Ci volevano Tomaso Montanari e Pablo Echaurren per sbrogliare la solita matassa di lodi sperticate, incondizionate ma soprattutto prone e prive di cognizione di causa, che hanno accompagnato l’ennesimo arrivo in Italia di un artista che gode di una minima fama internazionale: e, per la stampa italiana, se hai la ventura d’essere un artista, di vantare considerevoli ricchezze, di giovarti di una fama che ha ormai raggiunto ogni angolo del globo, e di chiamarti anche Jeff Koons, oltre che di risvegliare qualche prurito negli appassionati d’arte più âgé, perché nel tuo curriculum figura un anno di matrimonio con Cicciolina con conseguente serie di dipinti porno-trash iperrealisti, allora devi aver per forza qualcosa da dire. Pazienza se poi i critici d’arte da rotocalco di quart’ordine (ma anche quelli che scrivono su molte delle più illustri testate nazionali) e i commentatori da social network (questi ultimi subito pronti a tempestare di like le immagini delle opere di Koons), nonostante le affannose ricerche, non riescano a trovare su di te niente di serio da dire e siano costretti a coprire con aggettivi altisonanti il vuoto pneumatico sul quale tu, re del kitsch planetario, venuto da oltre oceano, hai costruito la tua arte e fondato le tue fortune: ecco dunque la genesi di tutto quell’abbondare di “gestaltico”, “transeunte”, “pellicolare”, oltre a locuzioni assortite che paiono esser nate dall’abbinamento di sostantivi e aggettivi uniti sfogliando in modo casuale un dizionario, con l’obiettivo non dichiarato di conferire una sorta di legittimazione verbale al niente.
Jeff Koons, una delle opere della serie Made in Heaven (1989-1991) che lo ritrae con la moglie Cicciolina |
Jeff Koons è ritenuto da molti una sorta di successore di Andy Warhol. Tuttavia, forse la dimensione che più gli si confà, è quella dell’epigono che riprende in modo stanco e superficiale le idee del maestro: a Jeff Koons, per esempio, manca totalmente l’occhio cinico e disincantato di Andy Warhol. Andy Warhol utilizzava la propria ironia per criticare il sistema. Jeff Koons è il sistema, e basterebbe dare un’occhiata alle fotografie dell’arlecchinesca parata che ha accolto il suo arrivo a Firenze, con tanto di majorette in parrucca blu e gozzoviglie nel Salone dei Cinquecento, per rendersi conto di quanto l’artista statunitense sia calato in questo sistema che si basa, per usare le parole di Echaurren, sulla “sudditanza dei media e delle amministrazioni” (nostrane, ma spesso anche straniere), sull’“autocompiacimento dell’esibizione del valore inteso come prezzo”, e sul “complesso di inadeguatezza” che gli investitori, dagli Impressionisti in poi, hanno sempre provato nei confronti degli artisti, e li ha portati dunque a confezionarsi un’arte su misura, da sfruttare a piacimento, di cui decretare a priori il successo. Ma non è detto che il mercato produca sempre un’arte pregna di valori.
E, come detto, l’arte di Jeff Koons si basa sul vacuo e sull’effimero. E non è un parere inedito da parte del sottoscritto: sono stato preceduto da penne ben più illustri. “Immaginatevi la retrospettiva di Jeff Koons al Whitney Museum of American Art come una tempesta perfetta. E, al centro della tempesta perfetta, c’è il vuoto perfetto. La tempesta è tutto ciò che gira attorno a Jeff Koons: i prezzi d’asta multimilionari, gli investitori blue chip, le iperboliche asserzioni della critica, l’adulazione ma anche le dispute del pubblico che, com’è naturale che sia, vuole sapere attorno a cosa nasce tutto il clamore suscitato dall’artista. Il vuoto è l’arte di Jeff Koons, un continuo susseguirsi di trofei da cultura pop così privi d’anima che anche i più incalliti frequentatori di musei appaiono un po’ confusi mentre tirano fuori i loro iPhone d’ordinanza e scattano i loro selfie”: così scriveva, appena un anno fa, Jed Perl su The New York Reviews of Book. Un vuoto multimilionario insomma, che ha posto la lastra tombale su tutte le buone intenzioni degli artisti concettuali che da Duchamp in poi hanno avuto qualcosa da affermare: se il senso dell’arte dada, e dei suoi derivati, era quello di negare l’arte come mero compiacimento estetico, seppur in modo radicale, oltre che di far sì che il ready made assurgesse a simbolo del fatto che l’arte non è slegata dalla realtà, Jeff Koons, con la sua opera esposta in piazza della Signoria, ribalta del tutto il messaggio dada. Il ready made koonsiano non è che una piccola opera in porcellana del Settecento francese, che vagamente s’ispirava non già al Ratto di Persefone di Gian Lorenzo Bernini (né, tanto meno, all’opera berniniana si ispira Koons, come hanno scritto molti che non si sono premurati di approfondire l’opera), bensì, più probabilmente, a qualche gruppo scultoreo realizzato da uno degli innumerevoli artisti barocchi europei. Jeff Koons non ha fatto altro che ottenere una scansione tridimensionale del piccolo pezzo d’arte: lo ha quindi ingrandito, riprodotto in acciaio e dorato. Di conseguenza, la critica meno avveduta (ma forse anche quella più avveduta) loda non il messaggio dell’opera, che dovrebbe essere la base fondante dell’arte concettuale, ma la presunta ispirazione berniniana, o addirittura la “provocante bellezza” (... verrebbe da domandarsi quale) che le opere di Koons dovrebbero suscitare in chi le ammira.
Jeff Koons, Pluto and Proserpina (foto di Francesco Rolla) |
È, insomma, l’esatto opposto dell’obiettivo dell’arte dada, che dovrebbe spingere l’osservatore a porsi delle domande. E, se vogliamo, anche della pop art. Jeff Koons è pop non perché critica la società dei consumi, ma perché è pop in sé, secondo la più banale accezione del termine. E probabilmente uno dei segreti del suo successo consiste proprio nel suo essere intrinsecamente e visceralmente pop. I negozi di dischi vendono bene gli album di Katy Perry e non quelli, che so, di Federico Fiumani. Al cinema, si fa la coda per vedere i filmetti trash. Persino gli impressionisti sono stati trasformati in un fenomeno pop, con file interminabili davanti alle porte dei musei per saggiare le impalpabili emozioni che solo l’arte di Monet e compagni, secondo il marketing, parrebbe regalare. Non ci si può dunque stupire del fatto che l’arte di Jeff Koons sia l’arte acclamata dalla critica dei nostri tempi. “Se non vi piace l’arte di Jeff Koons, prendetevela con il mondo”, scriveva Peter Schjeldahl del New Yorker qualche mese fa. Non gli si può certo dar torto. Ma è anche vero che noi abbiamo tutto il diritto di poter dire la nostra, e di non dover per forza sottostare a ogni operazione commerciale che ci viene propinata da amministrazioni locali evidentemente a corto d’idee, oltre che di preparazione culturale.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).