A novembre, gli Uffizi inaugureranno un’importante mostra dedicata al grande letterato Pietro Aretino (Arezzo, 1492 - Venezia, 1556), intitolata Pietro Aretino e l’arte del Rinascimento (Aula Magliabechiana degli Uffizi, dal 27 novembre 2019 al 1° marzo 2020): prima esposizione interamente centrata sul poeta e scrittore, analizzerà la figura nel suo contesto storico e culturale, e soprattutto in relazione al suo profondo rapporto con l’arte e con gli artisti. La mostra è curata da Anna Bisceglia, Matteo Ceriana e Paolo Procaccioli: il nostro direttore Federico Giannini ha intervistato Anna Bisceglia, Matteo Ceriana e Paolo Procaccioli per tracciare un doppio profilo, storico-artistico e artistico-letterario, del grande Aretino. Di seguito, le interviste ad Anna Bisceglia, curatrice della pittura del Cinquecento alle Gallerie degli Uffizi, e a Matteo Ceriana, direttore della Galleria Palatina: con loro abbiamo approfondito i rapporti di Aretino con, rispettivamente, pittura e scultura, e con Anna Bisceglia abbiamo anche parlato delle ragioni alla base della mostra. Di seguito, l’intervista ad Anna Bisceglia.
FG. Com’è nata l’idea di dedicare una mostra a Pietro Aretino?
AB. L’idea di questa mostra è nata cinque anni fa nel 2014 da Matteo Ceriana e da me, perché la Galleria Palatina conserva il Ritratto di Pietro Aretino eseguito da Tiziano nel 1545. Poi eravamo mossi anche dal fatto che, a partire almeno dal 2013 con la mostra su Pietro Bembo, e poi con le successive dedicate ad Aldo Manuzio e Ludovico Ariosto, si era aperto un campo d’interessi che intrecciava letteratura e storia dell’arte, pertanto l’attenzione si è concentrata sugli interessi artistici dei letterati e sulla ricostruzione dei contesti nei quali anche gli scrittori avevano contribuito alla formazione della lingua artistica, o attraverso le loro collezioni, o con le loro scelte, o ancora con le loro amicizie, e così via. E in effetti, dopo che erano state affrontate personalità molto importanti come quelle appena citate, che erano legate anche alle arti, Pietro Aretino rimaneva un po’ in sospeso: questa la motivazione che ci ha portato a progettare un’esposizione su di lui. Naturalmente in questo cammino è stato fondamentale l’incontro con gli specialisti che su più versanti hanno toccato la figura e l’opera di Aretino; è un lavoro che si poteva fare solo in maniera corale, consultando molte e autorevoli voci e in questo senso si è inteso promuovere un convegno che ha avuto luogo alla Fondazione Cini nell’autunno del 2018, che ha permesso di incrociare pensieri, idee, mettere a fuoco i temi più importanti, cercare risposte. Il catalogo sarà una sintesi per il visitatore, concepito come guida per la mostra, ma a latere ci sarà anche un volume di saggi che affronteranno diffusamente gli argomenti trattati nell’esposizione per coloro che vorranno approfondire ulteriormente. In più, dato che la mostra cade nel 2019, anno del cinquecentenario della nascita di Cosimo I de’ Medici (un anno che non era stato scelto di proposito perché inizialmente avevamo pensato di poterla realizzare nel 2018, poi la complessità dell’argomento ci ha portati al 2019), possiamo dire che riesce anche a contribuire, per sua parte, alle celebrazioni dell’anno cosimiano, perché i rapporti tra Pietro e Cosimo sono intensissimi, e tra l’altro il ritratto che abbiamo in Palatina è un dono inviato per l’appunto a Cosimo da Aretino in persona, nel 1545.
Abbiamo detto che Pietro Aretino, tra i tanti, ha contribuito alla costruzione di una lingua artistica. Volendo entrare nel merito, qual è stato il suo contributo?
Aretino è, intanto, uno dei principali testimoni dei fatti artistici che si svolgono a Roma e a Venezia. Tuttavia il suo contributo principale sta nel rapporto personale con gli artisti che incontra muovendo la sua traiettoria di vita principalmente tra questi due centri così importanti nel Cinquecento. Tuttavia il suo interesse per le arti era già maturato nella prima giovinezza trascorsa Perugia nel primo decennio del secolo e prosegue durante il suo soggiorno a Mantova nella seconda metà degli anni Venti, mentre si spostava da Roma a Venezia. Ebbe relazioni con i maggiori artisti del suo tempo, coi quali intrattenne rapporti epistolari, a anche legami di amicizia, quando non di vera affettuosità. Questa trama intensa di scambi si ricostruisce attraverso i sei libri di Lettere che rappresentano l’invenzione di un vero genere letterario nuovo, inaugurato da Aretino in netto anticipo sul Bembo. La corrispondenza di Pietro Aretino è una fonte inesauribile di notizie storiche, politiche, traccia il ritratto di un’epoca. Dal punto di vista artistico , costituiscono una testimonianza davvero interessante: non per caso da un punto di vista bibliografico, si era sentita negli anni Cinquanta l’esigenza di pubblicare separatamente le lettere destinate agli artisti (in particolare mi riferisco alle Lettere sull’arte di Pietro Aretino a cura di Fidenzio Pertile ed Ettore Camesasca, 1957-1960). Occorre che su circa tremila e duecento lettere inviate ai suoi corrispondenti, circa settecento sono inviate direttamente ad artisti, o che parlano di cose d’arte: una proporzione abbastanza impressionante. I principali rapporti di Aretino sono soprattutto con tutti i grandi artisti del momento, a partire da Tiziano e Sansovino con i quali struttura quello che a Venezia fu definito “il triumvirato”, una sorta di potentato delle arti attraverso il quale i tre si davano la mano l’un l’altro: per esempio, Aretino sponsorizzava Tiziano, e Tiziano con le sue opere celebrava Aretino: una vera joint venture proiettata a costruire l’ascesa di entrambi presso le maggiori corti europee, principalmente presso l’imperatore Carlo V. La loro strategia si basava fondamentalmente sulla produzione e sull’invio di opere: Aretino assume il ruolo di tramite e patrono nell’invio di quadri, medaglie, sculture, cui accompagna sue lunghe lettere con ekphrasis descrittive e spesso anche un sonetto (pratica, quest’ultima, abbastanza comune per la letteratura del tempo). Però quello che colpisce di Aretino è l’“aderenza verbale” (per usare una terminologia longhiana): il suo obiettivo è quello di rappresentare la pittura attraverso la sua parola, con un inchiostro che diventa colore. Nessuno più di lui ha saputo illustrare la novità della pittura di Tiziano, evidenziando la particolare capacità del pittore di far parere le sue immagini “vive e vere”. Spiegando il suo ritratto in una lettera a Cosimo I nel 1545, Aretino scrive: “esso respira, batte i polsi e mòve lo spirito, nel modo che io mi faccio in la viva”. Oppure, quando descrive, in una lettera a Tiziano del 1547, l’Ecce Homo che aveva avuto in dono da lui (copia di uno eseguito per l’Imperatore, ed oggi al Prado) ne dice: “di spine è la corona che lo trafigge, ed è sangue il sangue che le lor punte gli fanno versare; né altrimenti il flagello può enfiare e far livide le carni, che se l’abbia fatte livide ed enfiate il pennello vostro divino; il dolore, in cui si ristringe la di Gesù figura, commuove a pentirsi qualunque cristianamente gli mira le braccia recise da la corda, che gli lega le mani; impara a essere umile chi contempla l’atto miserrimo de la canna la quale sostiene in la destra; né ardisce di tenere in sé punto di odio e rancore colui che scorge la pacifica grazia che in la sembianza dimostra”. Sono parole che spiegano in modo flagrante il segreto dell’arte di Tiziano, quelle qualità che lo avevano portato al successo sulla scena veneziana già a partire dagli anni Trenta, quando vince il confronto con Pordenone a seguito del concorso per l’esecuzione della gran tela con il Martirio di san Pietro da Verona per la chiesa domenicana dei Santi Giovanni e Paolo. Aretino tra l’altro aveva apprezzato grandemente Pordenone per il suo soggiorno romano e il suo avvicinamento a Michelangelo, ma Tiziano quel confronto lo vince decisamente e Pietro lo testimonia in presa diretta. E qui arriviamo a una premessa nodale nella concezione aretiniana degli sviluppi artistici: il riconoscimento del primato della maniera moderna che si era sviluppata a Roma tra secondo e terzo decennio del secolo, di cui Aretino, cresciuto nella Roma di Leone X di Agostino Chigi e di Clemente VII, era stato testimone diretto. È un legame che non si reciderà mai: ancora negli anni Quaranta, da Venezia, chiederà notizie degli artisti della scuola di Raffaello, come Perin del Vaga, ad esempio. Il suo arrivo a Venezia coincide del resto con la diaspora degli artisti provenienti da Roma dopo il Sacco, Sansovino in primis, ma anche Rosso, e questo contribuisce a creare un insieme di connessioni di cui non fatica a farsi voce parlante e scritta. In sostanza è dentro questi due poli che si risolve la sua visione degli svolgimenti artistici: la maniera moderna romana trasmigrata a Venezia.
Johann Carl Loth, Martirio di san Pietro Verona, copia dall’originale di Tiziano distrutto dall’incendio del 1867 (1691; olio su tela; Venezia, Santi Giovanni e Paolo). Ph. Credit Didier Descouens |
Prima abbiamo citato il ritratto di Tiziano che rappresenta la più viva testimonianza del rapporto tra Pietro Aretino e le arti che ci sia a Firenze. In questo senso mi piacerebbe costruire un piccolo percorso sul rapporto tra Aretino e le arti attraverso tre opere, partendo proprio dal ritratto di Tiziano: cosa possiamo dire di quest’opera? Cosa racconta di Aretino, del suo rapporto con Tiziano?
È un ritratto interessantissimo perché va letto a diversi livelli: da una parte per la funzione del ritratto che nel Cinquecento è fondamentale, molto più di prima, perché è l’attestazione della funzione e del ruolo sociale dell’effigiato, e poi viene utilizzato, non solo da Aretino, anche come merce di scambio. Aretino sfrutta appieno tutta la gamma di possibilità offerta dal ritratto, tra le altre cose in una lettera a Sansovino difende la necessità di ritrarre personaggi di rango, per eternarne il valore: non tutti sono degni di avere un ritratto. Un’affermazione quantomai singolare, dato che Aretino, e questo è davvero sorprendente nella sua parabola di vita, era di origini assai modeste: i biografi più antichi lo credevano nato da una relazione illeggittima di sua madre, Tita, con un membro della famiglia Bacci, i documenti e le testimonianze dirette lo dicono figlio di un calzolaio. La sua è perciò un’ascesa formidabile nella società italiana del tempo, davvero trasversale, anche solo a compararla con la società odierna. Questa sua condizione non gli permette una formazione canonica, come quella che potevano aver avuto Pietro Bembo o Baldassarre Castiglione per intenderci: non nasce con una collezione una biblioteca di famiglia alle spalle. Anche questo aspetto ci aiuta a comprendere la sua attenzione concentrata essenzialmente sull’arte a lui contemporanea. E in fondo anche l’uso del prodotto artistico è un uso strategico: il ritratto diventa per lui anche uno strumento di autopromozione. Dalla metà degli anni venti fino alla sua morte, tutte le sue mosse hanno alla base l’affermazione e il consolidamento della sua immagine di “segretario del mondo” (così si definisce in una sua missiva), di punto di riferimento sulla scena nazionale e internazionale. La rete di rapporti e amicizie che costruisce era funzionale anche a ragioni pratiche, cioè al suo sostentamento: da letterato, amante della bella vita e del lusso, viveva praticamente delle provvigioni ottenute dai potenti del mondo, dall’Imperatore, dal re di Francia, dal duca di Urbino e via dicendo. Nella mostra intendiamo dare conto di questo aspetto attraverso una carrellata dei suoi ritratti, eseguiti in epoche diverse: dal primo, inciso da Marcantonio Raimondi alla metà degli anni venti, al tempo della sua frequentazione intensa della curia romana. A questo si accosta un dipinto, degli stessi anni, realizzato da Sebastiano del Piombo e donato da Aretino al Comune di Arezzo, dove ancora oggi si trova, collocato nella sala consiliare. Era un gesto simbolico, volto a presentarsi con la dignità di personaggio illustre ai suoi concittadini, e Aretino vi appare con elementi quali il cartiglio, il ramo di alloro e le maschere che lo qualificano decisamente come uomo di lettere. Nei decenni successivi Aretino affida la sua effigie a medaglie, e ne esporremo alcune di Leone Leoni, di Alessandro Vittoria e Girolamo Lombardo, che documentano il suo volto negli anni, attraverso l’imponenza di un profilo “all’antica”. La medaglia, del resto, era anche da lui utilizzata come dono e quindi si prestava bene a diffondere la sua immagine. Ritornando al ritratto di Tiziano, uno dei due ad oggi conosciuti (l’altro si trova nella Frick Collection a New York e purtroppo non potrà essere esposto in mostra perché come si sa la parte originaria della collezione è inamovibile), c’è da dire che è davvero un ritratto parlante dell’affermazione sociale di Aretino, del suo ruolo sulla scena veneziana. Un ruolo che, occorre precisare, non fu mai decisionale, non avendo mai avuto egli nessuna carica pubblica. Ma Aretino era piuttosto quello che oggi diremmo un influencer, e ce lo fa capire in ogni sua riga, almeno fino alla fine degli anni Quaranta. Tiziano interpreta perfettamente questa richiesta: il protagonista indossa una veste ricchissima di raso (riceveva continuamente in omaggio abiti e stoffe pregiate), esibisce una pesante catena d’oro al collo, anche in questo caso una delle molte che riceveva in dono, la più famosa di tutte gli viene regalata da Francesco I re di Francia, un monile d’oro con lingue di smalto, allusione abbastanza significativa alla vivacità e alla potenza della sua penna. È insomma la rappresentazione di uno status. Questo quadro è però, al tempo stesso, anche una straordinaria prova pittorica dello stile di Tiziano alla metà degli anni Quaranta, una pittura mossa e sfaldata, con rapidi colpi di pennello che definiscono le superfici, il contrasto cromatico tra il rosso della veste e il carnato, e lo sguardo terribile, vivissimo. Certo una cultura ben lontana dalla maniera cristallina, meravigliosamente analitica e improntata al primato del disegno di Bronzino che dominava a Firenze. Nell’inviare il quadro al Granduca, Aretino gioca un po’ di contropiede, e precisa che Tiziano avrebbe dovuto rifinirlo meglio, ma è a mio avviso un artificio retorico: Aretino credeva assolutamente nel valore di Tiziano e nell’importanza di questo ritratto, nel quale sperava anche molto poiché aspirava a ricevere l’appoggio di Cosimo.
Tiziano, Ritratto di Pietro Aretino (1545; olio su tela; Firenze, Galleria Palatina di Palazzo Pitti) |
E sempre a proposito di ritratti, abbiamo parlato di quelli in cui lui si faceva effigiare di profilo, e in mostra ce ne sarà uno di questo tipo, postumo, inciso da Giovanni Giacomo Caraglio: è un’opera molto interessante perché troviamo un paio di elementi che catturano l’attenzione, uno è il famoso epiteto “Flagello dei principi”, e l’altro invece è una parte della frase famosa di Terenzio che dice “Veritas odium parit”, “la verità attira odio”. Che messaggio si voleva inviare?
“Flagello dei Principi” è una fulminante definizione cui da voce Ludovico Ariosto nel canto finale del Furioso, dove Aretino compare nella folla di letterati, poeti e donne celebri che accolgono il poeta alla fine del suo viaggio immaginario di cavalieri ed eroi. Insieme al motto terenziano è una di quelle frasi che concorrono a comporre una sorta di allegoria, un mondo che si collega all’affermarsi di Aretino definendo quella che è la sua... difesa. Noi sappiamo che Aretino, fin da quando sulla scena romana, legatissimo ai papi Medici, si cacciava nelle pasquinate (dalla poesia burlesca all’invettiva), è fatto oggetto di una serie di attacchi che prima di tutto iniziano dal datario di papa Clemente VII, Gian Matteo Giberti, che addirittura si considera essere il mandante del tentato assassinio dell’Aretino: al letterato viene teso un agguato dal quale scappa fortunosamente. In seguito a questo episodio avrebbe lasciato definitivamente da Roma. E da quel momento, naturalmente, ha tutta una parte politica a lui avversa: occorre sottolineare infatti che tutte le vicende di Aretino non vanno inquadrate nell’ottica di scontri personali o di inimicizie personali, tutto va semmai visto dentro il quadro complicatissimo dei rapporti politici dell’Italia di quel tempo. Quando si trovava Roma, il grande scontro politico era sul tema dell’appoggio del papa ai francesi o agli imperiali: la scelta di appoggiare i francesi avrebbe poi determinato la tragedia del Sacco di Roma, con la calata dei lanzichenecchi e la città messa a ferro e fuoco. Scelte sbagliate nella politica del papa determinarono tutto un quadro di rapporti da cui poi discende quello che è uno dei fatti clamorosi della storia del Cinquecento italiano, appunto il Sacco di Roma. Detto questo, Aretino, durante tutta la sua vita, deve difendersi da attacchi di carattere politico e di carattere letterario che sono naturalmente in risposta alle sue invettive e allo stesso tempo anche in risposta a tutto un filone che è quello a lui opposto e che tende a metterlo in cattiva luce e a limitarne quel potere (di influenza e di parola) che invece nei decennî centrali del Cinquecento era diventato davvero notevole: basta scorrere i primi due libri di lettere per avere un’idea di quello che era l’arco dei suoi corrispondenti (c’è per esempio tutta la corte di Carlo V: l’imperatore stesso nel 1530 aveva voluto incontrarlo e cavalcare con lui, e questa è un’immagine che lui ricorderà per sempre). Ci sono, tra gli altri, il potentissimo cardinale Antoine Perrenot de Granvelle, c’è l’ambasciatore spagnolo a Venezia, Diego Hurtaldo de Mendoza, che era anche un bibliofilo e un cultore d’arte, ci sono i francesi perché lui riesce ad avere rapporti buoni con il re di Francia, c’è il re d’Inghilterra, ci sono i banchieri Fugger presso i quali sponsorizza Tiziano. Se dovessimo disegnare su di una cartina tutto l’arco geografico verso il quale arrivano le lettere di Aretino, avremmo un’area vastissima. E questo lo rende davvero un uomo europeo, da un certo punto di vista: è impressionante la capacità di tenere rapporti diplomatici, di saper anche interpretare finemente delle situazioni storiche, di tenere sempre sotto mano quella che era la situazione dell’arte suggerendo questo o quell’artista. Aretino è anche il personaggio che lancia sulla scena internazionale Leone Leoni, all’epoca giovane artista del quale lui intende subito le capacità, raccomandandolo subito all’ambiente imperiale: in mostra ospiteremo un suo spettacolare rilievo in bronzo col profilo di Carlo V, generosamente concesso dal Louvre, un prestito di cui siamo particolarmente grati. Quindi con Aretino assistiamo davvero alla promozione di un artista fin dalla sua nascita. Con Tiziano era stato diverso perché lui si era già affermato per conto suo e conosce Aretino quando già era in auge, però Leone Leoni ed altri artisti della cerchia del Sansovino, vengono proprio “raccomandati” e presentati sulla scena da Aretino. E non dimentichiamo poi che lo stesso Vasari arriva a Venezia nel 1541 e da Aretino riceve una delle commissioni che lo “presentano” ufficialmente: il progetto per gli apparati della commedia “la Talanta” che Aretino aveva composto e dedicato a Cosimo I e che va in scena nel 1542.
Giovanni Giacomo Caraglio, Ritratto di Pietro Aretino con motto (1646-1655; bulino, Firenze, Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe) |
L’ultima opera di cui vorrei parlare è il ritratto femminile, la cosiddetta Fornarina, di Sebastiano del Piombo conservata agli Uffizi...
Intanto è necessario specificare che la mostra segue un doppio criterio, cronologico e iconografico, quindi ci sono quattro sezioni cronologiche che seguono la vita di Aretino fin dagli inizî ad Arezzo e a Perugia (ovvero la sua nascita e il suo primo tirocinio nell’ambiente letterario), proseguendo per Roma (dove comincia la sua prima maturazione), per arrivare a Mantova e Venezia. Accanto a queste sezioni cronologiche ci sono poi due sezioni che sono iconografiche e documentarie, che si intitolano rispettivamente “Segretario del mondo” e “Imago Petri” e che rappresentano, nel primo caso, il suo quadro dei rapporti (“Segretario del mondo” è un’espressione che usa proprio Aretino in una delle sue lettere quando, vantando tutto il suo arco di conoscenze, sostiene di essere il “segretario del mondo”, vale a dire che riesce a intrattenere rapporti e relazioni approfondite con tutto il mondo che conta), e nel secondo caso l’iconografia di Aretino che si attesta in una raffigurazione del sé che è anche strumento di promozione. La Fornarina, in tutto questo, rientra nel periodo romano: le Gallerie degli Uffizi sono fortunate perché, grazie alle connessioni collezionistiche nelle quali i Medici giocarono sempre un ruolo di primissimo piano, possiedono quest’opera appartenuta ad Agostino Chigi, risalente al periodo in cui Pietro Aretino arriva a Roma (la sua prima attestazione certa è del 1517 ma è verosimile che sia giunto in città anche prima). Arrivare a Roma nel 1517 significava vedere in azione Raffaello e la sua bottega, vedere gli affreschi della Farnesina, le Logge vaticane e gli arazzi per la Sistina in corso di realizzazione, oppure il progetto della Sala di Costantino, quindi significava veder nascere la maniera moderna. In quel periodo, Agostino Chigi stava facendo completare la decorazione della sua villa, erano stati appena scoperti gli affreschi di Sodoma, e Sebastiano del Piombo era uno dei suoi artisti di punta. Nella collezione di Agostino Chigi c’era, appunto, la Fornarina, che rammenta non soltanto i capitoli dell’arte di quel momento ma anche un’amicizia fortissima con Sebastiano che si consuma nella Roma di quel momento e che poi Sebastiano preferirà tagliare dopo aver assunto il ruolo ufficiale di piombatore pontificio. I due romperanno i rapporti sulla fine degli anni Trenta, ma negli anni romani erano molto vicini, quindi la Fornarina, come ogni opera esposta in mostra, gioca su questo doppio binario: il rapporto con Aretino e la rappresentazione dell’opera dentro il suo contesto, nel contesto dell’artista che con lui aveva rapporti. In questo caso c’è anche una committenza importante: Agostino Chigi è infatti il primo che introduce l’Aretino dentro il bel mondo, lussuoso, raffinatissimo, quindi è il suo primo aggancio con l’ambiente romano e l’universo delle sue arti: è lì che Pietro Aretino inizia a conoscere i maggiori protagonisti della maniera moderna molti dei quali gli artisti continueranno a segnare la sua esistenza. Raffaello gioca un ruolo molto importante perché, anche dopo aver lasciato Roma, Aretino continuerà a ricordarne il magistero non a caso celebrato anche nel Dialogo sulla pittura o l’Aretino di Ludovico Dolce che appunto di Aretino era stato uno dei segretari.
Sebastiano del Piombo, Ritratto femminile noto come la Fornarina (1512; olio su tela; Firenze, Galleria Palatina di Palazzo Pitti) |
Pietro Aretino oggi è ricordato soprattutto per la parte più licenziosa della sua produzione e per questa ragione si tende ad associarlo a quell’immagine “boccaccesca” diffusa intanto dall’interesse morboso verso la sua opera che si diffuse nell’Ottocento, e poi da tutta la filmografia di serie B degli anni Settanta che si è concentrata su questi aspetti in maniera grottesca. Come restituire all’Aretino la sua statura di intellettuale e anche la modernità del suo pensiero e del suo operare?
La mostra intende fare proprio questo, visto che la figura di Aretino è sempre stata gravata da pregiudizî, e la sua figura è stata messa all’indice subito, fin dal 1559. Il pregiudizio poi ha finito per schiacciare Aretino sullo stereotipo dello scrittore licenzioso e dell’uomo dal carattere malevolo, iracondo, e che campava sostanzialmente sulla maldicenza. In realtà le cose non stanno così, e dimostrarlo è in effetti lo scopo della mostra, anche perché dal punto di vista degli studî il recupero di Aretino è abbastanza recente. Come dimostrarlo? Lo si comprende subito dall’intenzione del titolo: la mostra è esattamente la rappresentazione del rapporto di Aretino con le arti e con i patroni delle arti durante l’arco di un trentacinquennio, cioè la prima metà del Cinquecento, seguendo quella testimonianza diretta che sono le sue lettere. La nostra ambizione sarebbe spiegare attraverso la sequenza delle opere e il dialogo delle opere (e naturalmente gli apparati didattici) quanto Aretino rappresenti un vero e proprio mondo che si schiude ben oltre l’idea dello scrittore licenzioso o del pettegolo malevolo. E questo dovrebbe emergere proprio dall’esposizione delle opere.
Per concludere: dal punto di vista storico-artistico, quali saranno le principali novità della mostra?
Vogliamo dimostrare che Aretino, anche prima di Vasari, traccia consapevolmente le linee principali dell’arte italiana del Cinquecento e lo fa in modo militante. Roberto Longhi non a caso lo definì “il patriarca dei conoscitori italiani”. Nello specifico, poi, possiamo anticipare che ci saranno alcune novità documentarie riguardanti la biografia che verranno rese note in catalogo, e in generale abbiamo cercato di disegnare un percorso di opere poco viste: c’è ad esempio un ritratto di Aretino molto affascinante che viene da Basilea (è uno dei suoi ritratti giovanili più interessanti) e per il quale si proporrà verosimilmente una nuova attribuzione, dal momento che l’assegnazione di questo dipinto è sempre stato un dubbio (si riteneva che fosse di Sebastiano del Piombo o del Moretto). Ci sono dei disegni di scene erotiche di Giovanni da Udine, legati alla fortuna dei Sonetti Lussuriosi, che non sono mai stati troppo visti e che servono a spiegare la fortuna di quel genere nella decorazione dell’epoca: occorre infatti sottolineare che Aretino compone i Sonetti sopra delle immagini licenziose, quelle di Giulio Romano, poi incise da Marcantonio Raimondi, che riflettono una corrente di gusto inaugurata dalla scuola di Raffaello. I disegni di Giovanni da Udine sono dunque molto interessanti perché presentano una particolare interpretazione dell’erotica mitologica. Tra l’altro, questo tema si congiunge in qualche modo con la mostra di Mantova su Giulio Romano dove, per l’appunto, si prenderanno in analisi anche questi aspetti. E poi si vedranno opere abbastanza note ma poco esposte in mostre, per esempio il ritratto del cardinal Granvelle che verrà da Kansas City e che non è mai stato esposto in Italia: è un ritratto di Tiziano del 1545 assolutamente strepitoso che grazie alla generosità del Nelson-Atkins Museum abbiamo la fortuna di poter inserire nel percorso. Per riassumere, ci saranno inediti di carattere documentario e opere che si vedono con poca consuetudine: non era nostra intenzione fare una mostra blockbuster, né fare una mostra sul Rinascimento a Venezia, anche perché non ci sono tutti gli artisti veneziani, ma una selezione dei più importanti, cercando di mettere in evidenza i punti focali e cruciali del rapporto dell’Aretino con le arti e rilanciando questo scrittore che, alla fine, è stato preso anche a facile contenitore per una creazione di un tipo di cinematografia con la quale lui, peraltro, non aveva niente a che fare. A rilanciarlo parzialmente ci ha pensato magistralmente Ermanno Olmi, se si pensa che i primi cinque minuti de Il mestiere delle armi sono occupati da una lunga sequenza di personaggi che danno vita alla lettera di Aretino a Francesco degli Albizzi sulla morte di Giovanni dalle Bande Nere: e nel primo fotogramma è proprio Aretino che da l’incipit, girandosi verso lo spettatore, con uno sguardo penetrante e solenne. E secondo noi questo è... un buon risarcimento.
Tiziano, Ritratto di Antoine Perrenot de Granvelle (1548; olio su tela, 113 x 87 cm; Kansas, Nelson-Atkins Museum of Art) |
A seguire, l’intervista a Matteo Ceriana.
FG. Abbiamo detto che Pietro Aretino costituì una sorta di “triumvirato” con Tiziano e Sansovino. Con Anna Bisceglia abbiamo approfondito il rapporto che lo legava con Tiziano. In che termini, invece, si instaurò il legame con il Sansovino?
MC. Il rapporto con Sansovino è molto stretto, quasi famigliare. Aretino conosce Jacopo fin dai tempi di Roma, hanno esperienze comune in quegli straordinari e cruciali secondo-terzo decennio, hanno conosciuto le stesse persone, gli stesi artisti, le stesse situazioni. In più entrambi parlano un volgare toscano in un contesto che parla veneziano. Aretino conosce e segue anche Francesco Sansovino il figlio di Jacopo che tra l’altro alla fine farà il suo stesso mestiere, del tutto nuovo e moderno, quello dello scrittore pubblicista. Aretino conosce bene l’opera di Sansovino, lo frequenta, visita la bottega e vede i suoi disegni per l’architettura, il suo laboratorio creativo. La stessa cultura architettonica di Aretino viene dalla frequentazione di Sansovino. Viceversa per Sansovino sono importanti le opere di Aretino, specie le opere sacre, come esempio di narrazione del fatto sacro con una forza icastica del tutto nuova.
Più in generale, qual era il rapporto di Pietro Aretino con la scultura e quali sono, in mostra, le opere che ce ne dànno conto?
Aretino corrisponde e conosce molti scultori della scuderia sansoviniana. Con alcuni, come Danese Cattaneo ha un rapporto stretto perché Danese, oltre a essere toscano, è anche scrittore. Inoltre ad Aretino interessano anche le arti minori (intagliatori di legno, incisori di gemme) e le medaglie che nel Cinquecento sono uno strumento principale di autopromozione. Da parte sua la parola ecfrastica di Aretino mira a una densità plastica. Aretino è anche detto scolpire con le parole. Nella sua opera, nella prosa sontuosa delle opere sacre, le metafore plastiche e le descrizioni di sculture. In mostra sono presenti opere di Sansovino, sia modelli originali che opere finite. Per la bottega di Jacopo c’è poi il busto di Lazzaro Bonamico scolpito da Danese Cattaneo per la sua tomba (del quale Aretino parla) e un bozzetto padovano di Ammannati per un altro conoscente di Aretino, Marco Mantova Benavides. Le medaglie avranno un ampio spazio proprio per la loro importanza nel periodo e serviranno visualizzare i personaggi in rapporto con Aretino.
Infine, una domanda sulla mostra: com’è articolata la scansione delle sezioni che la comporranno?
È una scansione in parte cronologia e in parte tematica. È ovvio seguire la vita di Pietro in sezioni successive da Perugia, Roma, Mantova fino a Venezia ma poi è importante dare conto delle varie facce dell’opera aretiniana, il suo rapporto con i potenti e coloro che con Aretino si sono confrontati, lo hanno usato e si sono fatti usare, il suo modo di autopresentarsi al mondo (i ritratti e le medaglie). L’ultima breve sezione è quella della fortuna postuma di Pietro, dalla messa all’indice di tutta la sua opera poco dopo la su morte fino al mito maledetto nell’Ottocento.
Danese Cattaneo, Busto di Lazzaro Bonamico (bronzo, 76 x 86 x 32 cm; Bassano, Museo Civico) |
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).