Volge al termine il mandato del direttore della Galleria Nazionale delle Marche di Urbino e del Polo Museale delle Marche, Peter Aufreiter (Linz, 1974). Austriaco, storico dell’arte, Aufreiter è uno dei direttori stranieri dei musei autonomi entrati nei ranghi del ministero nel 2015, agli albori della riforma Franceschini: prima di arrivare a Urbino, Aufreiter è stato, fino al 2015, vicedirettore del Belvedere di Vienna (dove ha diretto il dipartimento mostre, il dipartimento prestiti e il dipartimento depositi) e prima ancora, dal 2005 al 2008, è stato il responsabile delle mostre presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna. Già a giugno, Aufreiter aveva dichiarato che al termine del proprio mandato avrebbe lasciato l’Italia. Lo abbiamo raggiunto per farci raccontare che cosa è stato fatto in questi quattro anni al Palazzo Ducale di Urbino (sede della Galleria Nazionale) e presso i musei del polo, quali sono i motivi che lo hanno portato a dare l’addio all’Italia e quali sono secondo lui le criticità dei nostri musei statali. L’intervista è a cura di Federico Giannini, direttore responsabile di Finestre sull’Arte.
Peter Aufreiter |
FG. Direttore, sta per concludersi il Suo mandato quadriennale alla Galleria Nazionale delle Marche di Urbino. Può tracciare un bilancio di quanto è stato fatto in questi anni?
PA. Quando arrivai a Urbino, con i musei che erano appena stati separati dalle soprintendenze e con la riforma del ministero che era appena cominciata, nessuno, tra me e i colleghi che erano stati scelti per dirigere gli altri musei, sapeva bene come agire, e le risorse non erano ancora disponibili: io, per esempio, ho cominciato il mio mandato il 1° dicembre del 2015 (altri anche il 1° di ottobre o il 1° novembre) e ho avuto il primo bilancio nell’aprile dell’anno successivo, motivo per cui abbiamo passato metà anno senza avere fondi da spendere. Nel frattempo abbiamo provato a lavorare sul personale, che in pratica andava costruito, perché quando siamo arrivati non c’erano, per esempio, un responsabile per il marketing, o per la comunicazione, o per gli eventi. Io però ho avuto la fortuna di vedermi assegnato l’ex ufficio del soprintendente, che aveva sede a Urbino (e dopo la riforma è stato spostato ad Ancona), così quello che era il suo staff è stato a mia disposizione e mi ha offerto il suo aiuto. Abbiamo cominciato subito dalle analisi: una delle prime cose che abbiamo fatto è stata l’avvio di una collaborazione con l’Università di Urbino per condurre indagini sui flussi turistici, in modo da capire la provenienza dei nostri visitatori, il numero di giorni da loro trascorsi a Urbino, se si trattava di visitatori che arrivavano per la prima volta a Urbino o no, e tutto questo ci ha fatto capire in modo molto preciso come agire. Ora, chiaramente io posso parlare solo per il mio caso, perché bisogna premettere che Urbino è un luogo molto particolare, nel senso che non ci sono treni o autostrade che arrivano fin qua, quindi non ci si passa per caso: a Urbino si deve voler andare. Poi, Urbino ha quattordicimila abitanti e non ha certo il potenziale di città come Milano, Roma o Firenze, ma abbiamo la fortuna di avere vicina la riviera romagnola e città come Rimini, Pesaro, Fano, Riccione e Cattolica a mezz’ora di distanza, il che, soprattutto nei mesi estivi, ci rende più facile il lavoro. Grazie all’indagine preliminare che abbiamo condotto sui flussi, abbiamo capito che due terzi dei turisti che arrivano a Urbino non entrano a Palazzo Ducale e abbiamo capito che l’80% vengono per passaparola, e grazie a queste informazioni di base abbiamo impostato la nostra strategia e le nostre azioni di marketing. Per il pubblico locale abbiamo lavorato soprattutto sugli eventi: abbiamo organizzato, per esempio, rappresentazioni teatrali, concerti, degustazioni di vino, cene e molto altro. Il pubblico di Palazzo Ducale, in questi anni, ha poi visitato il museo in occasione delle mostre (ne abbiamo organizzate circa venti, incluse quelle di arte contemporanea), del festival del teatro, del presepe vivente che allestiamo ogni anno. Abbiamo anche organizzato feste di laurea e feste di compleanno che includevano la visita a Palazzo Ducale. L’intento è quello di legare un’esperienza alla visita al museo, perché ci siamo resi conto che, qui, il museo, per molti visitatori, doveva essere combinato con qualcosa in più. Queste iniziative, che abbiamo cercato di rendere sempre attraenti per il territorio, hanno funzionato molto bene. È importante (e, aggiungo, non solo per gli abitanti: anche per i turisti) che al museo ci sia sempre qualcosa di nuovo. Questa strategia ha funzionato: dal 2014, ultimo anno prima della riforma che ha dato l’autonomia alla Galleria Nazionale delle Marche, il pubblico è aumentato di circa il 20% e gli introiti sono stati raddoppiati. In breve, il fine principale della mia strategia è stato quello di collegare il Palazzo Ducale e l’arte rinascimentale agli eventi: basandoci su questa strategia abbiamo poi impostato anche la comunicazione. Per entrare a regime ci sono voluti un paio d’anni, dopodiché anche gli abitanti hanno capito che al museo c’è sempre qualche novità. Tra i risultati importanti che abbiamo raggiunto vorrei poi citare l’apertura di alcuni ambienti di Palazzo Ducale che non erano visitabili (come uno dei torricini, che non era agibile, e l’abbiamo messo in sicurezza: questo ci ha garantito un grande successo), e il fatto che siamo riusciti a motivare il personale, che si è identificato in questo nuovo corso. Abbiamo poi lavorato a lungo sulla didattica: buona parte dei nostri visitatori (circa settanta-ottanta mila) è costituita dai ragazzi. All’inizio, quando sono arrivato, non c’erano neppure i soldi per comperare la carta per fare qualcosa con i ragazzi e i bambini. Faccio un esempio: il primo anno abbiamo ideato un progetto per la festa della mamma, e volevamo far realizzare ai bambini dei quadri (con tanto di cornice) da donare alle loro mamme. Lo staff del museo aveva apprezzato l’idea ma avevamo il problema che... mancavano le forbici. Insomma, c’erano davvero dei problemi basilari. Ora con quello che abbiamo guadagnato grazie al maggior afflusso di visitatori ci siamo potuti anche permettere di investire nella didattica acquistando materiale (anche tecnologico).
Il bilancio dunque è positivo.
Secondo me il grande cambiamento introdotto dalla riforma Franceschini è stata la possibilità di far rimanere nei musei i soldi che i musei guadagnano, tolto il 20% che va al fondo di solidarietà. Questo ti permette di lavorare sapendo che più si è bravi, più i visitatori crescono, e più fondi si hanno per comperare opere d’arte, per i restauri, per fare altre iniziative. Se si ha successo si può investire di nuovo per il prossimo anno: in questo senso l’autonomia è stata molto apprezzata. Ora, qui a Urbino tutti sperano che le cose proseguano con lo stesso spirito: in questi anni si è proprio vista la felicità dei visitatori e della città. I visitatori poi tornano: abbiamo anche attivato un biglietto annuale che si vende molto bene, perché le persone vogliono venire più volte l’anno a Palazzo Ducale, e il pubblico è contento quando visita il Palazzo, ma non solo: tanti consigliano il Palazzo agli amici e ai turisti. E questo è esattamente quello che volevo. Il bilancio quindi, da questo punto di vista, è molto positivo, perché la strategia che abbiamo elaborato dopo aver condotto le nostre analisi sta funzionando molto bene. Adesso ci aspetta una sfida importante, l’anno di Raffaello: il 3 ottobre inaugureremo la mostra Raffaello e gli amici di Urbino, che dura fino al 19 gennaio. L’abbiamo fatta cominciare nel 2019 perché sapevamo già che per il 2020, l’anno del cinquecentenario della scomparsa dell’artista, sarebbe stato impossibile ottenere prestiti di opere di Raffaello. Nell’anno sono poi programmati altri eventi che spero il mio successore raccolga e realizzi al meglio.
Sui musei del Polo Museale Regionale come avete lavorato, tenendo anche conto del fatto che il territorio delle Marche è molto particolare?
Il Polo ha avuto molte più difficoltà, perché non aveva personale: c’erano solo i custodi, e non c’era nessuno negli uffici. Con il tempo, soprattutto grazie al concorso del 2016, sono arrivati architetti, addetti al marketing, personale per la comunicazione, archeologi. C’è però un problema che ci ha accompagnati fin dal primo giorno: sono sempre mancati gli amministrativi. Mancano cioè le persone che pagano le fatture, che preparano le carte per i progetti, per le gare, per i nuovi allestimenti. Per cui, in quest’ambito, devo sempre collaborare con la soprintendenza e con il segretariato regionale. E questo certamente frena un po’ le attività. Poi, la situazione varia di museo in museo: la Rocca di Gradara, per esempio, non ha mai avuto grandi problemi trovandosi in una destinazione molto attrattiva per il turismo, e lo stesso vale per la Rocca Roveresca di Senigallia. Diverso è invece per i sei musei archeologici, che hanno un grandissimo potenziale e nei quali abbiamo organizzato diverse iniziative, anche se in questo caso non siamo arrivati al punto a cui mi sarebbe piaciuto arrivare, soprattutto per il fatto che il Polo non gode delle risorse di cui gode la Galleria Nazionale. Io ho però trovo che sia un vantaggio dirigere sia la Galleria sia il Polo, nonostante tutti i problemi: perché si attiva un forte rapporto con il territorio, che è importante per tutti i musei, inclusa la Galleria Nazionale. Sono sempre stato invitato da sindaci, associazioni, altri musei del territorio in qualità di direttore del Polo, e questo mi ha permesso di conoscere a fondo tutte le Marche: conoscere il territorio e la sua cultura permette anche di attivare collaborazioni importanti. C’è da dire che spesso ho collaborato... con me stesso, ovvero attivando collaborazioni tra Galleria e Polo (per esempio è stato siglato un accordo in base al quale la Galleria Nazionale ospita alcune opere dei musei del Polo che vengono restaurate, così Urbino, attirando più pubblico, con più risorse può investire di più sul territorio). Per me si è trattato di molto più lavoro ma l’ho trovato un vantaggio.
Lei è diventato direttore a seguito della riforma avviata tra il 2014 e il 2015 dal ministro Franceschini: qual è il Suo giudizio sulla riforma?
La riforma Franceschini era un inizio. Quando Franceschini era ministro ci ha detto espressamente: “io inizio questo percorso, io do la possibilità di riformare, ma a riformare davvero i musei dovete essere voi direttori”. Il punto è però che noi non abbiamo potuto davvero riformare completamente i musei, perché a mio avviso quello che davvero ci manca è la flessibilità: non possiamo scegliere il personale. Faccio un esempio: in tre dei sei musei archeologici del Polo Museale (Ascoli Piceno, Numana e Ancona) stiamo rifacendo la sezione romana. Una volta conclusa questa fase non ci servirà più un esperto di arte romana: forse ci servirà un esperto specializzato sui piceni, sugli etruschi o sui greci, e magari l’esperto di arte romana potrà andare ad aiutare un altro museo in un’altra regione. Invece adesso non funziona così: io ho diritto ad avere tre archeologi, che entrano per concorso attraverso un sistema di punteggi che li colloca in una graduatoria. Ma con questo sistema potrebbe arrivarci, per esempio, un esperto di arte ellenistica anche se noi non abbiamo nessun oggetto di epoca ellenistica, col risultato che lui sta qui in ufficio a prepararsi sulla cultura picena, che magari non conosce, e per evitare di perdere tempo io devo rivolgermi a un esperto esterno (per esempio un docente universitario) che capisca subito la situazione. Così succede che lo Stato si ritrova a pagare due stipendi, ovvero quello della persona che non è quella giusta per noi, e quello del collaboratore esterno che ha conoscenze in materia e ci cura il progetto dell’allestimento espositivo. Lo stesso vale per i restauratori: ci sono stati inviati restauratori specializzati in tela e legno per i musei di archeologia, dove non abbiamo nessuna tela e nessun legno. E ho anche sentito che nel Meridione sono stati mandati tre restauratori specializzati in restauro della pietra in un museo dove non c’era nessun oggetto in pietra. Queste sono ancora le assurdità del sistema dei musei statali italiano: capisco che è difficile risolverle perché esiste un sistema basato sui concorsi e sui punteggi, però occorrerebbe un po’ di libertà in più. Ribadisco: non ho sempre bisogno di un esperto di arte romana, ma potrei avere bisogno per un periodo limitato nel tempo di un esperto di arte romana. Questo però in Italia non è possibile, perché manca la flessibilità. Faccio un paragone con l’Austria: a Vienna, al Belvedere, nell’ufficio che si occupava del turismo avevo un ragazzo che era un grande esperto dei flussi turistici in arrivo dalla Russia (a Vienna ci sono tanti turisti russi). Con la crisi russo-ucraina il turismo russo è crollato completamente: per due anni a Vienna non ci sono più stati turisti russi (poi sono tornati, ma per un paio d’anni il flusso si è praticamente arrestato). E in quel frangente avevamo licenziato l’esperto, perché non ci serviva più una figura specializzata sul turismo russo nel momento in cui non c’era più un turismo proveniente dalla Russia. Abbiamo invece assunto un esperto di turismo cinese, perché c’era l’esigenza di specializzarsi su quel mercato. In Italia sarebbe invece accaduto che l’esperto di turismo russo avrebbe dovuto diventare, dall’oggi al domani, esperto di turismo cinese. In questo caso il museo dovrebbe funzionare come un’azienda privata: se non c’è più un certo tipo di clientela, non ho più bisogno dell’esperto che è specializzato su quel tipo di clientela. Lo so che chiedo cose che sono molto difficili per la pubblica amministrazione italiana, ma se l’Italia vuole mettersi in prima fila nel contesto internazionale dovrebbe avere più flessibilità. Questo è un punto che neanche la riforma Franceschini è riuscita a risolvere. Di positivo però c’è il fatto che i soldi rimangono al museo, cosa molto importante, perché con il nostro bilancio possiamo decidere di comprare un’opera d’arte, fare un restauro, fare una mostra, fare un festival del teatro, e questo è già un enorme passo in avanti, che addirittura forse non ci si aspettava dall’Italia.
I cambiamenti della riforma Franceschini rischiano di prendere un altro indirizzo a seguito della riforma Bonisoli, anche se ora è tutto incerto dal momento che i decreti attuativi sono stati congelati. Ad ogni modo sarebbe interessante conoscere qual è il Suo giudizio sulla riforma Bonisoli.
Con la riforma Bonisoli secondo me ritorneremmo al centralismo, con Roma che vuole decidere sui prestiti, sugli acquisti, sulle gare e sugli appalti, con l’abolizione dei consigli d’amministrazione, misura, quest’ultima, che renderebbe i musei più legati al ministero. Certo, rispetto a quella di Franceschini è un’altra strategia, ed è il ministro che decide la propria strategia. Io ho deciso di andare via perché non mi trovavo più bene con la strategia del ministro. Certo, non è detto che quello che voleva Bonisoli non possa funzionare, ma ci vorrebbe a Roma un ufficio enorme, che risolva i problemi di tutti i musei. Il punto però è che il ministero non è preparato per una situazione di questo tipo. Se la riforma Bonisoli fosse andata avanti, forse i musei si sarebbero fermati per un paio d’anni, a causa del lavoro che ci sarebbe stato da fare per far funzionare il nuovo sistema. Ripeto: è giusto che ogni ministro abbia la sua strategia e io, come piccolo direttore, devo decidere se mi trovo o non mi trovo. Adesso che è tornato Franceschini spero che si vada avanti con la sua riforma, anche se devo dire che nella riforma Bonisoli non era tutto negativo. Per esempio, nel mio caso, nelle Marche, Bonisoli aveva voluto costituire i Musei Nazionali delle Marche, riunendo quindi tutti i musei in un unico soggetto, come fossero tutte parti di un’unica azienda. Questo sarebbe stato un grande vantaggio, per il fatto che io adesso sono direttore di due aziende diverse, e anche dal punto di vista del personale adesso, per esempio, io ho un architetto per il Polo e non per la galleria. Poi, certo, bisogna vedere cosa comporta l’accorpamento tra Galleria e Polo per il futuro del personale, del bilancio e di altri aspetti gestionali, però in generale l’idea di unire Galleria e Polo mi è sembrata molto positiva. È molto più grave questo centralismo: io spero che con Franceschini si torni ad avere più autonomia possibile, e spero che si risolvano anche i problemi che mai sono stati risolti (come la flessibilità del personale). Sarei molto contento per le Marche e per l’Italia se si continuasse sulla strada che è cominciata quando sono arrivato.
Un altro passaggio importante della riforma Bonisoli (anche se poi bisognerà vedere come cambierà, dato che Franceschini, come detto, ha bloccato per il momento i suoi provvedimenti), contestato da molti, è stato l’intento di abolire i consigli d’amministrazione. Sarebbe interessante capire qual era l’aiuto che vi dava il consiglio di amministrazione e perché è ritenuto così importante dai direttori...
Era importantissimo. All’interno del mio consiglio di amministrazione io avevo, per esempio, un importante avvocato, il professor Cesare San Mauro, che mi ha dato molti suggerimenti quando si sono verificate situazioni di carenza di personale, e ancora avevo l’ingegner Giovanni Castellucci, amministratore delegato di Autostrade per l’Italia s.p.a., che dopo i fatti di Genova non ha avuto più tanto tempo per noi, ma prima ci ha sempre offerto un grande aiuto. Per me il consiglio di amministrazione non è un organo di controllo (lo è semmai il collegio dei revisori), ma è un consiglio nel vero senso della parola, composto da imprenditori di livello regionale e nazionale che non solo sostengono il museo ma fanno anche circolare il suo nome e portano personalità di alto livello a visitarlo, e questo è un punto molto importante. E poi, il confrontarsi con qualcuno che abbia esperienza amministrativa è un vantaggio enorme: si pensi solo alla possibilità di chiedere a un avvocato famoso come consiglia di comportarsi in una certa situazione. Il consiglio d’amministrazione mi ha davvero aiutato moltissimo. Forse non è necessario per la burocrazia, perché si può vivere benissimo senza la firma del consiglio d’amministrazione sul bilancio: non è questo il punto. Ma è necessario per l’aiuto che fornisce e per la sua grande utilità.
Molti suoi colleghi stranieri spesso hanno lamentato il fatto che in Italia i musei sono soffocati dalla burocrazia. Che cos’è che secondo Lei non funziona nel sistema musei del nostro paese nei piccoli problemi del quotidiano?
Il problema non è tanto la burocrazia in sé: in Italia la burocrazia è sì tantissima, ma ogni cosa è nata con una sua ragione, per risolvere un certo problema. Il vero problema dell’Italia (e che non esiste, per esempio, in paesi come la Francia, la Germania, l’Austria) è che si cambia in continuazione: quasi ogni giorno c’è una nuova circolare, una nuova normativa, una nuova regola. E questo è ingestibile. Il codice degli appalti, per esempio, è cambiato tre volte negli ultimi due anni. La situazione è grave, anche perché tocca tener conto del fatto che in Italia ci sono quasi cinquecento musei statali, e se cambia qualcosa a livello burocratico le conseguenze riguardano quasi cinquecento musei che perdono tanto tempo (e quindi tanto lavoro utile) per comprendere le novità burocratiche. Poi magari succede che quando si è appena finito di capire una normativa, ne arriva un’altra nuova. La burocrazia di per sé non è un problema: nei nostri uffici ci sono persone che lavorano da trent’anni con la burocrazia italiana, la conoscono bene e sanno come comportarsi, ma il problema è che anche loro devono prima discutere perché hanno sentito che forse uscirà un nuovo regolamento, e poi devono lavorare in continuazione per recepire i cambiamenti e per aggiornarsi. Questo penso sia il problema che ci frena di più: se io voglio avviare un progetto mi devo rivolgere ai miei amministrativi, che mi fermano perché, per esempio, vedono che da tre mesi è uscito un nuovo regolamento che devono studiare bene. È qui che si perde molto tempo.
Ci piacerebbe comunque conoscere meglio quali sono, in questo senso, le differenze tra l’Italia e l’estero (nel Suo caso l’Austria, tenendo comunque conto del fatto che le proporzioni dei due paesi e dei rispettivi sistemi museali sono molto diverse), ovvero dal punto di vista della burocrazia e del funzionamento amministrativo e in generale pratico, che cos’è che c’è in Italia che all’estero manca, o viceversa...
Certo, in Austria non ci sono quasi cinquecento musei statali come in Italia: lì i musei sono quasi tutti regionali, e i musei statali sono soltanto sette (sono quelli più grandi e si trovano tutti a Vienna). In Austria l’ultima riforma c’è stata vent’anni fa: fu una riforma parziale, e dopo qualche anno si vide che funzionava, che i musei avevano più soldi, trovavano più sponsor, e di conseguenza la riforma è stata completata e ai musei è stata garantita l’autonomia totale (sono stati trasformati in fondazioni e il direttore può decidere sulle assunzioni del personale, come accade in un’azienda privata). La differenza principale con l’Austria è che in Austria a nessun politico, di nessun partito, verrebbe in mente di fare cambiamenti così importanti in così poco tempo: non esiste che un ministro faccia qualcosa solo per lasciare la sua impronta. Le cose che non funzionano, certo, vanno migliorate, ma non bisogna cambiare tutto solo perché il ministro precedente era di un altro colore. La mia esperienza in Austria è che lì il mercato e il turismo si autoregolano: non ci vuole molta influenza da parte del ministero. Poi, in Austria non è mai successo che il ministero mi dicesse quali opere potessi o non potessi prestare a un altro museo. In Italia occorre che il ministero lasci più libertà ai direttori: poi, se il direttore non ha successo verrà cambiato. Ma non ci si può intromettere nei dettagli della programmazione, come è successo al mio collega Peter Assmann al Palazzo Ducale di Mantova, quando il ministro Bonisoli ha espresso il suo giudizio sulla mostra di Nitsch: non può essere il ministro a stabilire se una mostra si deve fare o no. La differenza è che negli altri paesi si sceglie un direttore che ha una sua linea, e se poi non va bene viene cambiato, ma non ci si deve intromettere nei prestiti, nelle mostre, nelle azioni del singolo museo. Certo è facile da dire (e mi rendo anche conto di dirlo da straniero: magari invece per un italiano è normale attaccare un ministro perché non si intromette abbastanza nella vita dei musei), ma è anche vero che in Italia l’arte e la cultura hanno una posizione molto più importante di quella che viene loro riconosciuta in Germania o in Austria. Faccio un esempio: l’anno scorso, a Pasquetta, il Palazzo Ducale di Mantova chiuse per mancanza di personale. Quasi due anni dopo ci si ricorda ancora molto bene di questo fatto. Se a Vienna l’Albertina chiudesse per Pasquetta, probabilmente la cosa non interesserebbe a nessuno: i visitatori magari penserebbero che quelli dell’Albertina sono stupidi perché perdono introiti, ma non darebbero al fatto tutta questa importanza, e si recherebbero semplicemente a visitare un altro museo. Invece in Italia un fatto del genere finisce sulla prima pagina di dieci giornali. E poi in Italia se mi presento come uno dei direttori stranieri dei musei autonomi, tutti sanno di cosa parlo: perché i cittadini si identificano nella loro cultura. Forse poi non vanno a visitare i musei, ma sanno che cosa succede. Questo ovviamente è molto positivo: penso che in nessun altro paese del mondo gli abitanti si identifichino così tanto nella loro arte e nella loro cultura.
E, a proposito di direttori stranieri, a giugno Lei aveva dichiarato che qui in Italia in tanti sono convinti che è meglio se i musei sono gestiti da direttori italiani. Che cosa intendeva?
Intanto devo precisare che qui a Urbino non mi sono mai sentito dire che non vado bene perché sono straniero. Anche perché lo troverei ridicolo: contano il lavoro e i risultati. Penso però che in questa fase della riforma sia più importante, per i musei italiani, essere diretti da un esperto di amministrazione italiana invece che da un esperto di cultura o di marketing. Io impiego circa il 70% del mio tempo nell’amministrazione. E io non sono un esperto di amministrazione italiana: questa situazione mi fa anche star male, perché faccio cose nelle quali non mi ritengo bravo. L’ho detto spesso anche al ministro Bonisoli: “se lei non mi manda gli amministrativi che mi mancano, ha ragione lei quando dice che gli italiani sono più bravi degli stranieri a dirigere i musei”. Perché è inutile che un museo italiano paghi un direttore straniero per occuparsi di amministrazione italiana. O forse è bene che ci siano tutte e due le figure: una che si occupi dell’amministrazione e una che porti esperienza internazionale. Io ho maturato la decisione di lasciare Urbino quando il ministro era ancora Bonisoli e vedevo in che direzione stava andando la sua riforma: pensavo di non essere più utile con le mie idee, perché con un assetto simile non sarebbero contate le idee, ma l’ubbidienza a Roma. Ad ogni modo, per quanto mi riguarda, penso di aver dato un contributo che serviva alla Galleria Nazionale: quello di vedere il museo sotto un altro punto di vista, di dimostrare che il museo può essere valorizzato anche attraverso gli eventi e le mostre di alto livello, ma anche con i matrimoni e gli affitti delle sale. A coloro che sono cresciuti all’interno del sistema delle soprintendenze forse non verrebbe neppure in mente di cambiare questa strategia, per il semplice fatto che non hanno vissuto un sistema diverso. Allora, l’esperienza internazionale è utile e importante, però se il direttore viene usato solo per fare amministrazione, non ha molto senso.
Un’ultima domanda: cosa si sente di suggerire al suo successore?
Suggerirò di parlare molto con lo staff, perché loro non hanno più bisogno di me in tante cose, e tutto ora funziona molto bene: l’ufficio mostre, l’ufficio marketing e comunicazione, la ragioneria... sono diventati tutti bravissimi, e se il nuovo direttore ascolterà con pazienza potrà andare avanti su questa linea, perché nelle Marche c’è molto potenziale.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).