Opera tra le più complesse della produzione di Caravaggio (Michelangelo Merisi; Milano, 1571 - Porto Ercole, 1610), riscoperta solo nel Novecento, capace di animare appassionate discussioni tra chi ne assegna l’autografia al grande maestro lombardo e chi invece è scettico e non si spinge ad attribuirla alla sua mano: è l’Ecce Homo conservato a Genova, a Palazzo Bianco, e fino al 24 giugno protagonista della mostra Caravaggio e i Genovesi. Committenti, collezionisti, pittori, allestita presso Palazzo della Meridiana nel capoluogo ligure (a questo link è possibile leggere la nostra recensione, dove i lettori troveranno anche un breve riassunto delle principali posizioni in merito all’attribuzione, e le tappe salienti della sua riscoperta). Mercoledì, proprio a Palazzo della Meridiana, l’Ecce Homo è stato protagonista di un convegno, intitolato Intorno all’Ecce Homo di Caravaggio di Palazzo Bianco, a cura di Anna Orlando (che è anche curatrice dell’esposizione), organizzato per fare il punto della situazione sull’avanzamento degli studî attorno all’importante dipinto.
Immagini dalla mostra Caravaggio e i genovesi |
Caravaggio, Ecce Homo (1605-1610 circa; olio su tela, 128 x 103 cm; Genova, Musei di Strada Nuova - Palazzo Bianco) |
Dopo i saluti istituzionali di Davide Viziano, presidente dell’Associazione degli Amici di Palazzo della Meridiana, di Barbara Grosso, assessore alla cultura del Comune di Genova, e di Ilaria Cavo, assessore alla cultura della Regione Liguria, la parola è andata a Cristina Bonavera, restauratrice, autrice dell’ultimo intervento sull’Ecce Homo, risalente al 2003 e quasi dimenticato fino a quest’anno. “Quando abbiamo iniziato il nostro intervento di restauro”, ha riferito Bonavera, “il dipinto si trovava in cattivo stato di conservazione: era stato sottoposto a due precedenti interventi di restauro, uno settecentesco, durante il quale era stato decurtato lungo i bordi nelle parti più rovinate, e uno nel 1954 eseguito da Pico Cellini e condotto sotto la direzione di Roberto Longhi e Caterina Marcenaro. Longhi e Marcenaro decisero di riportare il dipinto alle dimensioni originali della copia conservata al Museo Regionale di Messina, così se prima l’opera misurava 118 x 96 cm, in seguito fu ampliata lungo i bordi alle dimensioni attuali, che sono di 128 x 103 cm. Prima del nostro intervento di restauro il dipinto presentava lacerazioni dovute ai danni subiti sia nel restauro precedente sia ai bombardamenti che colpirono la Regia Scuola Navale di Palazzo Giustiniani Cambiaso, dove il dipinto era conservato durante la seconda guerra mondiale”.
Prima di iniziare il restauro, ha ricordato Bonavera, “sono state eseguite indagini diagnostiche per meglio approfondire sia la conoscenza dei materiali e degli strati dell’opera, sia lo stato di conservazione (quindi per meglio affrontare l’intervento di restauro), e anche per una più approfondita conoscenza della tecnica dell’artista. Queste analisi ci rivelano gli elementi della tecnica pittorica di Caravaggio: abbozzi di colore, incisioni, pentimenti, sovrapposizioni di campiture pittoriche e tecnica di preparazione a risparmio. Soprattutto nelle radiografie si nota in corrispondenza della spalla e del braccio la riduzione operata dallo stesso artista che ha steso pennellate più scure lungo il braccio e la spalla per coprire e correggere una sua prima stesura. Quello che noi vediamo intorno alla spalla del Cristo è un abbozzo di colore bianco: sappiamo che Caravaggio non disegnava ma tracciava dei veloci abbozzi di colore a pennello, direttamente sulla preparazione, fissando i punti principali della composizione. Altra caratteristica dei dipinti di Caravaggio sono i pentimenti: questa sua tecnica così veloce e così immediata comportava dei ripensamenti e delle correzioni, che si possono vedere nella radiografia ma anche a occhio nudo. Altri elementi tipici del pittore si osservano nel copricapo di Pilato che sovrasta il vestito del manigoldo a fianco. Una delle caratteristiche di Caravaggio era infatti la sovrapposizione di campiture pittoriche: in questo caso, prima era stata realizzata la figura del manigoldo e in seguito la figura di Pilato. Dalla radiografia vediamo anche come il perizoma di Cristo sia stato realizzato più stretto e più a contatto col fianco, e la parte che cade è coperta dal manto della figura di Pilato. Nel dipinto troviamo anche incisioni: oltre a stendere le campiture pittoriche, Caravaggio fissava la preparazione incidendola, o col retro del pennello o con delle punte. Longhi dice che le incisioni servivano a Caravaggio per riposizionare i modelli dopo la posa, perché usava dipingere dal vivo e quindi aveva bisogno di fissare punti di riferimento per riposizionare le figure negli stessi punti. Tornando all’intervento, dopo aver eseguito il fissaggio della pellicola pittorica e aver tolto il dipinto dal telaio è stata eseguita la disinfestazione contro gli insetti xilofagi, quindi è stata realizzata la pulitura: si è optato per una pulitura più superficiale che non ha asportato completamente le ridipinture”.
Infine, ha concluso Bonavera, dal 2003 a oggi le strumentazioni sono notevolmente migliorate: per questo la restauratrice si augura che l’Ecce Homo possa essere esaminato con gli stessi parametri della campagna di analisi diagnostiche comparate coordinata da Rossella Vodret e Claudio Falcucci, cominciata nel 2010, proseguita in occasione della mostra di Milano a Palazzo Reale nel 2017, e in grado di interessare trentacinque dipinti.
Radiografia totale dell’Ecce Homo di Caravaggio (studio di Mina Gregori in occasione della mostra di Firenze e Roma del 1992) |
Dettaglio del dipinto con la mano sinistra del Cristo in cui sono visibili l’uso della preparazione a vista che riaffiora, l’uso di abbozzi a pennello, aggiustamenti posteriori |
Dettaglio del dipinto con la mano di Cristo |
L’intervento di Anna Orlando si è concentrato sia sull’Ecce Homo, sia sul tema delle copie. “L’Ecce Homo”, ha ricordato la studiosa, “ è arrivato a questa mostra poco dopo l’esposizione di Parigi e lo abbiamo messo sotto i riflettori come forse non è mai stato fatto finora. Ci sono dati evidenti (su cui poi si può certo discutere, i dati vanno sempre interpretati): i pentimenti escludono che si possa utilizzare la parola ‘copia’ (si vedono sia con la radiografia sia a occhio nudo), la stesura è libera, sciolta, di getto, è la tecnica di un pittore sprezzante e non diligente, e anche questo aspetto ci porta ad allontanare l’ipotesi (che ha fatto parte della vicenda critica del dipinto) che sia una copia. Le sovrapposizioni sono altrettanto evidenti: si vede benissimo a occhio nudo la costruzione della figura di Pilato, la meno convincente, la più anomala, la meno caravaggesca, ma tutta la figura è costruita sopra la figura di Cristo e la figura del manigoldo. Un altro elemento (certamente poco misurabile e che non si può mettere sulla bilancia, ma noi storici dell’arte abbiamo il dovere di riconoscerlo), è il fatto che il dipinto di Strada Nuova sia di qualità molto più alta rispetto alle altre copie note, compresa quella di collezione privata di Palermo che è stata oggetto di uno studio importante. Tutti dati poco misurabili ma che fanno sistema, e il lavoro dello storico dell’arte penso sia proprio quello di mettere a sistema tutti gli elementi a disposizione”. Una qualità che, secondo Orlando, è emersa anche dalle indagini radiografiche svolte in occasione del restauro di Cristina Bonavera del 2003 e che hanno rivelato particolari (come la pennallata a zigzag) che si possono accostare ad altre opere di Caravaggio, per esempio il San Girolamo del Museo di Montserrat.
Quanto al tema delle copie, uno dei più nuovi nell’approccio all’arte di Caravaggio, Orlando ha sottolineato che una delle novità della mostra è l’aver esposto l’Incoronazione di spine proveniente dalla Certosa di Rivarolo e che deriva dall’opera (anch’essa molto discussa) attribuita a Caravaggio e di proprietà della Banca Popolare di Vicenza. “Questa copia”, ha dichiarato Orlando, “è di grande qualità, e la provenienza della Certosa lega la storia del dipinto alla famiglia Di Negro: è interessante notare che Orazio Di Negro possedeva una delle primissime copie caravaggesche, quella dell’Incredulità di San Tommaso, che Vincenzo Giustiniani nel suo viaggio a Genova vede nella casa di Orazio, peraltro suo cugino. Fino al 2018 non sapevamo granché di più su Orazio Di Negro: nel corso di un lavoro della collana Carte d’Arte abbiamo indagato sulla famiglia Di Negro ed è spuntato un inventario del 1618 dove la copia dell’Incredulità figura ed è data a Cesare Corte. Corte è anche copista dei Doria, e lo sappiamo dagli studî di Laura Stagno: è chiaro che questo cerchio porta a chiudere con convinzione il tema dell’attribuzione della copia, eseguita da Cesare Corte, per i Di Negro. Lo vediamo anche dai colori, che appartengono a un pittore di cultura ancora cinquecentesca”.
Cesare Corte, Incoronazione di spine, copia da Caravaggio (inizi del XVII secolo; olio su tela, 203 x 166 cm; Genova, San Bartolomeo della Certosa) |
Caravaggio, San Girolamo in meditazione (1605; olio su tela, 118 x 81 cm; Montserrat, Museo del Monastero di Santa Maria) |
A seguire, Maria Cristina Terzaghi, dopo aver salutato positivamente l’idea di dedicare una mostra al tema “Caravaggio a Genova” (che fino a oggi non era mai stato affrontato in un’esposizione) e aver sottolineato l’importanza delle nuove acquisizioni sulla famiglia Di Negro, ha condotto un intervento sul tema della possibile provenienza e della possibile datazione dell’opera. Punto di partenza è la ricostruzione di Anna Orlando alla luce delle più recenti informazioni che vedono i Di Negro e i Doria (che furono in contatto con Caravaggio) comparire con insistenza in un fitto intreccio di committenze, oltre a una pista già battuta fino almeno dagli anni Novanta, secondo cui l’Ecce Homo potrebbe essere legato all’elezione, nel 1609, di Giannettino Doria a vescovo di Palermo (un dato è che tutte le copie dell’Ecce Homo si trovano in Sicilia, quindi è pressoché sicuro che in un certo momento della storia l’opera dovette trovarsi sull’isola), e alla seconda ipotesi che connette l’opera con un Ecce Homo (di misure compatibili con quelle di Palazzo Bianco) che si trovava nella collezione di Juan de Lezcano, ambasciatore di Spagna presso la Santa Sede. “Io sono stata molto convinta”, ha dichiarato Terzaghi, “dalla ipotesi di legare l’Ecce Homo alla committenza di Giannettino Doria e, come già aveva detto Francesca Cappelletti, di sganciarlo dalla datazione al 1605. Antonio Vannugli sosteneva, in uno studio importantissimo, che dalla collezione di Massimi il dipinto sia passato nella collezione di Lezcano per la via dell’ambasciatore di Spagna. Non è necessario: la provenienza potrebbe essere siciliana e potrebbe non esserci un passaggio romano come ipotizzato da Vannugli. Rimane in piedi l’ipotesi di Giannettino Doria, ma rimane anche possibile l’ipotesi secondo cui Lezcano, dalla Sicilia, avrebbe portato il quadro a Napoli”.
Alle teorie sulla provenienza si collega quindi il problema dello stile dell’opera. “Se dobbiamo legare quest’opera alla Sicilia”, ha evidenziato Terzaghi, “dobbiamo capire con quale quadro della Sicilia vada confrontato l’Ecce Homo. Se noi diciamo che questo quadro ci sembra siciliano, dobbiamo trovare qualcosa di plausibile da mettergli vicino. Certamente le copie siciliane, come già disse Longhi, inducono a pensare a un passaggio in Sicilia ma se il dipinto è di Caravaggio bisogna pensarlo vicino ai suoi quadri certi siciliani. Certo è che, come rilevava Gianni Papi, i quadri siciliani di Caravaggio sono in stato di conservazione drammatica. La cosa più vicina è la Natività di Palermo, ma se viene sganciata dal momento siciliano come molti dicono (io non ne sono convinta) dobbiamo cercare di capire di chi è l’Ecce Homo se non di Caravaggio, sapendo che è difficile trovare ipotesi per un altro artista. Lo stile rimane un enigma: secondo me è convincente il riferimento a Doria e certamente è importante il rapporto con il Ritratto di Andrea Doria di Sebastiano del Piombo (è inequivocabile), ma se lo leghiamo a Giannettino Doria dobbiamo capire cosa Lanfranco Massa aveva a Napoli [ndr: sappiamo dai documenti che Massa, agente di Marcantonio Doria, a Napoli aveva un Ecce Homo non meglio identificato]”. Tuttavia, ha concluso Terzaghi, al momento stiamo lavorando solo su indizî e non su prove: è giustissimo e se tutti i segnali portano verso una direzione occorre imboccarla, “tenendo però aperta la possibilità che qualche indizio ci sfugga e che potrebbe apparire per farci cambiare direzione”.
Sebastiano del Piombo, Ritratto di Andrea Doria (1526; olio su tavola, 153 x 107 cm; Genova, Palazzo del Principe) |
Caravaggio, Natività con i santi Lorenzo e Francesco (1600?; olio su tela, 268 x 197 cm; Palermo, già nell’oratorio di San Lorenzo, trafugata nel 1969) |
La ripresa dei lavori nel pomeriggio è cominciata con l’intervento di Riccardo Lattuada, che si è focalizzata soprattutto sulla tecnica di Caravaggio: “guardando il quadro di Genova”, ha dichiarato lo studioso, “credo questo metodo così complicato da definire, sul quale la diagnostica sta profondendo sforzi enormi, non possa che riportare ad una matrice culturale molto precisa, dalla quale secondo me Caravaggio dipende, perché vi si è rifatto fin dalla formazione per costruirsi i suoi strumenti, e che è quella della pittura veneta del Cinquecento. Quando le fonti parlano di ‘cervello stravagantissimo’, parlando dei 6.000 scudi che lui rifiutò per gli affreschi Doria, questa definizione non ci parla solo del carattere e della vita di Caravaggio ma anche, secondo me, della percezione di una natura sostanzialmente sperimentale del suo lavoro. Caravaggio non lavora con metodi che vengono percepiti come inscritti nel solco della tradizione tecnica, manuale e pittorica dei suoi tempi, ma vengono visti come connotati da una forte componente sperimentale, e questo è uno degli elementi più visibili della sua traiettoria. Questi elementi non sono del tutto staccati da una tradizione storica: parlare di ‘cervelli’ significa parlare di qualcuno di più di una persona strana, e significa capire che quello che lui fa ogni volta sorprende tutti, perché ci arriva in maniera diversa rispetto a chi lo ha preceduto o ai suoi contemporanei. Un altro caso problematico era, per esempio, quello del ‘più terribile cervello che abbia mai avuto la pittura’, il Tintoretto: Vasari intendeva stroncarlo, ma chiamandolo così offre la più precisa definizione della modernità. Caravaggio ha trovato vie originali e di grande impatto e shock culturale in ambienti come quello romano che non erano poi così addentro alle novità venete che di lì a poco sarebbero giunte in modo più massivo. Non stiamo però parlando di una discendenza culturale, ma di un metodo di lavoro: c’è l’idea di produrre immagini in modo molto più cogente e rapidamente verificabile. Anche tutti questi aspetti sono stati ricombinati da Caravaggio in un’ottica nuova e traumatizzante per lo scenario nel quale operò”.
Gianni Papi si è concentrato sulla datazione dell’opera: “dal 2008”, ha detto lo storico dell’arte, “sostengo una cronologia siciliana, cioè nel 1609, dell’Ecce Homo di Genova; tale soluzione è del resto già stata avanzata in passato, anche sporadicamente e forse con poca convinzione; non sembra avventuroso pensare che il dipinto possa essere stato eseguito per i Doria ed essere stato inviato a Genova; si dovrà ricordare che proprio nel momento in cui Caravaggio soggiornava a Palermo nel 1609, era vescovo della città Giannettino Doria. E proprio su questa contingenza Anna Orlando punta (proprio nell’odierna occasione) per collegare il dipinto a un’esecuzione siciliana. Peraltro sono state individuate nelle fattezze e nell’abbigliamento di Pilato somiglianze con un grande personaggio della famiglia ligure, cioè con Andrea Doria, tuttavia tale identificazione desta forse qualche perplessità, visto che al grande personaggio verrebbe assegnato, nel quadro, un ruolo non particolarmente nobile e coraggioso, cioè quello di Pilato”. Dopo aver ricordato che l’ipotesi di una esecuzione siciliana dell’Ecce Homo era già stata ventilata in passato (per esempio da Alfred Moir nel 1967), Papi ha dichiarato che questa teoria può essere plausibile anche “sul piano del linguaggio” dell’opera. “L’ipotesi più probabile”, ha dichiarato, “è per me un’esecuzione siciliana (a Messina o a Palermo), una sosta del quadro per permettere l’esecuzione di copie che ne diffonderanno l’iconografia nell’isola, e quindi un successivo (non certo tardo) trasferimento nel capoluogo ligure. Non si può escludere ad esempio che l’Ecce Homo possa essere una delle quattro opere con soggetti Storie della Passione che Caravaggio doveva dipingere per Niccolò di Giacomo a Messina”.
C’è però un’altra ipotesi proponibile, secondo Papi, e riguarda l’eventualità che un quadro di Santi di Tito, un Ecce Homo databile agli anni Settanta del XVI secolo, “possa essere stato un oggetto di devozione per Antonio Martelli, il Cavaliere di Malta fiorentino che sempre più importanza pare avere avuto nelle vicende maltesi e messinesi del Caravaggio. Cioè colui che, con l’avanzare delle ricerche, assume ai nostri occhi il ruolo di grande protettore del pittore e che fu Priore dell’Ordine di Malta a Messina negli stessi mesi in cui vi giunse il Merisi. Il Martelli vi era infatti sbarcato il primo novembre 1608, e il Caravaggio vi arriverà circa un mese più tardi. È veramente tentante ipotizzare che il quadro di Santi fosse fra i beni del Martelli, un dipinto a lui particolarmente caro, portato da Firenze a Malta e quindi trasferito a Messina; il Merisi potrebbe dunque averlo visto nella città siciliana e, con esso sotto gli occhi, aver eseguito a Messina il suo Ecce Homo. Ciò in fondo non pregiudicherebbe la possibilità di una commissione Doria già avanzata e d’altra parte renderebbe più logica la presenza delle due copie, di cui si è già detto, di ambito messinese, delle quali quella conservata presso il Museo Regionale della città proviene sicuramente dalla chiesa locale di Sant’Andrea Avellino”.
Santi di Tito, Ecce Homo (anni Settanta del XVI secolo; tavola, 104 x 84 cm; Collezione privata) |
Rossella Vodret è tornata sul tema delle indagini diagnostiche, premettendo che queste analisi “possono aiutare lo storico dell’arte rivelando aspetti che solitamente non si vedono e ricoprendo una funzione di appoggio, che non è comunque sostitutiva dello storico dell’arte, a cui si deve il riconoscimento dell’opera d’arte”. Le recenti indagini su Caravaggio eseguite da Vodret e Falcucci hanno fatto emergere risultati confrontabili su ben trentacinque opere di Caravaggio, la metà di quelle che tipicamente gli si attribuuscono. Questi studî hanno consentito di approcciarsi in maniera più approfondita alla tecnica dell’artista lombardo. “Caravaggio”, ha affermato Vodret, “comincia a dipingere in modo tradizionale, con una preparazione della tela chiara e il disegno sulla preparazione chiara, esattamente come facevano tutti i pittori della sua epoca. La grande novità che va maturandosi negli ultimi anni del Cinquecento si ha quando le preparazioni da chiare diventano scure, e questo implica che il disegno tradizionale non si veda più, o si veda molto meno. Inizia così l’uso delle incisioni che lui adopera come fossero un disegno. Non tornerà mai, almeno secondo la nostra esperienza, sulle preparazioni chiare, che non ci sono più dopo il 1598-1599: ci sono preparazioni colorate, rosse o verdi, ma mai più chiare. Una rivoluzione geniale avviene con i dipinti della Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi a Roma: il pittore si trova a dover creare quadri enormi con misure a lui inconsuete e tantissimi personaggi, lui che era abituato a dipingere quadri piccoli con tre o quattro figure al massimo. Non solo: doveva farlo anche in fretta, il contratto è del luglio 1599 e la consegna doveva essere entro l’anno (Caravaggio consegnò le opere nel luglio del 1600). Tante figure, quadri immensi, e lui si inventò una cosa geniale, in parte individuabile già nei dipinti precedenti ma qui elevata a metodo: la preparazione scura viene utilizzata per tutte le parti in ombra. Tutto ciò che si vede nel fondo è preparazione a vista, o velata di scuro, dove era necessario. Data questa preparazione scura, Caravaggio dipinge solo le parti in chiaro che vengono in avanti rispetto al fondo, che resta scuro, quindi meno visibile, o visibile per niente. Caravaggio completa l’impostazione della composizione con abbozzi (inizialmente tratti di pennello scuro che poi diventeranno chiari o addirittura rossi), e quello che lui non lascerà più è questa preparazione a risparmio che è la cosa più geniale, cioè lasciare a vista la preparazione scura delle opere (anzi: questa tecnica aumenterà man mano che Caravaggio avanzerà nel suo iter pittorico)”.
Secondo Vodret, nell’Ecce Homo si possono ritrovare diverse delle caratteristiche esecutive tipiche di Caravaggio: “varie sovrapposizioni di stesure, preparazione a vista in alcune zone, abbozzi e incisioni. Queste caratteristiche lasciano intendere che si tratti di un originale e non di una copia (si pensi alle sovrapposizioni del perizoma: una copia non avrebbe mai dipinto il perizoma per intero per poi farlo sovrapporre)”. C’è però una perplessità, secondo Vodret: “la preparazione a vista è troppo scarsa per essere un’opera tarda come dice lo stile. Guardando il materiale pubblicato da Mina Gregori si possono trovare altre modifiche importanti per confermare l’originalità di un dipinto in generale e questo in particolare. Gregori, Orlando e Bonavera hanno individuato alcune modifiche: lo spostamento della spalla destra di Cristo, lo spostamento della posizione del pollice, lievi cambiamenti su mani, perizoma e sull’avambraccio di Cristo (anche se non sono modifiche compositive: le modifiche interessanti sono quelle compositive e non i piccoli aggiustamenti). Ce ne sono poi altre che secondo me sono più importanti perché sono compositive ma che andrebbero verificate con una nuova radiografia digitale (tutto quello che oggi diciamo è sub iudice): attorno al collo di Cristo c’è un collare (forse sotto c’era un abito di un’altra foggia), la posizione della fascia dell’aguzzino (che era quasi sugli occhi), diverse posizioni del mantello (per esempio il lembo tenuto dall’aguzzino che era parecchio più in alto). L’opera è stilisticamente tarda, non è legata al concorso Massimi, e probabilmente è stata eseguita in Sicilia, passata presto a Genova dove esistono una serie di derivazioni puntuali. Credo tuttavia che sia necessario ripensare tutta l’analisi stilistica dell’ultimo periodo di Caravaggio”.
Note sulla tecnica esecutiva sono giunte anche da Claudio Falcucci: “non escluderei che con uno studio un po’ più approfondito delle indagine riflettografiche sia impossibile individuare un reticolo più ampio di incisioni rispetto a quello che oggi individuiamo. Comprendere l’estensione di queste incisioni è un aspetto rilevante: il ruolo delle incisioni nel percorso di Caravaggio cambia notevolmente (nelle fasi giovanili non lo abbiamo, nella fase matura è un crescendo che arriva fino al 1606 e le incisioni sembrano rappresentare un’impostazione grafica completa di ciò che il pittore voleva dipingere, e dopo il 1606 tendono a diventare molto marginali fino quasi a scomparire, mentre in altri casi tornano un po’ in voga ma di norma sono poche). Capire quale sia il ruolo effettivo delle incisioni potrebbe darci indicazioni di compatibilità con un periodo piuttosto che con un altro. Sulla preparazione, leggendo le relazioni, sembrava che di preparazione a risparmio non ce ne fosse molta. Questa preparazione normalmente viene lasciata trasparire da Caravaggio in molte zone del dipinto, laddove il colore della preparazione risponde alla soluzione cromatica che il pittore vuole ottenere in superficie. Sulla mano di Pilato, per esempio, tutte le parti in ombra in realtà sono state ottenute con un pigmento scuro applicato al di sopra delle stesure pittoriche già realizzate”.
“La ridotta presenza di incisioni”, ha concluso Falcucci, è “compatibile con un dipinto in fase tarda, mentre il ruolo poco pesante della preparazione a risparmio è invece qualcosa che non torna con i dipinti del periodo tardo (dal 1607 in poi). La questione a questo punto diventa un’altra: non abbiamo la preparazione a risparmio perché magari l’elevato numero di modifiche e pentimenti fa sì che questa preparazione non possa essere percepita? Oppure quello che vediamo attualmente non è esattamente lo stato del dipinto nel momento in cui è stato completato? Noi non vediamo sicuramente il dipinto com’era quand’è uscito dalla bottega dell’artista: ci saranno stati di sicuro molti eventi traumatici per il dipinto (e questo ne ha avuti molti), e interventi volti a risanare i danni del tempo. Quella specie di stuccatura all’interno del polso del Cristo è simbolo di una modalità d’intervento che tende a voler ridare perfezione al dipinto. Spesso la preparazione al risparmio è stata vista come un’imperfezione del dipinto, causata o da scarsa attenzione del pittore, o dall’effetto del tempo che ha fatto riemergere la preparazione. L’intervento del 2003 ha cercato di dare una leggibilità all’opera e un equilibrio a un qualcosa che forse ha perso il suo equilibrio. Sappiamo però che ci sono stati interventi precedenti, come quello di Pico Cellini”.
Dopo che Laura Stagno ha tracciato un breve profilo di Giannettino Doria, si è tornati a parlare del suo ipotetico ruolo come committente dell’Ecce Homo e della possibile identificazione tra il Pilato e l’Andrea Doria dipinto da Sebastiano del Piombo. Una tesi su cui è intervenuto Lauro Magnani: “in effetti la seduzione del possibile collegamento dell’Ecce Homo con i Doria è forte, ma in realtà se si vuole riconoscere nella struttura del dipinto di Sebastiano una possibile ispirazione per Caravaggio, è contrastante il modo con cui risolve quella figura con una committenza doriana, perché la figura di Pilato, pur non essendo una figura totalmente negativa (bisognerebbe analizzare i Vangeli) può essere percepita come tale, e poi il volto è fortemente caratterizzato”.
L’Ecce Homo rimane pertanto un’opera che lascia aperti molti interrogativi, e che dovrà essere ancora studiata in futuro: l’auspicio emerso alla fine dei lavori è che il dipinto possa essere sottoposto a nuove indagini, secondo i parametri delle ultime campagne diagnostiche, che possano portare ad acquisire nuovi dati per contribuire a far luce su alcuni aspetti che ancora rimangono da chiarire.