Era un Michelangelo Buonarroti ultrasettantenne quello che, all’incirca tra il 1547 e il 1555 circa, scolpì la straordinaria Pietà Bandini oggi al Museo dell’Opera del Duomo di Firenze, una delle sue opere più sofferte e tormentate, cominciata in un periodo drammatico per l’artista, dal momento che nel febbraio del 1547 era venuta a mancare una delle sue più care amiche, la poetessa Vittoria Colonna, per la quale aveva disegnato una celeberrima Pietà di cui oggi rimane un disegno a carboncino su carta all’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston (anche se non sappiamo se sia stato poi tradotto in pittura). Pochi mesi dopo, a giugno, Michelangelo avrebbe perso un altro amico, il grande pittore Sebastiano del Piombo, e altri amici avevano lasciato Roma, contribuendo a provocare nell’artista una sensazione d’isolamento sempre più insopportabile. Il dramma del vissuto di Michelangelo, i suoi tormenti, le sue sofferenze, le sue ossessioni sull’idea della morte (la Pietà Bandini era infatti destinata alla sua sepoltura, nella chiesa romana di Santa Maria Maggiore), vengono così riversate in questa monumentale opera in marmo bianco di Carrara, dove il corpo di Cristo, particolare inedito in opere simili per Michelangelo, viene sorretto, oltre che dalla Madonna, anche da Maria Maddalena e da Nicodemo, cui l’artista decide di dare le proprie sembianze.
Il carico d’inquietudine dell’artista e tale che, a un certo momento della storia dell’opera, attorno al 1555, l’artista avrebbe anche cercato di distruggerla, seppure invano. Michelangelo era frustrato, oltre che per le sue vicende biografiche, anche per le difficoltà tecniche dell’opera: aveva infatti cercato di modificare la posizione delle gambe di Cristo, ma a causa di una venatura nel marmo lo scultore causò una frattura all’opera, e l’episodio lo fece infuriare al punto da farlo avventare contro la Pietà prendendola a martellate. Ne risultarono scalfiti il gomito, il petto e la spalla di Gesù, oltre alla mano di Maria. E il danno fu tale che Gesù risulta oggi mutilato della gamba sinistra. Probabilmente Michelangelo l’avrebbe completamente ridotta in frantumi, se non fosse stato per l’intervento di un suo inserviente, Antonio da Casteldurante, che gli impedì ulteriori devastazioni. Antonio convinse Michelangelo a regalargli i frammenti, fece restaurare la scultura da Tiberio Calcagni (cui sono attribuite la levigatura del corpo di Cristo e il completamento della figura di Maria Maddalena) e la vendette quindi al banchiere Francesco Bandini (da cui prende il nome) per la somma di 200 scudi: Bandini la collocò nel giardino della sua villa romana di Montecavallo. La Pietà rimase nelle collezioni della famiglia Bandini per un secolo: nel 1649, gli eredi del banchiere la vendettero al cardinale Luigi Capponi, che la trasferì nel palazzo di Montecitorio a Roma, e dopo quattro anni nel Palazzo Rusticucci Accoramboni. Un ulteriore passaggio si registra il 25 luglio 1671: all’epoca Piero Capponi, pronipote di Luigi, la vendette per 300 scudi, dietro mediazione del nobile fiorentino Paolo Falconieri, a Cosimo III de’ Medici, granduca di Toscana. La Pietà Bandini rimase a Roma altri tre anni, dal momento che s’incontrarono difficoltà logistiche sul trasporto, risolte nel 1674: trasportata da Roma a Civitavecchia, fu qui imbarcata e raggiunse Livorno via mare, dopodiché affronto un altro viaggio sull’acqua, attraverso l’Arno, fino a Firenze, dove venne installata nella Basilica di San Lorenzo, dove rimase fino al 1722. Quell’anno, Cosimo III la trasferì sul retro dell’altare maggiore della Cattedrale di Firenze, dove rimase per più di duecento anni, fino cioè al 1933, quando venne spostata nella cappella di Sant’Andrea. Scampata alle distruzioni della seconda guerra mondiale (in previsione dei bombardamenti fu infatti spostata in alcuni depositi allestiti per l’occasione), fece ritorno nella cappella nel 1949 e restò qui fino al 1981, quando venne ulteriormente spostata nella sua definitiva collocazione: il Museo dell’Opera del Duomo, dove si trova ancora oggi.
Il trasferimento nelle sale del museo era dovuto a ragioni conservative e di opportunità: molti turisti si recavano infatti in Duomo appositamente per vederla e causando quindi problemi al culto (e, di contro, durante le funzioni non era possibile ammirare il capolavoro). Inoltre si pensò di spostarla nel museo per motivi di sicurezza, dal momento che il 21 maggio del 1972 si verificò il famigerato episodio del danneggiamento della Pietà vaticana, presa a martellate dal geologo László Tóth, che la prese a martellate con uno dei suoi ferri del mestiere. A partire dal 2015, a seguito dei grandi lavori di rifacimento del Museo dell’Opera del Duomo, il pubblico può osservare l’opera nella nuova sala intitolata Tribuna di Michelangelo, posta sopra un basamento che rievoca l’altare sulla quale, con tutta probabilità, doveva essere collocata.
“Il grande artista”, ha sottolineato Timothy Verdon, direttore del Museo dell’Opera del Duomo, “riassume in questo lavoro mezzo secolo di esperienza professionale. Trentenne, era stato incaricato di realizzare la tomba di papa Giulio II a Roma, a quarant’anni le sepolture dei Medici. Tra i settanta e gli ottant’anni lavorò sulla sua tomba, e per questa impresa lavorò nuovamente sul tema del suo primo capolavoro di successo, la Pietà di San Pietro, scolpita quando non aveva neanche venticinque anni. E se l’interpretazione giovanile del tema, malgrado la sua bellezza elegiaca, rimane in qualche modo su di un piano concettuale, il lavoro del Michelangelo anziano è al contrario colmo di esperienza e sofferenza”. Il grande storiografo Giorgio Vasari così parla del capolavoro tardo di Michelangelo: “non poteva lo spirito e la virtù di Michelagnolo restare senza far qualcosa, e poiché non poteva dipignere, si messe attorno a un pezzo di marmo per cavarvi drento quattro figure tonde maggiori che ’l vivo, facendo in quello Cristo morto per dilettazione e passar tempo, e come egli diceva, perché l’esercitarsi col mazzuolo lo teneva sano del corpo. Era questo Cristo come deposto di croce, sostenuto dalla Nostra Donna entrandoli sotto et aiutando con atto di forza Niccodemo fermato in piede e da una delle Marie che lo aiuta, vedendo mancato la forza nella madre, che vinta dal dolore non può reggere; né si può vedere corpo morto simile a quel di Cristo, che cascando con le membra abbandonate fa attiture tutte diferenti non solo degli altri suoi, ma di quanti se ne fecion mai: opera faticosa, rara in un sasso e veramente divina”.
Michelangelo, Pietà Bandini (1547-1555 circa; marmo di Carrara, altezza 226 cm; Firenze, Museo dell’Opera del Duomo). Ph. Credit Alena Fialová |
Il 23 novembre 2019 si apre un nuovo capitolo della storia della Pietà Bandini: la scultura dev’essere infatti sottoposta a un restauro, il cui termine è previsto per l’estate del 2020: si tratterà tuttavia di un intervento visibile al pubblico, che potrà seguire tutte le operazioni osservando i restauratori al lavoro, grazie a un cantiere aperto appositamente progettato con questo scopo, all’interno dello stesso Museo dell’Opera del Duomo. L’intervento è stato commissionato dall’Opera di Santa Maria del Fiore, ha ricevuto il finanziamento dalla Fondazione Friends of Florence, sotto la tutela della Soprintendenza Architettura, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Firenze e le province di Pistoia e Prato, ed è stato affidato a Paola Rosa, che sarà coadiuvata da un team di professionisti formatisi all’Opificio delle Pietre Dure e con alle spalle un’esperienza trentennale su opere scultoree di grandi artisti della storia dell’arte, tra i quali lo stesso Michelangelo.
Al di là dell’intervento realizzato da Tiberio Calcagni, non sappiamo di altri restauri eseguiti in epoca storica, dal momento che le fonti tacciono al riguardo. In quasi cinquecento anni di vita, nel corso di tutta la sua tormentata vicenda, si presume che la Pietà Bandini abbia conosciuto interventi di manutenzione, ma che non risultano documentati. Sappiamo solo di un calco eseguito nel 1882: la copia in gesso è oggi conservata alla Gipsoteca del Liceo Artistico di Porta Romana a Firenze. E a causa delle sostanze che sono state usate per eseguire il calco (oltre che di quelle, molto aggressive, adoperate per rimuovere i residui a operazione finita), è probabile che la superficie scultore abbia conosciuto un’alterazione delle cromie originarie. Un altro intervento certo è quello che l’opera subì dopo la guerra mondiale, tra il 1946 al 1949, quando fu sottoposta a pulitura: sappiamo che fu condotta, ma non conosciamo i risultati perché, anche in questo caso, manca la documentazione. E ancora, probabilmente in antico la scultura subì qualche danneggiamento dovuto a un intervento, se nel contratto di acquisto di Cosimo III si accenna a dei “pezzetti staccati”: si crede che l’opera abbia avuto un intervento di restauro che però non emerge dai documenti. Infine, alcune indagini svolte alla fine degli anni Novanta dall’Opificio delle Pietre Dure e dall’ENEA e pubblicate nel 2006 in un libro curato da Jack Wasserman e intitolato La Pietà di Michelangelo a Firenze, hanno dato evidenza dell’applicazione di stucco e dell’esistenza di tre sistemi di collegamento dei perni tra le parti integrate e ricomposte, il che fa supporre interventi eseguiti in tempi diverse e con diverse tecniche.
Il cantiere di restauro della Pietà Bandini. Ph. Claudio Giovannini |
Il cantiere di restauro della Pietà Bandini con le restauratrici Paola Rosa ed Emanuela Peiretti. Ph. Claudio Giovannini |
Il cantiere di restauro della Pietà Bandini con le restauratrici Paola Rosa ed Emanuela Peiretti. Ph. Claudio Giovannini |
Il cantiere di restauro della Pietà Bandini con le restauratrici Paola Rosa ed Emanuela Peiretti. Ph. Claudio Giovannini |
Il cantiere di restauro della Pietà Bandini. Ph. Claudio Giovannini |
A spiegare le ragioni del restauro è la stessa Paola Rosa in un suo scritto pubblicato ad anticipare l’intervento. La Pietà Bandini, afferma la restauratrice, “mostra tutti i segni, le cicatrici, i depositi e le patine acquisite artificialmente e naturalmente nell’arco dei suoi quasi quattrocentosettanta anni di vita. Gli eventi traumatici avvenuti al momento della sua realizzazione, le vicende collezionistiche legate ai vari passaggi di proprietà e le numerose movimentazioni che ha affrontato, ne hanno inevitabilmente segnato e compromesso la facies originaria”. L’intervento, assicura Rosa, “offrirà nuovamente un’altra importante opportunità conoscitiva. Si potrà confermare o proporre una più ampia lettura dei prodotti di alterazione e delle patine presenti sulle superfici, con ulteriori risultati oltre a quelli già conseguiti nelle precedenti indagini. Senza entrare, in questa fase progettuale, nel merito delle ipotesi che riguardano la paternità dei vari frammenti presenti sul gruppo scultoreo, ma facendo tesoro dei dati conoscitivi già acquisiti in passato, è ragionevole soffermarsi ad osservare e valutare, attraverso un attento esame autoptico, l’aspetto delle superfici e quello che ci possono raccontare. I risultati delle indagini insieme a tutti i dati raccolti con l’osservazione puntuale delle problematiche, legati sia alle condizioni conservative che alle caratteristiche di lavorazione dell’opera, saranno significativi per l’individuazione della specifica metodologia di intervento. L’approccio all’opera sarà quello di un intervento ‘minimo”, volto a non stravolgere la visione ormai consolidata nell’immaginario collettivo di una superficie ‘ambrata”. Infatti, l’immagine che si deve comunque mantenere è quella di un gruppo scultoreo non in ‘bianco e nero” ma sottilmente modulato e ‘colorato” dal variare della ‘pelle” della materia e dalle tracce di lavorazione, probabilmente già patinate in origine allo scopo di raggiungere effetti armoniosamente differenziati. Con questo intervento si vuole anche recuperare la maestosa tridimensionalità dell’opera, attualmente mortificata dalle scure patine sovrammesse, e che invece è stata valorizzata nell’allestimento museale che invita il visitatore a girarle intorno. Il criterio su cui si intende basare l’intervento di restauro è quello di rimuovere tutte le sostanze sovrapposte che interferiscono nella lettura della superficie, per spessore o per squilibrio cromatico, alleggerendo senza però eliminare del tutto le patine e le patinature con cui l’opera è arrivata a noi. Alcune patologie superficiali, che una volta venivano percepite come degradazioni e quindi totalmente rimosse dalle superfici, sono oggi ritenute alterazioni storiche dei materiali e non essendo dannose sono diventate parte integrante per la lettura dell’ opera. Quindi, alla luce di questa considerazione, quelle che potrebbero essere identificate come pellicole ad ossalato di calcio, per quanto possibile, devono essere rispettate e alleggerite con cautela. La Pietà, ormai da tempo accolta in ambiente museale, è ammirata da centinaia di migliaia di visitatori che ogni anno sostano davanti a lei divenendo così il principale fattore di degrado. Infatti, transitando in flussi massicci, le persone portano con sè notevoli quantità di polvere, di particellato atmosferico, di laniccio e, quando piove, di umidità”.
L’accumulo del particellato sulla superficie della scultura si deposita in maniera differenziata in rapporto della conformazione di quest’ultima (anche a seconda dei gradi d’inclinazione e delle tecniche di lavorazione). Non ci sono, assicura Paola Rosa, depositi di polvere vistosi e incoerenti, ma, soprattutto sul retro, la Pietà Bandini si è ingrigita a causa della polvere che si è infiltrata nella porosità del marmo e nelle scagliature, macchiando in profondità il marmo. In sostanza, guardando l’opera, si ha l’impressione di un’opera coperta e offuscata da una sottile pellicola che è però disomogenea, a causa della varietà dei sedimenti che l’hanno alterata. Il tutto contribuisce, sottolinea Paola Rosa, “ad annullare la corretta lettura dell’opera”.
“Questo evidente squilibrio cromatico, con ogni probabilità”, continua la specialista, “è la conseguenza dell’ossidazione di cere o sostanze di natura proteica ed oleosa, applicate intenzionalmente sia al momento dell’esecuzione delle integrazioni con l’intento di uniformare la cromia delle superfici, sia durante l’esecuzione di calchi o probabili manutenzioni passate, di cui però non si hanno documentazioni. Nel tempo, queste sostanze che erano inizialmente trasparenti, modificandosi a causa del loro naturale processo d’invecchiamento, hanno cambiato notevolmente l’aspetto originario del marmo, conferendogli la vistosa colorazione di tonalità ambrata che noi oggi vediamo. La formazione di pellicole ad ossalato di calcio, probabilmente presenti su parte della superficie marmorea al di sotto della patina più superficiale, ha trasformato la cromia delle superfici originarie, assumendo una tonalità più intensa e scura sui rilievi soggetti al deposito della polvere, ed una più chiara e luminosa nei solchi più profondi degli strumenti di lavorazione e sulle zone più lucide e levigate. L’impatto visivo quindi è quello di un chiaroscuro delle superfici offuscato e mortificato, forse diverso da quello pensato o voluto da Michelangelo ab origine. La ricerca ed il carattere pittorico che Michelangelo imprimeva alle sue opere, attraverso un magistrale uso degli strumenti di lavorazione nelle zone a “non–finito” e di lucidatura nelle zone portate a finitura, permettendo al marmo di assorbire e di riflettere la luce in modo differenziato, sono stati annullati dalle sostanze e dai depositi che nel tempo si sono sovrammessi sulla superficie. Oltre all’evidente colorazione ambrata, la superficie mostra schizzi, residui di inerti di varia natura e leggere incrostazioni sul bordo della base che con ogni probabilità sono i sedimenti del blocco originario di marmo lungo le facce della rottura e della lavorazione in cava. La staffa metallica visibile sulla base è stata sicuramente inserita in tempi remoti, sia perché ha un impatto invasivo sulla scultura, sia perché è presente anche nella copia realizzata in gesso nel 1882 e conservata all’Istituto d’Arte di Porta Romana di Firenze”. L’esecuzione di questo calco, come detto sopra, può aver lasciato segni sulla superficie del marmo, tra graffi e residui di sostanze adoperate nel corso delle operazioni (in parte rintracciate grazie alla campagna diagnostica degli anni Novanta. Sostanze che, solitamente, lasciano macchie e aloni irreversibili.
Problemi conservativi della Pietà Bandini: differenze cromatiche sulla mano sinistra di Nicodemo evidenziate dalla linea verticale che demarca un’area più chiara probabilmente pulita dopo il calco. Ph. Credit Alena Fialová |
Problemi conservativi della Pietà Bandini: dettaglio della parte tergale dell’opera con le differenze cromatiche molto pronunciate. Ph. Credit Alena Fialová |
Problemi conservativi della Pietà Bandini: braccio di Cristo con il vecchio gesso adoperato per le addizioni, braccio della Vergine Maria con una linea che mostra i punti dove furono usati i perni per il calco in gesso del XIX secolo. Ph. Credit Alena Fialová |
Problemi conservativi della Pietà Bandini: la figura di Cristo, levigata, che contrasta con il resto della superficie offuscata da depositi e alterazioni cromatiche. Ph. Credit Alena Fialová |
Problemi conservativi della Pietà Bandini: parte tergale dell’opera dove si era depositata della cera quando l’opera si trovava sul retro dell’altare maggiore del Duomo di Firenze. Ph. Credit Alena Fialová |
“L’operazione di calcatura”, spiega infatti Rosa, “con ogni probabilità ha imposto la necessità di eseguire una pulitura prima ed una patinatura successiva che, con il tempo, si è nuovamente alterata. Anche il calco esposto all’Istituto d’Arte mostra una colorazione giallo-scura, molto simile a quella che ritroviamo sulla superfice marmorea. Ciò fa supporre che il calco, al momento della sua realizzazione, sia stato patinato per renderlo il più somigliante possibile all’originale”. Infine, la permanenza della Pietà, per quasi un centinaio di anni, sotto una loggia nel giardino della proprietà Bandini a Roma, potrebbe aver influito sul suo stato conservativo. “Anche se protetta”, conclude Rosa, “si può ipotizzare che la scultura abbia risentito delle variazioni climatiche e dell’azione degli agenti atmosferici con la conseguente formazione di patine biologiche su parti più esposte della sua superfice. Allo stato attuale, non è possibile verificare tracce di eventuali fenomeni di attacchi biologici pregressi, a causa della presenza diffusa delle patine e dei depositi già ampiamente descritti. Nell’arco della sua esistenza, durante i numerosi passaggi di proprietà, dalle prestigiose dimore private fino all’ultima collocazione nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore e poi nel Museo, è ipotizzabile che la Pietà abbia comunque ricevuto vari interventi di manutenzione, anche se l’attuale ricerca documentaria non ne riporta traccia”.
Il restauro che partirà a novembre, in sostanza, rispetterà la visione, ormai consolidata presso il pubblico, di una superficie visibilmente “ambrata” della Pietà e rispettoso delle patine che nel tempo, con il loro processo d’invecchiamento, hanno trasformato la cromia originaria del marmo. Il restauro, la cui fase iniziale riguarderà un’ampia campagna diagnostica, ha lo scopo di migliorare la lettura dell’opera che risulta mortificata dalla presenza di depositi e sostanze estranee alle superfici marmoree del gruppo scultoreo.
Per Simona Brandolini d’Adda, presidente della Fondazione Friends of Florence che sostiene economicamente l’intervento, si tratta di “un progetto affascinante che ci porta a restaurare, a fianco dell’Opera di Santa Maria del Fiore, la Pietà Bandini, un vero capolavoro che rispecchia l’anima tormentata del grande genio michelangiolesco”.
“Le opere del nuovo Museo sono state oggetto di una vasta campagna di restauro realizzata in occasione dell’apertura al pubblico alla fine del 2015”, dichiara il Presidente dell’Opera di Santa Maria del Fiore, Luca Bagnoli, “mentre la Pietà Bandini di Michelangelo, capolavoro tra i più iconici della collezione, rimaneva ancora da restaurare. L’Opera ha deciso di avviare anche questo delicato intervento, con il supporto della Fondazione Friends of Florence, per migliorare la lettura del gruppo scultoreo e così permettere alle migliaia di visitatori, che ogni anno scelgono i nostri monumenti, di poter godere al meglio anche di questo straordinario capolavoro”.