezzante fu anche la definizione che Adolfo Venturi (1856 - 1941) riportò circa l’operato di Morelli, riferendosi al suo metodo con l’espressione "critica orecchiuta": l’aggettivo mirava a denigrare la predilezione tipicamente morelliana per gli attributi anatomici più minuti (come le orecchie, appunto). Non bisogna poi dimenticare che il metodo aveva dei limiti pesanti, riconosciuti addirittura dallo stesso Morelli, che lo riteneva applicabile soltanto alle opere rinascimentali: dal Manierismo in poi, l’imitazione dei grandi del Rinascimento avrebbe infatti reso molto più difficili attribuzioni prive di significativi margini d’errore. Il metodo di Morelli ebbe tuttavia anche diversi estimatori, il più importante dei quali fu probabilmente Bernard Berenson (1865 - 1959): oggi, benché si consideri in qualche modo superato l’approccio che dà rilievo soprattutto ai particolari meno evidenti, dal momento che è ormai assodata la notevole importanza d’una visione d’insieme della composizione per formulare una corretta attribuzione, è di sicuro possibile asserire che il metodo morelliano ha costituito una base fondamentale che ha aiutato il lavoro di molti storici dell’arte.
Giorgione, Venere (1507-1510 circa; Dresda, Gemäldegalerie) |
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).