Mostre a Bologna: il Trecento bolognese di Roberto Longhi (1950)


Iniziamo oggi una serie di post sulle grandi mostre che si sono tenute a Bologna, cominciando da quella di Roberto Longhi del 1950 sul Trecento bolognese.

In concomitanza con la mostra Da Cimabue a Morandi che, come ormai saprete, ha aperto al pubblico questo sabato, vogliamo dedicare un piccolo ciclo di tre post, qui su Finestre sull’Arte, alle grandi mostre bolognesi del passato, per capire come la città di Bologna e gli eccellenti storici dell’arte che vissero o lavorarono in Emilia (da Longhi ad Emiliani passando per Gnudi e Arcangeli) abbiano contribuito allo sviluppo della disciplina della storia dell’arte in Italia. Iniziamo quest’oggi con la prima mostra di cui parliamo, quella del 1950 dedicata al Trecento bolognese: Mostra della Pittura Bolognese del Trecento, a cura di Roberto Longhi.

Mostra della pittura bolognese del Trecento
Catalogo della Mostra della pittura bolognese del Trecento
Siamo, dunque, all’inizio degli anni Cinquanta: c’è da premettere che, nel dopoguerra, in Italia si sviluppò uno spiccato interesse per l’arte. Evidentemente, i nostri genitori e i nostri nonni volevano mettersi alle spalle tutte le brutture, gli orrori e le sofferenze di una guerra nefasta, e oltre a ciò avevano il desiderio di riscoprire un comune denominatore che potesse dare un’identità forte a un popolo che aveva conosciuto il fascismo: l’arte era quindi vista anche come un modo per scoprire un nuovo senso di appartenenza e per condividere i valori di libertà e giustizia della Resistenza. Così, in molte città d’Italia questo fermento culturale trovò terreno fertile per l’organizzazione di mostre.

Bologna, in particolar modo, conobbe la compresenza di importanti personalità della storia dell’arte: basti pensare che, nel 1948, la Mostra celebrativa di Giuseppe Maria Crespi fu curata da Cesare Gnudi e da Francesco Arcangeli assieme, con la collaborazione di Roberto Longhi che si occupò del saggio introduttivo del catalogo, ma fu coinvolto anche nell’organizzazione. Bene: Longhi diventò il protagonista, due anni dopo, della mostra sulla pittura bolognese del Trecento.

Vitale da Bologna, Madonna dei denti
Vitale da Bologna, Madonna dei denti (1345; Bologna, Museo Davia Bargellini)

All’epoca c’era anche un’altra esigenza, oltre a quella di riscoprire un’identità culturale condivisa. La guerra aveva prodotto ingenti danni agli antichi edifici, e moltissime testimonianze artistiche del nostro passato erano sottoposte a rischi serissimi. Uno dei primi meriti della Mostra della Pittura Bolognese del Trecento consistette proprio nel riuscire a salvare molte di queste opere d’arte in pericolo. La mostra era già in programma da alcuni anni: diverse chiese, nel bolognese, avevano subito crolli e danni strutturali durante la guerra, e grazie al lavoro messo in piedi per questa mostra (che fu fortemente voluta dalla Soprintendenza bolognese, che la organizzò assieme all’Associazione Francesco Francia) fu possibile recuperare molte opere d’arte che probabilmente, senza tale lavoro, avremmo perso o sarebbero state irrimediabilmente compromesse. Uno dei risultati maggiori di Roberto Longhi e della sua mostra fu il trasporto, nelle sale della Pinacoteca Nazionale di Bologna, dove la mostra ebbe luogo, degli affreschi di Mezzaratta, uno dei maggiori capolavori di Vitale da Bologna, probabilmente il massimo esponente del Trecento bolognese. Si tratta di affreschi che Vitale realizzò a più riprese durante la sua carriera, in un arco di tempo che va all’incirca dal 1338 al 1355. Originariamente collocati nella chiesa di Santa Apollonia di Mezzaratta (edificio da cui proviene anche la celebre Madonna dei Denti oggi conservata al Museo Davia Bargellini di Bologna, ed anch’essa esposta nella mostra del 1950), oggi sono ancora conservati nella Pinacoteca Nazionale, dove occupano una sala interamente dedicata a loro: sono stati inseriti nell’ambiente museale secondo la loro disposizione originale. I lavori di distacco, sentitamente caldeggiati da Longhi, iniziarono già nel 1947 e furono completati poco prima dell’inizio della mostra.

Gli affreschi di Mezzaratta
Vitale da Bologna, affreschi di Mezzaratta (1338-55 circa; Bologna, Pinacoteca Nazionale)

Altarolo di Tommaso da Modena
Tommaso da Modena, Altarolo (prima del 1349; Bologna, Pinacoteca Nazionale)
Tra gli artisti presenti in mostra, oltre a Vitale da Bologna la cui opera costituì un po’ il punto focale dell’esposizione, possiamo citare Simone de’ Crocifissi, importante personalità del tempo, Tommaso da Modena (“il grande Tommaso da Modena”, come lo chiamava Longhi), di cui erano esposti l’altarolo della Pinacoteca Nazionale e il piccolo trittico della Galleria Estense di Modena, o ancora Michele di Matteo presente in mostra con, tra le altre opere, l’Allegoria del peccato originale conservata ai Musei Civici di Pesaro (e che veniva per la prima volta a lui assegnata), continuando con Barnaba da Modena e con la sua bella Madonna col Bambino della collezione Fila, senza tralasciare il nome dell’artista oggi noto come Pseudo Jacopino, protagonista di una lunga vicenda critica iniziata proprio da Longhi. Quest’ultimo attribuì al pittore (documentato) Jacopino di Francesco un consistente corpus di opere che furono in seguito assegnate, per via di certi contenuti e per ragioni stilistiche, a un artista contemporaneo di Vitale da Bologna (lo Jacopino documentato è infatti attestato tra il 1360 circa e il 1386, cioè almeno una generazione dopo Vitale), a cui si decise poi di dare questo nome di Pseudo Jacopino, appunto.

Un discorso a parte merita la figura di Dalmasio Scannabecchi, pittore e padre di un altro grande artista dell’epoca, Lippo di Dalmasio: la mostra servì a delineare i contorni della figura di questo artista, di cui all’epoca si sapeva pochissimo. Longhi ipotizzò che a questo artista bolognese si dovevano attribuire le Storie di san Gregorio della cappella Bardi in Santa Maria Novella a Firenze, ipotesi che lo storico dell’arte volle suffragare esponendo alcune opere ascrivibili a Dalmasio: e ipotesi ancor oggi considerata valida da molti.

Obiettivo dichiarato della mostra, fu quello di far emergere l’importanza della pittura del Trecento bolognese in un’epoca in cui il dibattito storico-artistico, in riferimento all’arte Medievale, si focalizzava soprattutto sull’arte fiorentina (e su Giotto) e su quella senese. Meno aulica rispetto alla pittura toscana, e al contempo più popolare ed espressionista o, per usare le parole di Longhi, “così brutalmente sincera e impulsiva”, ma capace anche di accenni di raffinata eleganza, la pittura bolognese del Trecento trovò, grazie a questa mostra, una dimensione che fino ad allora le era sconosciuta. Longhi, in sostanza, considerò la pittura bolognese uno degli episodi fondamentali dell’arte del Trecento, e questa importanza era proprio da ritrovarsi nella sua umanità, in quel linguaggio così forte, naturale, drammatico, vicino agli uomini: una linea, questa della pittura bolognese, che la caratterizzerà anche oltre il Trecento, e sarà peraltro oggetto degli studi di Francesco Arcangeli, di cui parleremo nei prossimi post. La mostra ebbe il merito di far emergere questi aspetti (per approfondire i quali consigliamo il nostro podcast su Vitale da Bologna, in cui ne parliamo diffusamente), e conferir loro un’importanza che ancora oggi non è in discussione.

Michele di Matteo, Allegoria del Peccato originale
Michele di Matteo, Allegoria del peccato originale (prima metà del XV sec.; Pesaro, Musei Civici)


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo





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