Come dobbiamo interpretare la vittoria della finta spiaggia del padiglione della Lituania alla Biennale di Venezia?


Riflessioni sulla vittoria del Padiglione della Lituania alla Biennale di Venezia 2019: come interpretare il Leone d'Oro conferito al lavoro di Rugilė Barzdžiukaitė, Vaiva Grainytė e Lina Lapelytė?

Non era difficile prevedere che il padiglione della Lituania avrebbe conquistato l’apprezzamento pressoché unanime del pubblico della Biennale di Venezia, oltre che di tanti addetti ai lavori, per quanto, forse, non fosse così scontato immaginare che la performance curata da Lucia Petroiusti e messa in scena dalle tre artiste Rugilė Barzdžiukaitė, Vaiva Grainytė e Lina Lapelytė sarebbe stata ritenuta tanto convincente da meritarsi il Leone d’Oro. Dunque, adesso è facile pensare che il pubblico farà la coda per affollare il magazzino vicino all’Arsenale dove le tre artiste lituane hanno ricreato una finta spiaggia colma di figuranti che prendono il sole sui loro teli da mare, leggono libri e sfogliano riviste, fanno castelli di sabbia, portano cani a passeggio, e nel mentre intonano arie da operetta esprimendo le loro preoccupazioni, da quelle più banali (quale crema solare usare, come evitare di essere infastiditi dal cagnolino del vicino) a quelle più pressanti e globali, su tutte il cambiamento climatico, vero protagonista di questa specie di presepe vivente in ambientazione estiva (e il paragone, si badi, non vuol essere ironico). I commenti degli addetti ai lavori nell’anteprima della Biennale si sono concentrati per la più parte sulla componente emotiva di Sun & Sea (Marina) (questo il titolo della performance, anche se nell’opera mancano sia il sole che il mare): non era raro imbattersi in colleghi che hanno trovato emozionante, trascinante, estasiante lo spettacolo offerto da Barzdžiukaitė, Grainytė e Lapelytė.

Ed è effettivamente innegabile l’appeal di questa spiaggia apparentemente spensierata, di questo coloratissimo contesto vacanziero riprodotto dalle artiste lituane dentro uno spazio della Marina Militare, di questo brano d’umanità che simboleggia la fine del mondo per com’è immaginata dalle sue autrici, secondo le quali saranno l’apatia, la rassegnazione, e l’individualismo degli esseri umani a condurci verso una distruzione che non sarà causata da sconvolgimenti improvvisi, ma semplicemente dalla costanza della nostra pigrizia. È dunque agevole comprendere, da un lato, le ragioni del fascino che quest’opera esercita sul pubblico, e dall’altro le motivazioni che hanno portato la giuria internazionale (anch’essa tutta al femminile) a premiare il padiglione lituano: Sun & Sea (Marina) affronta con leggerezza estrema un tema d’urgentissima attualità, si rivolge al pubblico con facilità ammiccante, utilizza il linguaggio del musical e si presenta pertanto con toni del tutto familiari, che riescono ad avvicinare anche le porzioni del pubblico più restie nei confronti della performance art.

Il padiglione della Lituania
Il padiglione della Lituania alla Biennale di Venezia 2019. Ph. Credit Andrea Avezzù. Courtesy La Biennale di Venezia


Il padiglione della Lituania
Il padiglione della Lituania. Ph. Credit Andrea Avezzù. Courtesy La Biennale di Venezia

Se è dunque chiaro capire perché il padiglione è stato premiato, più arduo è comprendere che cosa è stato premiato: valutare la vittoria della Lituania alla cinquantottesima Biennale di Venezia potrebbe essere, per esempio, un buon esercizio per interrogarsi sull’estensione dei confini della performance art e sugli elementi che la separano dal teatro. Questo almeno se occorre seguire Marina Abramović quando affermava, in un’intervista al Guardian del 2010, che per essere performer è necessario odiare il teatro, dal momento che il teatro è finzione mentre la performance è l’esatto opposto: e il padiglione della Lituania appare come il dominio della finzione, è un grande tableau vivant che il pubblico osserva dall’alto senza che ci sia un coinvolgimento attivo, con modalità che non sono poi così lontane da quelle di certe forme d’intrattenimento dell’Inghilterra vittoriana (e che, peraltro, neppure avevano grosse pretese artistiche).

C’è poi da domandarsi su quanto ci sia di nuovo, originale, sperimentale in Sun & Sea, che sembra la versione zuccherosa, edulcorata, child-friendly, mellifua ed educata delle performance di Tino Sehgal o di Tania Bruguera. Opere che, oltre a essere dotate di spessore ben superiore (il padiglione lituano si smaterializza inesorabilmente al confronto con opere di Tino Sehgal come This is so contemporary, peraltro presentata a un’altra edizione della Biennale, o These Associations, o con una performance come Tatlin’s Whisper di Tania Bruguera, che a tutta prima sembrerebbero costituire i più immediati precedenti del lavoro di Barzdžiukaitė, Grainytė e Lapelytė), e a essersi dimostrate certamente più forti e incisive rispetto al teatrino allestito nello spazio vicino all’Arsenale, erano più strettamente legate a quell’elemento della presenza che molti critici hanno individuato come fondamento della performance art. Leone d’Oro, dunque, a un’esperienza che, a voler esser generosi, si potrebbe definire come una ripresa manierata, fiacca e colorata delle constructed situations e della arte de conducta degli artisti summenzionati. Non solo: c’è chi in Lituania, sui social, ha sottolineato l’estrema somiglianza tra il lavoro delle tre artiste premiate alla Biennale e un’opera del 2013 di un fotografo anch’egli lituano, Tadao Cern: intitolata Comfort zone, si trattava d’una serie di fotografie che catturavano, dall’alto, ignari bagnanti sulla spiaggia, riletta come luogo in cui l’umanità vive nella più totale assenza di preoccupazioni (appunto una comfort zone nella quale nessuno, una volta tolti i vestiti, si cura del giudizio altrui o, quanto meno, indossa una maschera che celi difetti, vizî, imperfezioni).

Tino Sehgal, These Associations (2012)
Tino Sehgal, These Associations (2012)


Tania Bruguera, Tatlin's Whisper #5
Tania Bruguera, Tatlin’s Whisper #5 (2008, nella foto la rappresentazione alla Tate Modern del 2016)


Tadao Cern, Comfort Zone (2013)
Tadao Cern, Comfort Zone (2013)

Infine, occorre chiedersi se il Leone d’Oro alla Lituania in quest’edizione della Biennale di Venezia possa configurarsi come un tentativo di accorciare le distanze (innegabili) tra arte contemporanea e grande pubblico. Un tentativo che, nel caso, sarebbe senz’altro goffo, per quanto sia altrettanto inconfutabile il fatto che, per una certa idea d’arte oggi particolarmente diffusa (e secondo la quale l’arte dev’essere consuetudinaria e, per certi versi, rassicurante), valida tanto per l’arte antica quanto per quella contemporanea, il padiglione lituano abbia rappresentato in tal senso l’opera meglio riuscita di tutta la Biennale (e, sempre da questo punto di vista, non sembra esserci molta lontananza tra Sun & Sea e, per esempio, l’ennesima mostra blockbuster su Frida Kahlo o sugli impressionisti, o le visite al museo trasformate in “passeggiate di bellezza”, per dirla alla Gramellini). Ma in questo caso c’è forse un altro aspetto su cui provare a riflettere.

In un suo recente saggio sulla rappresentazione delle differenze nell’arte contemporanea (che il pubblico italiano può facilmente trovare nel libro Che cos’è dunque l’altro?, pubblicato quest’anno), Marc Augé ha tra l’altro ribadito che il principale obiettivo dell’arte, più che sovvertire, è mostrare, e che per riuscire a vedere e mostrare “occorre trovare delle prospettive, sperimentare e spostare i limiti consentiti, calare l’osservazione nel tempo e nello spazio”, aggiungendo che, per esempio, in ambito cinematografico le produzioni più interessanti siano quelle che aboliscono i confini tra fiction e documentario. Nel caso di Sun & Sea il problema non è tanto il fatto che l’opera somigli più a un’astrazione pura (e poco incisiva) che a un contesto, e non è neppure il mancato tentativo di sperimentare vie nuove per fornire al pubblico una rappresentazione del reale (non c’è niente di male in un lavoro che non sia originale, né c’è da attendersi che la Biennale premi a tutti i costi l’originalità): il problema, semmai, è che questo lavoro sembrerebbe rincorrere i linguaggi di altre forme di espressione creativa, più che unirli per produrre un risultato elevato e consistente (come ha fatto invece egregiamente, giusto per avanzare un esempio che rimanga entro i confini della Biennale di quest’anno, Laure Prouvost al padiglione della Francia), ed è ozioso ricordare che, in arte come in qualunque altro campo (a cominciare dalla politica), la rincorsa e l’imitazione niente possono di fronte all’originale.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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