Il quadro più famoso del mondo è la Gioconda, eppure nessuno lo ha visto davvero (fig. 1). Nel senso che nessuno lo ha visto per come è sotto lo spessissimo strato di sporco e vernici ossidate che lo ricopre. Ora come ora la pelle della donna ha una coloritura ambrata, come se fosse stata integralmente truccata con un pesante fondotinta; il cielo è verde, al pari dei monti in lontananza; tutto è cristallizzato in un bozzolo cromatico che non corrisponde all’impostazione originale. Se non si trattasse della Gioconda, il dipinto sarebbe stato restaurato da tempo, anche perché siamo in grado di sapere quasi esattamente come si presenterebbe qualora si operasse una pulitura accorta. Da qualche anno, infatti, nei depositi del Prado a Madrid è riemersa una copia realizzata all’interno della bottega di Leonardo che mostra la Gioconda con colori diversissimi: la carnagione è chiara, il cielo azzurro, le maniche rosse e non marroni… (fig. 2) In più, grazie alle sofisticate tecniche diagnostiche non invasive di cui oggi si dispone, le informazioni sullo stato conservativo del quadro parigino sono tante e tali che si andrebbe sul sicuro. Perché dunque la Gioconda continua a rimanere nell’aspetto che il tempo e gli antichi restauratori le hanno conferito? La ragione è molto semplice. Perché, in caso di restauro, perderemmo l’immagine del quadro così come lo conosciamo ora: appunto l’“icona”. Insomma, succederebbe quello che è capitato a seguito del restauro degli affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina. Impeccabilmente ripuliti da Gianluigi Colalucci e dalla sua équipe nel corso di un intervento durato vari anni, riapparvero come Michelangelo li aveva concepiti (freschi, chiari, brillanti, plastici) ma molto diversamente da come eravamo stati abituati a conoscerli: ossia, come diceva Federico Zeri, color caffè latte. Ne sortirono polemiche a non finire, con esperti anche importanti che gridarono al disastro annunciato, allo scempio irrisarcibile. Grazie a tali invettive questi esperti coagularono schiere di seguaci iperortodossi scatenati nel dichiarare assurdità. Immaginando tutto ciò, i vari direttori del Louvre fino ad ora succedutisi non hanno ritenuto di distruggere l’“icona” e di esporsi a polemiche che nel caso della “Gioconda” sarebbero ancor più furiose.
1. Leonardo da Vinci, La Gioconda (olio su tavola, 77 x 53 cm; Parigi, Louvre) |
2. Bottega di Leonardo, Copia della Gioconda (olio su tavola, 76,3 x 57 cm; Madrid, Prado) |
Diversamente hanno ragionato coloro che si sono presi la responsabilità di far pulire quello che è un capolavoro non meno affascinante e importante della Monna Lisa di Leonardo: ossia la cosiddetta Vecchia di Giorgione alle Gallerie dell’Accademia di Venezia (fig. 3). Dopo decenni di studi e analisi, il dipinto nel 2018 è stato restaurato da Giulio Bono, con la consulenza di un comitato di specialisti che ha affiancato le operazioni di verifica storica, pulitura, reintegrazione pittorica e riverniciatura. Il risultato (ai miei occhi impeccabile) è stato presentato il 24 settembre alle Gallerie dell’Accademia dal direttore del Museo, Giulio Manieri Elia, e dallo stesso Giulio Bono. La conferenza ha aperto un ciclo di incontri di approfondimento sul dipinto che vedrà in ottobre gli interventi di chi scrive (l’8: sul soggetto), di Bernard Aikema (il 29: sulle interpretazioni contrastanti) e in novembre quelli di Linda Borean (il 12: sulla vicenda collezionistica) e infine di Janyie Anderson (il 19: su attribuzione e provenienza). Si tratta di un’occasione in cui gli appassionati potranno essere informati sulla storia del dipinto, sulle certezze di cui disponiamo e sulle ipotesi avanzate e che si possono avanzare. Ma a questo punto la base di riflessione è mutata: il quadro è sensibilmente diverso da come appariva in precedenza, quando era offuscato da vernici ossidatissime, sporcizie e vecchi restauri. L’aspetto più paradossale è che ora la Vecchia è un po’ meno vecchia, nel senso che nel corso della pulitura sono stati opportunamente rimossi tutti quei ritocchi che, per ragioni puramente ‘estetiche’, avevano voluto accentuare l’età della donna, che appariva sporca (l’incarnato era di un improbabilissimo color tabacco) e rugosa (una ‘Vecchia’ non può che essere tale) (figg. 4-5). Bastava però guardare il giallognolo della cuffia e del tessuto che le copre la spalla per capire che il tono originario non poteva che essere molto diverso, ossia bianco.
3. Giorgione, La Vecchia, prima del restauro (dipinto su tela, cm 68,4 x 59,5; Venezia, Gallerie dell’Accademia). Archivio fotografico GAve - su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, Museo Nazionale Gallerie dell’Accademia di Venezia. Ph. Matteo De Fina |
4. Giorgione, La Vecchia, macrofotografie degli occhi nel visibile |
5. Giorgione, La Vecchia, macrofotografie degli occhi in UV |
Ora quella che sembrava la premonizione di un personaggio caravaggesco si presenta come una creatura dell’umanesimo veneziano di cui Giorgione fu espressione (fig. 6). È una donna descritta con una gamma cromatica analoga a quella dell’ultimo Giovanni Bellini e del primo Tiziano, dei quali Giorgione fu una sorta di trait d’union. Variabilmente datato dalla critica, il dipinto pare ora ben collocabile entro il primo lustro del secolo e si lega perfettamente ai due soli altri ritratti certi del maestro di Castelfranco, successivi: la cosiddetta Laura del Kunsthistorisches Museum di Vienna e il magnetico Uomo del Museo di San Diego. Il risultato dell’intervento legittima così la piena e definitiva riabilitazione di opere sulle quali non pochi studiosi hanno manifestato dubbi in merito alla paternità giorgionesca, a partire dai Due amici del Museo di Palazzo Venezia a Roma (figg. 7-8).
Ma chi era questa donna, oggetto di un ritratto così spietato e crudele, tanto risulta ostentatamente trascurata? Il carattere estremamente realistico dell’interpretazione esclude che si tratti di una allegoria pura, nonostante il cartiglio con la scritta COL TEMPO tenda a trasformarla in una sorta di emblema della perdita della giovinezza, cui ella pare rispondere manifestandosi, umilmente, per come è. Una risposta era stata offerta nei primi inventari che segnalano il dipinto nella collezione Vendramin a Venezia: la “Madre di Zorzon di man di Zorzon”. Così fosse, grazie alle ricerche di Giacinto Cecchetto, saremmo in grado perfino di darle un nome: Altadona di ser Francesco da Campolongo di Conegliano, vedova del notaio Giovanni di Gaspare Barbarella da Castelfranco. E non solo le daremmo un nome: si dispone infatti di un certo numero di documenti d’archivio grazie ai quali si può anche tracciare un abbozzo di biografia. In una prospettiva di questo genere, si spalancano suggestioni e ipotesi: chi poteva esserne il primo proprietario, se non lo stesso artista? Come entrò nella collezione di Gabriele Vendramin, che possedeva pure la Tempesta? E quando? Chi la vide nel ‘500 e nel ‘600? Com’è possibile che anticipasse così clamorosamente certe interpretazioni di Caravaggio e dei suoi seguaci, nonché di Rembrandt, che pure ritrasse più volte sua madre? Per chi vuole saperne di più, le conferenze delle Gallerie dell’Accademia sono aperte al pubblico, previa prenotazione.
6. Giorgione, La Vecchia, dopo il restauro |
7. Giorgione, La Vecchia, dopo il restauro, dettaglio del volto della donna |
8. Giorgione, Due amici, dettaglio del volto del giovane in secondo piano (olio su tela, 80 x 75 cm; Roma, Museo Nazionale di Palazzo Venezia) |