Si potrebbe azzardare una data ben precisa per stabilire l’inizio “ufficiale” del Rinascimento veronese: il 31 luglio 1459, giorno in cui la celeberrima Pala di San Zeno venne collocata sull’altare maggiore della Basilica di San Zeno a Verona, alla presenza dell’autore del dipinto, Andrea Mantegna (1431 - 1506). L’opera suscitò subito immediata ammirazione e si configurò come un esempio per tutti gli artisti, giovani e meno giovani, che operavano in città: era un dipinto rivoluzionario, che portava a Verona quella cultura rinascimentale che si era sviluppata a Padova e si stava diffondendo, lentamente, in tutto il Veneto. Una cultura fatta di interesse per l’antico, di preciso senso dello spazio, di ricerche prospettiche, di statuaria monumentalità. Tutte queste caratteristiche, già sviluppate da un ancor giovane Mantegna (all’epoca della realizzazione della Pala di San Zeno, l’artista aveva infatti ventott’anni), fecero la loro comparsa a Verona con l’arrivo della pala.
Una pala che ha avuto, peraltro, una storia molto travagliata. Che è interessante ricordare. Il committente era Gregorio Correr, esponente di una delle più illustri famiglie del patriziato veneziano. All’epoca della commissione (siamo tra il 1456 e il 1457: non ci è giunto purtroppo il contratto, ma sappiamo che Mantegna iniziò a lavorare il 5 gennaio del 1457), Gregorio Correr ricopriva la carica di abate di San Zeno: intriso di cultura umanistica, e probabilmente colpito da ciò che l’artista aveva fatto a Padova, si accorse che le loro vedute erano più o meno sulle stesse linee, e pensò quindi di ingaggiarlo. Quello con l’abate Correr fu per Mantegna un incontro molto felice: fu infatti lo stesso Correr a caldeggiare il nome dell’artista presso la corte dei Gonzaga, che avrebbe decretato la fortuna del pittore veneto. L’abate era stato compagno di scuola del marchese Ludovico III Gonzaga durante gli anni di studio alla Ca’ Zoiosa di Vittorino da Feltre, e possiamo pensare che questi rapporti facilitarono l’ingresso di Mantegna a Mantova. Come detto prima, la Pala di San Zeno fu terminata e posta sull’altar maggiore della Basilica nel 1459. L’altare appositamente costruito per ospitare il polittico sarebbe stato poi eliminato nel 1500, e l’opera avrebbe subito uno spostamento in quanto sarebbe stata avvicinata all’abside. Secoli più tardi, il trattato di Campoformio e l’arrivo di Napoleone in Italia sottoposero l’opera al rischio del trasferimento in Francia. E così infatti fu: la Pala di San Zeno fu una delle innumerevoli opere requisite dall’esercito napoleonico e inviate a Parigi. Il dipinto di Mantegna in particolare contribuì ad alimentare il primo nucleo di quello che oggi è il Museo del Louvre. Tuttavia, a seguito del Congresso di Vienna del 1815, l’opera fece ritorno a Verona, senza però la predella, rimasta a Parigi: quella che vediamo oggi a Verona è una copia (oggi le singole tavole che la compongono sono divise tra due musei: la Crocifissione è al Louvre, mentre la Preghiera nell’orto e la Resurrezione sono al Musée des Beaux-Arts di Tours). Le vicissitudini, tuttavia, non finirono con Napoleone: durante la prima guerra mondiale, la pala corse il pericolo d’esser portata in Austria. Dopo la battaglia di Caporetto si diffuse il timore di un ingresso in Veneto da parte degli austriaci: così, per motivi precauzionali, l’opera fu smontata e inviata a Firenze onde metterla al sicuro. Finita la guerra l’opera ritornò, ancora smontata, a Verona, ma fu subito inviata a Milano per un restauro: avrebbe fatto ritorno definitivo nella sua città solo nel 1935. Da allora, eccezion fatta per una breve parentesi tra il 2007 e il 2009 (ancora per un nuovo restauro), la vediamo, nella sua cornice originale, all’interno della Basilica per la quale fu concepita.
La portata rivoluzionaria di un’opera che arrivava in una città ancora legata alla propria arte tardogotica che, in ritardo rispetto ad altre località, iniziava ad aprirsi alle novità rinascimentali, fu sconvolgente: perché queste novità arrivarono tutte insieme in un unico momento. E basta dare un’occhiata anche rapida al dipinto per rendersi conto della distanza che poneva rispetto alla produzione artistica veronese contemporanea. Risaliva ad appena vent’anni prima uno dei capolavori del tardogotico italiano, l’affresco di Pisanello, San Giorgio e la principessa, nella chiesa di Sant’Anastasia, mentre era all’incirca contemporanea (dovrebbe risalire alla metà del secolo) un’opera come il San Girolamo penitente di Jacopo Bellini (che fu, peraltro, suocero di Mantegna) conservata al Museo di Castelvecchio e anch’essa ancora legata a un immaginario ormai superato. L’arte che fino ad allora si produceva a Verona venne spazzata via in un colpo solo. Perché, con la Pala di San Zeno, Mantegna realizzò quello che è considerato da più parti come il primo polittico pienamente rinascimentale dell’intera Italia settentrionale, e di conseguenza, con la sua opera, l’artista portò il Rinascimento, con tutte le sue novità, a Verona.
Il primo aspetto rivoluzionario, già conquistato nell’Italia centrale grazie ad artisti come il Beato Angelico e Domenico Veneziano, ma nuovo per il nord, consiste nello spazio unitario entro cui si svolge la scena: se fino a prima, a Verona e dintorni, i polittici erano rigidamente divisi e ogni scomparto faceva storia a sé, adesso permane la divisione, per non creare un distacco troppo netto col passato, ma ciò che vediamo al di là delle colonne che dividono gli scomparti è una scena intera, uno spazio unico. Una concezione che derivava dallo studio delle opere di Donatello per la Basilica di Sant’Antonio a Padova: in particolare, Mantegna riprese la struttura che Donatello aveva ideato per l’Altare del Santo (oggi perduta), e la applicò alla sua Pala di San Zeno. E c’è inoltre da notare come Mantegna abbia adottato l’espediente di progettare una cornice con gli scomparti suddivisi da colonne classiche, che sembrano quasi far parte esse stesse della scena. L’impressione è quella di trovarsi al di qua di una loggia, scalata in profondità e di cui la cornice è parte integrante, dove trovano posto i personaggi: al centro, la Madonna col Bambino assieme ad angioletti festanti, sul lato sinistro i santi Pietro, Paolo, Giovanni Evangelista e Zeno, mentre sul lato destro i santi Benedetto, Lorenzo, Gregorio Magno e Giovanni Battista. L’illusionismo prospettico con cui Andrea Mantegna rende credibile lo spazio descritto dal dipinto è un altro degli aspetti nuovi della pala, che verrà poi ulteriormente approfondito con le ricerche successive dell’artista.
La loggia marmorea è scolpita con medaglioni entro cui Mantegna ha ambientato scene mitologiche, mentre sul fregio appaiono putti classicheggianti. E proprio nella ricerca di legami con l’antichità classica sta un altro dei motivi della portata rivoluzionaria del polittico. Non deve sorprendere il fatto che, nella stessa scena, compaiano assieme motivi desunti da repertori pagani, ed elementi propri della religione cristiana: per gli uomini del Rinascimento, esisteva una continuità tra il cristianesimo e il paganesimo, e si pensava che gli scritti di molti autori pagani (pensiamo a Virgilio, per rimanere nell’area in cui lavorò Mantegna) annunciassero in qualche modo l’avvento del cristianesimo. E dobbiamo poi considerare che Mantegna nutriva una forte passione per l’arte classica, che ebbe modo di sviluppare durante il suo apprendistato nella bottega di Francesco Squarcione, pittore noto per i suoi elevatissimi interessi antiquari (e, per inciso, tipicamente squarcioneschi sono i festoni appesi alle architetture). Così, molti dei motivi che appaiono nella pala di San Zeno, sono desunti dalla conoscenza di monumenti romani, attraverso calchi e riproduzioni in possesso di Francesco Squarcione: Mantegna avrebbe poi approfondito le antichità classiche, più avanti nel tempo, con un soggiorno diretto a Roma.
I simboli che rimandano alla classicità come all’era che ha preceduto l’avvento del cristianesimo non sono gli unici presenti nel dipinto, che ha una notevole rilevanza anche dal punto di vista simbolico. Il simbolo forse più evidente di tutta la composizione è l’uovo di struzzo da cui pende la lucerna al centro della scena, proprio sopra il capo della Vergine: è un rimando all’Immacolata Concezione, perché anticamente vigeva la credenza secondo la quale le uova di struzzo si schiudessero grazie all’azione dei raggi del sole. E il sole ha sempre rappresentato Dio: Dio quindi feconda l’uovo attraverso lo Spirito Santo e fa nascere la Madonna. I festoni che decorano la loggia sono carichi d’uva, simbolo dell’Eucarestia, e di pomi, simbolo del peccato originale redento da Cristo attraverso il suo sacrificio. La decorazione presente sulla sommità del trono della Vergine, a forma di ruota, rimanda invece al rosone della Basilica di San Zeno.
Come ribadito sopra, la Pala di San Zeno segnò l’inizio di una nuova epoca per l’arte veronese: tutti gli artisti del tempo iniziarono a rivedere il proprio stile per aggiornarlo sulle novità introdotte da Andrea Mantegna, e sulla scorta della lezione mantegnesca si originò una generazione di validissimi pittori che diedero il via al Rinascimento veronese. A cominciare da tre giovani contemporanei di Mantegna: Francesco Benaglio (1432 circa - dopo il 1492), Domenico Morone (1442 circa - 1518) e Liberale da Verona (1445 circa - 1530), che possiamo un po’ considerare i capiscuola del Rinascimento a Verona. Il primo a recepire le novità fu Francesco Benaglio, che era coetaneo di Mantegna: appena tre anni dopo la realizzazione della Pala di San Zeno, realizzò il Trittico di San Bernardino, opera tuttora conservata nella chiesa di San Bernardino a Verona, opera derivata direttamente dall’esempio del polittico mantegnesco, e opera che possiamo considerare la prima pala rinascimentale realizzata da un artista di scuola veronese. La generazione successiva a quella di Morone e Benaglio, egregiamente rappresentata da artisti come Francesco Morone, figlio di Domenico, Giovan Francesco Caroto, Niccolò Giolfino, Girolamo dai Libri e altri, sviluppò le idee dei loro insegnanti aggiornandole a seconda del proprio percorso formativo: c’era chi, come Caroto, rimase affascinato dalla delicatezza e dalla sensibilità correggesca, chi invece, come Francesco Morone e Girolamo dai Libri, guardò al colorismo e alla naturalezza dei pittori di area veneziana come Giovanni Bellini e Antonello da Messina, e non mancò chi, come Niccolò Giolfino, guardò alla pittura del centro Italia ispirandosi principalmente a Raffaello. Mantegna, con la sua pala, aveva innescato un importante processo di rinnovamento, che fece nascere una delle più interessanti scuole della nostra storia dell’arte.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).