La Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini a Roma ospita una delle nostre più ricche e interessanti collezioni di dipinti caravaggeschi, di opere, cioè, realizzate nel Seicento da artisti diversi, influenzati in vario modo dal potente e innovativo linguaggio pittorico di Michelangelo Merisi da Caravaggio (Milano, 1571 – Porto Ercole, 1610). Nello stesso museo sono inoltre conservate tre tele molto conosciute, presentate al pubblico come originali del pittore lombardo: Giuditta e Oloferne, San Francesco in meditazione e Narciso. Tuttavia, se per quanto riguarda la prima opera non sono mai esistiti dubbi consistenti circa la sua paternità, più complesse sono le vicende attributive delle altre due. In particolare, come vedremo, attorno al dipinto raffigurante l’eroe mitologico, si è sviluppato, tra gli studiosi, un dibattito estremamente articolato.
La notissima e tragica storia di Narciso, che forse più di ogni altra proveniente dal mondo antico ha segnato la nostra cultura, è riportata da autori greci e romani, tra cui Ovidio che la racconta nelle sue Metamorfosi.
Il ragazzo, figlio del fiume Cefiso e della ninfa Liriope, possiede una straordinaria bellezza che attira numerosi amanti, tutti da lui respinti. Tra questi c’è anche la ninfa Eco che, non corrisposta, si lascia consumare dal dispiacere finché di lei non resta che la voce. Interviene allora la dea Nemesi, invocata da uno degli infelici corteggiatori di Narciso, e decide di punire quest’ultimo causandogli la medesima sofferenza da lui inferta. Così un giorno, stanco dopo la caccia, in un fitto bosco, il giovane vede una fonte d’acqua cristallina e si avvicina per bere, ma “mentre cerca di soddisfare la sete, gliene cresce dentro un’altra”, scrive Ovidio. Infatti, scorta la sua immagine riflessa, se ne innamora: “s’innamora di un’illusione che non ha corpo, pensando che sia corpo quello che non è altro che onda”. Dopo aver a lungo e invano cercato di toccare la figura apparsa sulla superficie dell’acqua, Narciso comprende la sua condizione, si dispera, e alla fine muore sopraffatto dal dolore (nelle versioni greche muore suicida trafiggendosi con la spada o annegato nel tentativo di raggiungere la sua immagine). Quando le Naiadi arrivano alla fonte per compiere i riti funebri, trovano un fiore al posto del suo corpo.
Inutile dire che, nei secoli, sono state infinite le trasposizioni pittoriche del mito. La tela di Palazzo Barberini, però, presenta un’impostazione della scena del tutto originale: l’intera vicenda viene condensata nella descrizione del tentativo vano di Narciso, in abiti seicenteschi, inginocchiato e con una mano nell’acqua, di afferrare la sua immagine riflessa. Scompaiono i dettagli ai quali gli artisti precedentemente, negli stessi anni, e anche più tardi, erano ricorsi e ricorreranno per raccontare il mito. Non vediamo Eco, né i fiori che da Narciso prendono il nome, né i cervi, il cane o l’arco (attributi del giovane cacciatore) e nemmeno il lussureggiante paesaggio boschivo, che è nascosto dalla penombra, da cui emergono soltanto le due immagini del ragazzo, una sull’altra, in una costruzione ‘a carta da gioco’.
Caravaggio o Giovanni Antonio Galli detto lo Spadarino, Narciso (1597-1599 o 1645; olio su tela, 112 x 92 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini) |
Se guardiamo, ad esempio, l’affresco di medesimo soggetto realizzato da Domenichino (Domenico Zampieri; Bologna, 1581 – Napoli, 1641), oggi in Palazzo Farnese, vediamo Narciso chino sull’acqua in una posizione abbastanza simile a quella assunta dal personaggio nella tela seicentesca, ma inserito, qui, in un’ampia e luminosa ambientazione paesistica, di cui fa parte anche un palazzo cinto da mura. Tra l’altro Domenichino esegue quest’opera agli inizi del XVII secolo, a ridosso degli anni in cui il dipinto della Galleria Barberini viene collocato dalla maggioranza degli studiosi che lo riconoscono a Caravaggio, fatto che ha portato molti a ipotizzare una diretta influenza della tela sull’affresco, almeno per quanto riguarda la postura di Narciso. Influenza che è stata interpretata in senso opposto da chi, come Gianni Papi, ha proposto una datazione molto più tarda del quadro.
Un importante spunto per l’ideazione della figura di Narciso, ad ogni modo, è stato sicuramente fornito a entrambe le pitture seicentesche menzionate (così come a tante altre) dalle incisioni che corredano le numerose e molto diffuse edizioni cinquecentesche, principalmente in volgare ma anche in latino, delle Metamorfosi ovidiane. In queste incisioni il ragazzo è ritratto con le braccia aperte e le mani a terra, inginocchiato davanti allo specchio d’acqua, su cui scorgiamo il suo riflesso, esattamente come nell’affresco Farnese e nel dipinto di Palazzo Barberini. Tuttavia quasi sempre, tali illustrazioni a stampa riportano l’intera vicenda di Narciso, o comunque alcuni dei suoi momenti più importanti, con una costruzione paratattica della raffigurazione: il protagonista, cioè, viene ritratto in più istanti successivi della storia, rappresentati intorno o dietro alla sua figura piegata sull’acqua, posta nel centro. Si pensi all’incisione che decora il testo del 1505 Metamorphoseos curato dall’umanista Raffaele Regio (Bergamo, 1440 circa – Venezia, 1520), in cui un ignoto artista ha strutturato la sua elaborazione grafica del mito, procedendo da sinistra, dove sono Narciso ed Eco a lui avvinghiata, a destra, dove si vede il corpo dell’eroe ormai morto e disteso, passando per il centro in cui è collocata la scena principale, con il giovane, in ginocchio, che contempla il suo riflesso alla fonte.
In un’altra incisione, risalente alla metà del Cinquecento e realizzata da Tommaso Barlacchi (attivo a Roma dal 1541 al 1550), invece, è raffigurato il ragazzo solo, davanti allo specchio d’acqua, con il ginocchio in piena luce e un ciuffo di capelli in evidenza, entrambi molto simili a quelli del protagonista della tela Barberini, di cui, secondo il parere di molti studiosi, questa opera grafica costituisce un modello importante.
Quindi il dipinto di Roma, sebbene inseribile in una lunga tradizione figurativa per quanto riguarda strettamente la definizione di Narciso (la sua postura, la presenza del riflesso), rappresenta un unicum, perché in esso è operata una sintesi netta e del tutto nuova, che concentra il tragico percorso del personaggio in una silente sovrapposizione di immagini in primo piano, rivelata da un lampo di luce. E proprio la portata dell’innovazione iconografica e la potenza espressiva del quadro sono sempre state tra i principali argomenti avanzati a favore della sua attribuzione a Caravaggio.
La querelle sull’identità dell’autore, che si protrae da decenni, ha avuto origine principalmente dall’assenza di fonti antiche che menzionino inequivocabilmente il dipinto in questione. Nel 1913 Roberto Longhi, lo storico dell’arte che fu il principale artefice della riscoperta del Caravaggio durante lo scorso secolo, vide il quadro a Milano nella collezione privata del collega Paolo D’Ancona e, tre anni dopo, nell’articolo Gentileschi padre e figlia lo indicò come autografo del Merisi, per poi ribadire questa convinzione più volte nel corso dei suoi studi. Longhi definì l’opera “una delle più personali invenzioni” del grande pittore, evidenziando per primo, quindi, l’importanza e l’originalità dell’intuizione che ne è alla base. Successivamente altri autorevoli studiosi, come Maurizio Marini e Rossella Vodret tornarono a insistere su questo punto. In particolare Marini, trattando dell’altra consistente ipotesi attributiva, per cui il quadro sarebbe da riconoscere a Giovanni Antonio Galli detto lo Spadarino (Roma, 1585 – 1652), affermò nel suo testo Caravaggio. Pictor Praestantissimus (sostenendolo fino all’ultima recente ristampa) che il dipinto arriva a esprimere una “lirica malinconica” lontana dallo Spadarino il quale “non ha mai raggiunto tali, leonardeschi, ‘moti dell’animo’”. Tuttavia si tratta di una conclusione che non ha trovato sempre adesione presso gli esperti. Tra chi ha dissentito c’è certamente Papi, che come vedremo più avanti è uno dei più convinti assertori, appunto, dell’assegnazione a Galli del quadro, e secondo il quale quel “senso dolente dell’esperienza umana” che emana dalla “forza conturbante dell’invenzione” è assolutamente compatibile con il linguaggio del suddetto pittore. Poco dopo la scoperta di Longhi, l’opera fu acquistata da Basile Khwoschinski, che la donò, infine, alla Galleria romana.
Domenichino, Narciso (1603-1604; affresto staccato, 143 x 267 cm; Roma, Palazzo Farnese) |
Tommaso Barlacchi, Narciso (1540-1550; incisione) |
Negli anni Settanta Marini, nella monografia Io, Michelangelo da Caravaggio riportò all’attenzione la menzione ottocentesca (di Antonino Bertolotti) di un documento risalente al 1645 con il quale si autorizzava l’esportazione da Roma a Savona di un gruppo di opere, tra cui un Narciso di Caravaggio, delle stesse dimensioni dell’opera di Palazzo Barberini.
Nel 1989 la storica dell’arte Rossella Vodret pubblicò interamente la licenza di esportazione, da lei rintracciata presso l’Archivio di Stato di Roma, su cui comparivano nome e cognome di colui che aveva spedito il quadro: “Jo.Bap.Ta Valtabel.”. Successivamente Marini lo identificò con Giovanni Battista Valdibella, membro di una famiglia di mercanti genovesi.
Mancava, e manca tuttora, la certezza che la licenza in questione si riferisse proprio al Narciso oggi conservato a Roma. Tuttavia sembrò che con la riscoperta del documento, quanto aveva sostenuto decenni prima Longhi trovasse finalmente, se non una conferma definitiva, almeno un significativo appiglio. Ed effettivamente alcuni tra i più importanti studiosi del pittore lombardo, tra cui i già citati Marini e Vodret, Mahon, Cinotti, Calvesi e Gregori (fino al 1989) negli anni, hanno sostenuto l’attribuzione di Longhi, pur senza mai poter presentare come sicura l’identificazione del dipinto citato dalla licenza di esportazione con quello esposto a Palazzo Barberini.
Alla metà degli anni Novanta Vodret, con il suo articolo Il restauro del Narciso, tentò di delineare un verosimile percorso, indipendente dalla licenza del 1645, attraverso il quale un dipinto di Caravaggio sarebbe potuto arrivare, due secoli dopo, a Paolo D’Ancona partendo da Roma. Nella sua ricostruzione la studiosa chiamò in causa il cardinale Francesco Maria Del Monte, uno dei primi e più potenti committenti del pittore lombardo. Vodret aveva appreso dalla testimonianza dei D’Ancona che alcuni degli oggetti d’arte che Paolo aveva posseduto, erano stati da lui acquisiti per eredità e provenivano da una villa in Toscana appartenuta a un prozio paterno, il banchiere fiorentino Laudadio della Ripa, il quale, nella prima metà del XIX secolo, aveva acquistato dai Giordani, nobile famiglia di Pesaro, una collezione di quadri. Questi dati diventano più interessanti, ai fini dell’approfondimento del dipinto, quando si scopre che almeno due Giordani vissuti nel Seicento, Giulio e Camillo, sono attestati aver intrattenuto rapporti stretti, appunto, con il cardinale Del Monte.
Di fatto, però, non possediamo il testamento di Laudadio della Ripa e gli inventari ottocenteschi dei Giordani non recano traccia del quadro, quindi nulla supporta concretamente l’ipotesi, comunque suggestiva, che il cardinale abbia donato la tela alla famiglia marchigiana o che ne abbia favorito in qualche modo l’acquisto, e che questa poi sia passata a Laudadio e, da lui, al pronipote.
Argomenti più concreti a supporto dell’identificazione di Caravaggio come autore del Narciso, invece, provengono dalle analisi scientifiche effettuate nei laboratori. Di nuovo Vodret riportò che, nel 1995, durante l’intervento di restauro sulla tela, danneggiata da drastiche puliture e tagliata lungo tutti e quattro i lati probabilmente per via di una rintelatura ottocentesca, le radiografie confermarono che, come è tipico delle opere di Merisi, non c’è disegno preliminare sotto la pittura.
Quella che Caravaggio non disegnasse ma dipingesse direttamente a colori è una convinzione molto diffusa tra gli studiosi (con la rilevante eccezione di Alfred Moir che riteneva la pratica del disegno indispensabile per la costruzione almeno delle opere maggiormente ricche di personaggi e di più complessa costruzione) e si fonda su quanto affermato dalle fonti contemporanee, sull’effettiva assenza, a oggi, di un’opera grafica attribuile all’artista con certezza, e sulle analisi dei dipinti. Il maestro si serviva, invece, di abbozzi definiti solo da campiture cromatiche e di incisioni. Queste ultime, tracciate con un manico di pennello o un punteruolo sulla preparazione ancora fresca, sono considerate uno dei tratti caratteristici delle realizzazioni di Caravaggio, perché riscontrate con grande frequenza nei suoi quadri. Egli le utilizzava probabilmente come riferimento per il posizionamento delle figure nella tela. Non può, quindi, non risultare interessante l’incisione (sebbene sia l’unica) la cui presenza nel Narciso venne ribadita dal restauro del 1995; essa era già stata notata e appare collocata lungo il profilo di una manica nella parte del riflesso nell’acqua. In questa zona del dipinto le indagini radiografiche hanno individuato anche dei pentimenti nella costruzione del ginocchio e in quella del profilo, che l’artista ha modificato spostandoli verso l’alto, dopo un primo intervento pittorico. L’autore, infatti, ha creato l’immagine sottostante rovesciando l’altra di 180 gradi, e successivamente è intervenuto per correggere alcuni particolari e rendere più credibile il riflesso.Un altro significativo pentimento è stato individuato nella mano a destra con la quale Narciso prova ad afferrare la sua immagine nell’acqua, che inizialmente doveva mostrarsi del tutto immersa.
Dal punto di vista stilistico, poi, due sono le caratteristiche rimarcate da pressoché tutti gli esperti che hanno abbracciato la teoria della paternità del Merisi. In primo luogo la definizione del ricamo sul corpetto di Narciso, molto simile a quella del disegno sull’abito della Maddalena nel quadro esposto presso la Galleria Doria Pamphilj, realizzato dal pittore lombardo e risalente, probabilmente, agli ultimi anni del Cinquecento. E anche il savoldismo del Narciso Barberini, ovvero il richiamo ad alcuni elementi propri del linguaggio pittorico del bresciano Giovanni Girolamo Savoldo (Brescia, 1480 circa – dopo il 1548), la cui influenza è evidente in molta della produzione pittorica iniziale di Caravaggio, ma che, comunque, non c’è ragione di credere sconosciuto agli altri protagonisti dell’ambiente romano del primo Seicento.
Caravaggio, Maddalena penitente (1597; olio su tela, 122,5 x 98,5 cm; Roma, Galleria Doria Pamphilj) |
I ricami della Maddalena e del Narciso |
Prima di introdurre le argomentazioni a sostegno di una differente attribuzione dell’opera, va accennato che Vodret, alla sua convinzione che l’autore sia effettivamente il Merisi, ha più volte affiancato quella per cui nei tratti somatici del Narciso siano da riconoscere quelli dello stesso pittore, che avrebbe quindi eseguito un autoritratto. Ovviamente questa teoria non convince gli studiosi che riconoscono il dipinto allo Spadarino.
Come già detto, l’assenza di fonti antiche certe sulla tela di Palazzo Barberini ha dato luogo a numerose speculazioni circa l’identità del suo autore che, però, per ragioni stilistiche evidenti, tutti collocano in ambito caravaggesco. Durante la sua attività, il maestro lombardo suscitò l’interesse di molti altri autori che si lasciarono ispirare dagli elementi di novità di cui era portatore suo linguaggio artistico, quali ad esempio, la pratica di dipingere dal vero, la frequente scelta in senso pauperistico per le ambientazioni e per la caratterizzazione dei personaggi, i contrasti luministici.
Non si deve pensare che Merisi ebbe allievi in senso tradizionale, eccetto Cecco e forse Bartolomeo Manfredi (non sappiamo ancora se l’omonimo personaggio citato negli atti del processo intentato a Caravaggio nel 1603, come “Bartolomeo servitore”, sia da identificare con il Manfredi oppure no). L’adesione allo stile della pittura di Caravaggio o quella tanto allo stile quanto ai contenuti, da parte di alcuni dei suoi colleghi, non aveva nulla di ufficiale. Qualcuno scelse di intraprendere questa strada per convenienza, visto il consenso ottenuto dal lombardo tra i membri dell’élite romana e non solo, altri lo fecero forse perché più profondamente colpiti dalle implicazioni di quel poderoso naturalismo.
Tra i caravaggisti della prima ora il medico, collezionista e scrittore Giulio Mancini, nel suo seicentesco “Considerazioni sulla pittura”, inserisce anche Giovanni Antonio Galli, figlio di un fabbricante di spade di origini senesi che, a differenza di molti altri, non rinunciò mai (almeno stando a quello che abbiamo di lui) a una stretta aderenza a Caravaggio, con una pittura, però, ammorbidita da una nota elegiaca, da una dolce sensualità, e come scrisse Roberto Longhi “senza intenzione di dramma, solo di sognante stupore”. Parole, queste ultime, che colpiscono ancor di più se rilette osservando il Narciso, nonostante non siano state pensate in relazione a tale dipinto (ricordiamo che lo studioso lo riteneva convintamente di Caravaggio).
Nel 1943 con l’articolo Ultimi studi su Caravaggio e la sua cerchia, appena citato, Longhi recuperò la figura dello Spadarino dal vuoto in cui era sprofondata negli anni, restituendogli un nucleo di cinque opere a partire da una serie di confronti con l’unica tela documentata come sua, quella raffigurante i Santi Valeria e Marziale, oggi conservata a Roma in San Pietro presso la Sala Capitolare. Con l’intervento citato, Longhi rivide alcune sue precedenti posizioni; prima di allora, infatti, aveva attribuito due delle cinque opere, Sant’Antonio da Padova col bambino Gesù e L’elemosina di San Tommaso da Villanova allo stesso Caravaggio, nonché lo splendido Angelo custode di Rieti ad Artemisia Gentileschi (precedentemente assegnato da Venturi al Merisi).
Giovanni Antonio Galli detto lo Spadarino, Santa Valeria dopo la decapitazione porta la propria testa a san Marziale (1629-1632; olio su tela, 320 x 186 cm; Città del Vaticano, Basilica di San Pietro, sala capitolare) |
Giovanni Antonio Galli detto lo Spadarino (?), Elemosina di san Tommaso da Villanova (1620 circa; olio su tela, 192 x 112 cm; Ancona, Pinacoteca Civica Francesco Podesti) |
Giovanni Antonio Galli detto lo Spadarino, Angelo custode (1610-1620; olio su tela, 200 x 150 cm; Rieti, chiesa di San Ruffo) |
Più di trent’anni dopo Cesare Brandi formulò, durante le sue lezioni universitarie, l’ipotesi che il Narciso fosse opera dello Spadarino, ipotesi accolta, in seguito, da autorevoli nomi come Clemente Marsicola, Giovanni Previtali e Ferdinando Bologna. A partire dal testo Una precisazione biografica e alcune integrazioni al catalogo dello Spadarino, pubblicato nel 1986, Gianni Papi, approfondì l’indirizzo di Brandi, contribuendo poi, anche successivamente, a fare luce sulla figura del pittore seicentesco.
In seguito al suo intervento, nel 1987, Elisabetta Giffi Ponzi con l’articolo Per lo Spadarino aderì alla ipotesi attributiva del collega, senza tuttavia allontanarsi troppo dall’opinione che l’ideazione dell’opera fosse al di là delle possibilità di Galli, poiché propose di leggerla come una derivazione da un originale di Caravaggio. Tuttavia gli studi successivi sul quadro hanno rilevato i pentimenti di cui si è detto, che lo rendono evidentemente una creazione originale.
Accanto a Giovanni Antonio Galli, altri sono stati gli artisti suggeriti come possibili autori della tela di palazzo Barberini. Nello scorso secolo il nome di Orazio Gentileschi, ad esempio, venne fatto da Dora Panofsky e Fritz Baumgart, mentre Bartolomeo Manfredi fu indicato da Alfred Moir. Tuttavia l’attribuzione allo Spadarino è quella che recentemente ha ottenuto il maggiore credito presso gli storici dell’arte. Partendo proprio dal documento del 1645 Papi osservò che, anche ammettendo che esso si riferisse al dipinto Barberini, si dovrebbe tener conto del fatto che alla metà del XVII secolo si tendeva ad attribuire con grande disinvoltura al Caravaggio opere che sue non erano, per interesse o semplicemente per errore.
A fornire a Papi un interessante argomento per sostenere la paternità di Spadarino della tela Barberini fu un quadro raffigurante Il battesimo di Costantino, oggi conservato a Colle Val d’Elsa, che lo studioso per primo aveva restituito a Galli (intuizione poi confermata dal ritrovamento dell’inventario dei beni del pittore al momento della sua morte, in cui figurava l’opera in questione). È infatti interessante la somiglianza del profilo dell’eroe mitologico con quello del chierico sulla destra, che guarda verso Costantino prostrato per ricevere il sacramento. Osservava Papi che, al di là del fatto che i volti sono raffigurati nella medesima posizione, i due nasi risultano sovrapponibili, la qualità cromatica dell’epidermide è simile e così la soffice consistenza dei capelli ramati; affine appare anche il trattamento pittorico. Il principale ostacolo alla teoria che Spadarino fosse ricorso allo stesso modello, ritratto in due distinte occasioni, stava nella notevole distanza cronologica tra i dipinti; quello di Colle Val d’Elsa, infatti, è collocabile poco oltre la metà del Seicento, mentre la datazione maggiormente condivisa del Narciso lo poneva agli inizi del secolo. Papi allora propose di postdatare l’esecuzione di quest’ultimo quadro intorno al 1645, supportando tale ulteriore ipotesi proprio con la licenza di esportazione quell’anno. Nel 2010, infatti, all’interno del catalogo della mostra Caravaggio e caravaggeschi a Firenze, nella scheda dedicata al dipinto che ritrae l’imperatore in atto di farsi battezzare, lo studioso ha ipotizzato che in virtù della grande richiesta di originali del pittore lombardo, lo Spadarino potrebbe aver realizzato il Narciso, per poi spacciarlo nello stesso anno a Valdibella, o chi per lui, come creazione del Merisi.
Anche nel Convito degli dèi delle Gallerie degli Uffizi, che mostra un banchetto nell’Olimpo, eseguita da Spadarino molto prima, verosimilmente agli inizi degli anni Venti, Papi riscontrò similitudini col Narciso. In primo luogo nella composizione della figura del giovane coppiere Ganimede: se la si ribalta, ponendola nella stessa posa di Narciso, si noterà che i rapporti tra testa, spalla e braccio sinistri sono uguali, così come le loro singole posizioni.
Giovanni Antonio Galli detto lo Spadarino, Battesimo di Costantino (olio su tela, 303 x 200,5 cm; Colle Val d’Elsa, Museo Civico) |
I volti del Narciso e del chierico nel Battesimo di Costantino |
Giovanni Antonio Galli detto lo Spadarino, Convito degli dèi (1620; olio su tela, 124,5 x 193,5 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi) |
È interessante che lo storico dell’arte e noto divulgatore Tomaso Montanari, che ha aderito all’attribuzione a Spadarino del Narciso, in un episodio del programma televisivo La vera natura di Caravaggio, trattando del dipinto Barberini, abbia definito impressionante e decisivo proprio il confronto tra le due figure di Narciso e Ganimede, proposto da Papi.
E anche il manto rosso sulle gambe di Giove (personaggio profondamente caravaggesco, con i capelli arruffati e il corpo descritto con vivido realismo nel suo cedimento all’età) a detta di Papi, ricorda le maniche bianche, bagnate di luce, del protagonista dell’opera romana: osserva l’autore che in entrambi i casi si nota una maniera cauta e quasi esitante di dare le pennellate.
Durante alcune analisi radiografiche eseguite sulla tela Barberini agli inizi degli anni Novanta (quindi prima del restauro del 1995) l’esperto Thomas M. Schneider, studiando la generale stesura del colore nel dipinto, aveva individuato un modus operandi a suo avviso diverso da quello solito del Merisi. Aveva dunque concluso: “Per realizzare una costruzione come questa l’intervento del Caravaggio si manifesterebbe con più veemenza e, nonostante i suoi caratteristici spostamenti e cambiamenti, con più chiarezza”, come riportò nella scheda tecnica inserita nel catalogo curato da Mina Gregori, Michelangelo Merisi da Caravaggio. Come nascono i capolavori che corredava l’omonima mostra tenutasi tra il 1991 e il 1992, volta a diffondere le conoscenze acquisite tramite le analisi di laboratorio promosse dalla Fondazione Longhi sulle tele del Merisi, e durante la quale il nostro quadro fu esposto come di Spadarino.
Tuttavia, riguardo al particolare delle maniche, Vodret, che pure aveva rilevato la distanza di questa esecuzione “caratterizzata dal particolare modo di rendere il panneggio con pieghe rigide e profonde e con le pennellate fitte e brevi per rendere l’effetto di raso sgualcito” dal tratto solitamente lungo e sottile nei panneggi di Merisi, rimarcò che un intervento pittorico simile è visibile anche nelle sue opere giovanili più influenzate dagli esempi lombardi e, in particolare, nella Vocazione di San Matteo, nella descrizione degli abiti del personaggio di spalle e di quello che siede davanti al santo.
Infine, anche Ferdinando Bologna nel suo L’incredulità di Caravaggio e l’esperienza delle cose naturali, nell’accogliere il nome di Galli come autore della tela Barberini, accennava a una possibile vicinanza: quella tra gli scintillii sulla manica del giovane riflessa nell’acqua e lo stesso dettaglio nel panno del Sant’Antonio, altra opera del pittore.
È importare, comunque, ricordare che nel discorso di coloro che assegnano il celebre dipinto romano a Spadarino, rimangono centrali, oltre alle osservazioni stilistiche, quelle concernenti il carattere: il grande talento del pittore nell’ideare personaggi veri, umani (che a detta di Papi solo in Caravaggio si ritrova a simili livelli) e quell’intonazione morbida, delicata e intima della narrazione che è propria di molte delle sue opere, si pensi al già menzionato Angelo custode di Rieti, alla Santa Francesca Romana della BNL, alla Carità di Sant’Omobono nell’omonima chiesa romana, per nominarne alcuni.
In conclusione, il dibattito che è sorto intorno al quadro difficilmente condurrà a una soluzione del dilemma condivisa da tutti, ma ha certamente avuto il merito di stimolare l’approfondimento dell’opera e quello di un artista, Spadarino, ancora poco conosciuto, eppure decisamente affascinante. Se poi l’intricata vicenda attributiva del capolavoro di Palazzo Barberini, che coinvolge il pittore, contribuisse anche ad alimentare la curiosità nei confronti di quest’ultimo da parte del grande pubblico, essa avrebbe già ottenuto un importante risultato.
Caravaggio, Vocazione di san Matteo (1599-1600; olio su tela, 322 x 340 cm; Roma, San Luigi dei Francesi, Cappella Contarelli) |
Giovanni Antonio Galli detto lo Spadarino, Santa Francesca Romana e l’angelo (primo quarto del XVI secolo; olio su tela, 42,5 x 69,7 cm; Roma, Collezione BNL) |