Goldin: non è snobismo dire che le sue mostre non sono cultura


Rispondiamo a un articolo di Alessandro Zangrando in cui la critica a Goldin è vista come snobismo

Il 13 maggio scorso è apparso, sul Corriere del Veneto, un articolo firmato Alessandro Zangrando e intitolato Perché ci piace l’arte di Goldin. Sono contento che il giornalista abbia avuto una bella esperienza nel partecipare alle mostre di Vicenza e Bologna, organizzate dall’instancabilissimo Marco Goldin. Sono contento anche perché Zangrando dice che le mostre di Goldin non si sviluppano su tracciati imposti “da un Essere Supremo”: e dato che Zangrando contrappone le mostre di Goldin a quelle un tantino più “elaborate” (per usare un termine politicamente corretto), sono molto lieto di aver visto un sacco di mostre in cui si manifestava la presenza della divinità.

Scherzi a parte, ci sarebbe da sorvolare su diversi punti dell’articolo di Zangrando (e infatti li sorvolerò tutti): le argomentazioni da bar di Aldo Cazzullo che Zangrando tenta di portare a sostegno delle sue teorie, il suo a dir poco riduttivo concetto di divulgazione, le sue considerazioni sul rapporto tra Stato e privati (e cosa c’entra in un discorso sulle critiche a Goldin?). Sorvolando su tutto questo, Zangrando dice che i critici muovono a Goldin l’accusa di scarsa scientificità. Beh, scusi se è poco, caro Zangrando. Potremmo discutere su quanto sia seria una materia come la storia dell’arte, che è una delle più esposte a un costante rischio di banalizzazione. Ma concentriamoci su Goldin. Le sue mostre sembrano sempre mancare di un progetto, sia esso scientifico, didattico, divulgativo o quant’altro: un’esposizione il cui unico fine è quello di mostrare una sequela di capolavori senza un motivo preciso (perché dire, per esempio, che la mostra intende raccontare “la più grande storia che la pittura ricordi, quella dedicata al ritratto e alla figura”, non vuol dire assolutamente niente) non può configurarsi come un’operazione culturale. Sarebbe come spacciare per culturale un cinepanettone. Ovvero è un modo per passare il tempo libero, per spendere un sabato pomeriggio all’insegna della spensieratezza (tanto più che ormai per molti arte ed evasione sono diventati, purtroppo, concetti complementari, quasi sinonimi), e niente più. Una sorta di passatempo chic. Ragion per cui non può esistere il “consumo culturale” di cui Zangrando parla. La cultura non si può e non si deve consumare. Se vogliamo parlare di consumo tout-court, allora ci possiamo provare. Ma la cultura è un concetto del tutto opposto al concetto di consumo: banalizzando e tralasciando tutta la storia della filosofia che si è occupata di cultura, possiamo pensare alla cultura come a un insieme di conoscenze, che sono assimilate da una persona e che non la lasceranno più. E come può un concetto così nobile e così elevato trasformarsi in un consumo effimero e fugace? La cultura è fatta per rimanere, il consumo è un qualcosa che svanisce. E le mostre di Goldin sono inquadrabili, appunto, come un prodotto di consumo: perché alla fine del percorso, al visitatore rimane poco o niente.

È veramente antipatico tacciare di snobismo chi cerca di fornire al pubblico gli strumenti per capire cosa è un’operazione culturale e cosa invece non lo è. Intendiamoci: io non ho niente contro le mostre di Goldin, e se con questo suo modello ha successo, sono contento per lui. Ma che almeno si smetta di far passare queste mostre come operazioni culturali: quello che si critica non è la mostra in sé (sarebbe inutile), quello che si critica è il tentativo di dare una patina “nobile” a queste iniziative, il tentativo di conferir loro la pretesa di configurarsi come cultura. E in questo non c’è snobismo: c’è solo volontà di far comprendere cos’è cultura e cosa non lo è. Non è voler distinguere tra “arcadi e analfabeti”: si tratta solo di mettere il pubblico nelle condizioni di poter scegliere e distinguere, perché la distinzione tra cultura e consumo, se parliamo di arte, è più difficile che in altri campi. Vuoi perché la continua riduzione dell’importanza della storia dell’arte nelle scuole sta riducendo anche la capacità di comprendere il linguaggio dell’arte. Vuoi perché molte opere, soprattutto quelle dell’arte antica, non sono sempre di facile comprensione: ma non perché il pubblico sia stupido o analfabeta, semplicemente perché certi schemi e certe iconografie parlano un linguaggio che nel tempo si è evoluto, e per questo repertori che una volta erano facilmente comprensibili da tutti, oggi non lo sono più in quanto non più praticati o diffusi. Vuoi perché l’arte è percepita sempre come “cultura”, indipendentemente dal contesto in cui la si offre al pubblico (e questa percezione è alimentata anche dagli infelici espressioni come “consumo culturale”). E proprio per questo, proprio perché l’arte non è una materia facile, bisognerebbe aiutare il pubblico invece di confonderlo.

E uno dei modi più efficaci (e anche più odiosi) per confondere il pubblico, consiste nell’opporre le emozioni alla conoscenza. Questa visione manichea, proposta da Goldin (famosa è la sua terribile frase: “Credo nelle emozioni, non nella conoscenza per pochi sapienti”) fa perdere di vista diversi concetti importanti. Il concetto secondo cui l’arte nasce sempre in un contesto storico che la giustifica. Il concetto secondo cui l’arte si fa portatrice di messaggi e valori. Il concetto secondo cui gli artisti conferiscono sempre un profondo significato alle loro opere. Sacrificare la conoscenza in nome di presunte emozioni fa perdere di vista la vera importanza dell’arte, sdogana operazioni di dubbio gusto e utilità (come la famosa caccia alle ossa della Gioconda), annulla la serietà della materia e la rende preda di facili sensazionalismi. Opporre emozioni e conoscenza equivale quindi a tradire l’arte, a svuotarla di significato: non è affatto vero che la conoscenza non faccia comunque emozionare. E la gravità del far passare per “cultura” operazioni che con la cultura non hanno niente a che fare, si riflette anche nella tutela del patrimonio. Ovvero, si preferisce spendere tanto denaro in manifestazioni effimere e inutili piuttosto che per conservare l’arte vera. Un esempio? In questi giorni è in corso a Firenze una dispendiosa (quanto inutile e pretestuosa) mostra che mette a confronto Michelangelo e Jackson Pollock (ovvero due artisti che hanno le stesse affinità che possono avere, in musica, Gene Simmons e Gigliola Cinquetti), il tutto mentre il Tabernacolo di Boldrone, quello che conservava un tempo gli affreschi del Pontormo oggi staccati (e peraltro esposti nella mostra a Palazzo Strozzi) e sostituiti da copie, è ridotto a un rumentaio dove chiunque passa getta la propria immondizia (non ci credete? Date un’occhiata qua). Ma questo non lo dice nessuno. Meglio tessere le lodi di Goldin (e di tutti gli altri organizzatori di mostre discutibili) e lamentarsi di chi lo critica: è molto più facile.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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