La Loggia del Romanino nel Castello del Buonconsiglio di Trento: storia e significato di un capolavoro del Cinquecento


La Loggia Grande del Magno Palazzo nel Castello del Buonconsiglio a Trento fu affrescata, tra il 1531 e il 1532, da Girolamo Romani, detto il Romanino: è uno dei grandi capolavori del Cinquecento.

“Una specie di volta della Farnesina, per quanto riguarda i compiti illustrativi e la ripartizione formale”: così, nel 1930, lo storico dell’arte Antonio Morassi definiva la Loggia Grande del Castello del Buonconsiglio a Trento, uno degli ambienti affrescati tra i più sontuosi e magnifici dell’intero Trentino. A decorarla fu, tra il 1531 e il 1532, uno dei più grandi artisti del tempo: Girolamo Romani, detto il Romanino (Brescia, 1485 - 1566). La città a quel tempo era governata da Bernardo Clesio (o Bernardo di Cles, Cles, 1485 - Bressanone, 1539), esponente di spicco di una nobile famiglia trentina e divenuto vescovo di Trento nel 1514: all’epoca, il Trentino (che comprendeva anche una parte dell’odierna provincia di Bolzano) era uno stato autonomo, dipendente dal Sacro Romano Impero e retto dal principe vescovo, in una forma di governo che sopravvisse per otto secoli (dall’XI al XIX). Negli anni immediatamente precedenti alla realizzazione del capolavoro del Romanino, il Trentino fu sconvolto da una rivoluzione partita dagli strati più umili della popolazione e che si poneva, tra gli altri, il fine d’abbattere l’autorità del principe vescovo: passata alla storia come Bauernkrieg, “guerra dei contadini”, la rivolta, guidata da Michael Gaysmair, scoppiò nel 1525, e tuttavia Clesio riuscì ad avere la meglio sugli insorti nel volgere di poco meno di quattro mesi. Dopo aver soffocato la sedizione, il principe vescovo volle riaffermare con forza la propria autorità, e l’arte fu uno degli strumenti con i quali Bernardo Clesio intese raggiungere i proprî obiettivi. Nel suo programma politico figurava la costruzione di una vera reggia che sarebbe divenuta la maestosa residenza dei principi vescovi: era il 1528 quando cominciarono i lavori del Magno Palazzo, il corpo cinquecentesco del Castello del Buonconsiglio, costruito sopra alle mura medievali e a fianco di Castelvecchio, il nucleo più antico. Clesio era un politico dalla caratura più simile a quella d’un principe rinascimentale che a quella d’un prelato: il rinnovamento investì tutta la città, interessata da un radicale riassetto (per esempio, fu promossa la costruzione di edifici in pietra piuttosto che in legno, il materiale da costruzione tradizionale del luogo, e ancora furono aperte nuove strade, rettilinee e perpendicolari secondo i principî dell’urbanistica rinascimentale, venne dato impulso all’edificazione d’imponenti palazzi in stile classicheggiante), e il Magno Palazzo divenne il simbolo più evidente del nuovo corso impresso dal principe vescovo.

Sul finire dell’estate del 1531, i lavori di costruzione delle strutture architettoniche del Magno Palazzo volgevano al termine, tanto che Bernardo Clesio poté cominciare a chiamare gli artisti che si sarebbero occupati delle decorazioni. Conscio che l’edificio doveva essere al contempo strumento di potere e immagine del proprio prestigio e del proprio gusto, Bernardo Clesio diede avvio a una febbrile attività di vero supervisore della realizzazione delle parti decorate della sua dimora. Teneva personalmente i rapporti con gli artisti e con i “soprastanti” (ovvero i soprintendenti) delle fabbriche, quando poteva si recava nei cantieri per verificare l’avanzamento dei lavori, si premurava di dialogare non solo con i pittori ma anche con gli scalpellini e con i muratori affinché tutto procedesse per il verso giusto, e quando non poteva essere presente perché i suoi numerosissimi impegni diplomatici e politici lo portavano fuori dal Trentino, si faceva sentire attraverso copiose lettere, tanto che uno dei più grandi storici dell’arte del Novecento, Enrico Castelnuovo, curatore d’un corposo studio sul Castello del Buonconsiglio, definì Clesio “un attivissimo committente per corrispondenza”. Questo studio ci ha restituito un’affascinante fotografia del tipo di relazione che Clesio aveva instaurato con i suoi pittori. Il vescovo era anzitutto ossessionato dal rispetto delle tempistiche dei lavori, oltre che dei budget: nelle sue missive dimostrava viva preoccupazione nel caso i lavori fossero andati a rilento, si adoperava per cercare soluzioni che avessero potuto accelerarli, non nascondeva la propria ansia se interveniva qualche imprevisto, monitorava costantemente le spese. Anche l’incarico affidato al Romanino doveva essere fondato sul risparmio: “circa quello excellente pittore bressano che si ha offerto venire”, scrisse in una lettera inviata ai soprastanti tra il 26 giugno e il 6 luglio del 1531 da České Budějovice in Boemia, “si rimettemo a vui. Essendo bisogno, fareti quello medemo fatti cum li altri: et procurate siamo ben serviti cum mancho spesa si possa” (si tratta, peraltro, di un documento fondamentale per ricavare informazioni sul termine post quem della presenza del Romanino a Trento).

Ma soprattutto, Clesio discuteva con gli artisti in merito ai soggetti delle opere, preoccupandosi soprattutto che fossero acconci a un palazzo che non era soltanto residenza del principe, ma anche sede diplomatica atta a ricevere delegazioni straniere. Non c’era dunque spazio per soggetti che la morale dell’epoca ritenesse sconvenienti: in una lettera in cui si fa riferimento al proposito di Dosso Dossi (Giovanni di Niccolò Luteri, San Giovanni del Dosso, 1474 - Ferrara, 1542), altro grande pittore impegnato nell’impresa, di decorare alcune stanze con scene del sacco di Roma e della battaglia di Pavia (durante la quale i francesi guidati da re Francesco I furono sonoramente sconfitti dall’Impero), Clesio scrisse che “nui siamo de parer contrario per dui rispetti, l’uno per esser opera di grande tempo e spesa, l’altro per esser cosa molto odiosa saltem per rispetto di Roma: et poderia accadere che ’l venisse [il papa], i sui legati, nuncii, oratori, [re di Francia], et vedendo quelle loro figure, pareria le fusseno fatte in dispresio”. Caratteristica peculiare del programma iconografico degli affreschi del Magno Palazzo è la loro semplicità. Castelnuovo ha rimarcato come Clesio non fosse interessato a temi particolarmente eruditi e complessi: al principe vescovo premeva anzitutto che le decorazioni fossero ricche e, in accordo con l’indole parsimoniosa del personaggio, che fossero anche durevoli nel tempo e non risentissero di danni causati dagli agenti atmosferici. E però a Clesio, che cercava sì di massimizzare le risorse a sua disposizione ma era comunque preso dalla voglia di costruirsi una residenza sontuosa, interessava anche che ci fosse oro ovunque, e talvolta anche a lavoro finito, il principe vescovo dava disposizione affinché le decorazioni fossero arricchite con dorature supplementari. Più gli affreschi erano ricchi e sfarzosi, meglio incontravano il gusto del committente. Lo si evince anche dalle sue lettere, come quella inviata nel settembre del 1531 al soprastante Andrea Crivello, nella quale scrive: “quanto al friso della sala grande, insieme cum li altri tu disponerai sì como ne hai scritto, over cum qualche meglior modo che si potrà excogitar. Et considerando la belleza, grandezza et altri adornamenti di essa sala, tu poi imaginarti di che sorte debba esser questo friso, con ciò che sia molto desideremo che ’l sia vago, grande, riccho di oro et che corrisponda al resto de la sala”.

Altro aspetto singolare del suo programma fu la mancanza d’intermediarî tra committenza e artisti: ovvero, per quanto ne sappiamo, al Castello del Buonconsiglio non ci fu, come invece accadeva pressoché ovunque nel resto d’Italia, un letterato, un umanista o un erudito che elaborasse i soggetti dei dipinti. Nel Magno Palazzo, la discussione sui temi degli affreschi coinvolgeva esclusivamente il principe, gli artisti e i soprastanti: Clesio accordava, peraltro, una certa libertà di scelta agli artisti, fatte salve, come s’è visto, le sue disposizioni sulla decenza delle scene, e tenuto conto del fatto che, ad ogni modo, le figurazioni delle pareti dovevano avere il suo esplicito nulla osta. Quando, per esempio Andrea Crivello gli presentò i disegni di Dosso per le decorazioni della “Stua granda” (oggi non più esistenti), Clesio espresse la sua contrarietà per il fatto che tali disegni (erano episodî del Vecchio Testamento) gli sembravano “più presto esser cosa di giesia che convenirsi a uno loco simile”, ovvero parevano più adatti a una chiesa che a un palazzo, e suggerì pertanto di aggiungere “qualche fabula de Ovidio over de altra, secondo che vi paresse esser più al proposito”. Il committente, tuttavia, salvo che per rare eccezioni, non fornì mai indicazioni precise sui soggetti da dipingere, ma si limitava a dare idee piuttosto approssimative. Per esempio, in una lettera del 1° luglio 1533, il cui tema sono le decorazioni della loggia del giardino, si legge che “quanto alle depenture de la logia nel giardino, havemo iudicato esser meglio che si facia le figure conforme al loco, come sono verdure, caccie et simile cose et cossì exequirete”. E data la mancanza d’indicazioni precise, ne risulta anche la mancanza d’un vero programma iconografico complessivo per tutto il Magno Palazzo, o anche solo per parte di esso. Quello di Trento è dunque un caso piuttosto raro, col risultato che l’armonia tra le sale è direttamente proporzionale all’esperienza e alla cultura dei singoli artisti: lo studioso Thomas Frangenberg, in un suo studio dedicato proprio alla decorazione del Magno Palazzo, ha sottolineato che le sale affrescate da Dosso Dossi e da suo fratello Battista (San Giovanni del Dosso, 1517 - Ferrara, 1548) tendono ad avere una maggior coerenza intellettuale rispetto a quelle affidate al Romanino (Dosso, del resto, rispetto al più giovane Romanino vantava una lunga esperienza alla corte di Ferrara, mentre il bresciano a quella data aveva lavorato solo per committenti ecclesiastici, e l’impresa della Loggia era quella culturalmente più impegnativa che gli fosse mai capitata).

Romanino, Affreschi della Loggia Grande del Magno Palazzo (1531-1532; affreschi; Trento, Castello del Buonconsiglio). Ph. Credit D. Lira
Romanino, Affreschi della Loggia Grande del Magno Palazzo (1531-1532; affreschi; Trento, Castello del Buonconsiglio). Ph. Credit D. Lira


La Loggia del Romanino, dettaglio. Ph. Credit P. Marlow
La Loggia del Romanino, dettaglio. Ph. Credit P. Marlow


La Loggia del Romanino, dettaglio. Ph. Credit G. Carfagna
La Loggia del Romanino, dettaglio. Ph. Credit G. Carfagna


La Loggia del Romanino, dettaglio. Ph. Credit R. Bragotto
La Loggia del Romanino, dettaglio. Ph. Credit R. Bragotto


La Loggia del Romanino, dettaglio
La Loggia del Romanino, dettaglio

Le lacune in fatto di coerenza valgono anche per il capolavoro del Romanino, la magnifica Loggia da lui interamente affrescata. Non c’è, in altri termini, un filo unitario che leghi tutte le composizioni che l’artista affrescò nel magnifico ambiente: vediamo scene tratte dal repertorio della classicità e da episodî biblici che potrebbero riferirsi alle virtù della donna, ma a queste s’aggiungono anche soggetti mitologici e altre allegorie la cui relazione con il resto delle figurazioni della Loggia non appare del tutto chiaro. Il primo a fornire una descrizione degli affreschi di questo ambiente di passaggio, che funge da collegamento tra due diverse parti del Magno Palazzo, fu il medico senese Pietro Andrea Mattioli (Siena, 1501 - Trento, 1578), che nel 1539 pubblicò a Venezia un poemetto in ottava rima il cui soggetto è facilmente intuibile dal titolo: Il Magno Palazzo del Cardinale di Trento (c’è da specificare che, nel 1530, Clesio fu creato cardinale da papa Clemente VII). Mattioli si stabilì a Trento nel 1527 e ottenne il titolo di medico di corte: la sua professione, tuttavia, non gl’impediva di cimentarsi anche con le lettere. Il suo poemetto ebbe scarsa fortuna, ma è oggi una fonte preziosa per ricostruire le vicende del Magno Palazzo nei suoi primi anni di vita (anche perché si tratta della prima e più dettagliata descrizione dell’edificio pubblicata in tutto il Cinquecento). La Loggia viene presentata al lettore in questi versi: “Sopra colonne di pietra durissima / Di mille intagli fabbricate, e cinte, / In volta gira una loggia dignissima, / Con le sue circostanze ben distinte, / E se non è di gran larghezza amplissima, / Le belle historie, che quivi son pinte, / E molto ornate di colori e d’oro, / Fanno assembrarla ad un celeste choro”. Segue la descrizione degli affreschi, presentati nell’ordine in cui si susseguono, con l’unica eccezione delle tre scene di concerto, enumerate tutte per ultime. Gli affreschi decorano la volta e le lunette che si dispongono lungo le cinque arcate e sul lato opposto: cominciando dalla parte più vicina alle scale, troviamo nell’ordine l’eroina biblica Giuditta che decapita il generale assiro Oloferne, un concerto, l’assassinio di Virginia da parte del padre Virginio (un episodio tratto dalla storia antica: il padre uccise la figlia per salvarla da un’odiosa violenza che il decemviro Appio Claudio si apprestava a compiere su di lei), il suicidio di Lucrezia (la bella romana che si uccise a seguito dello stupro subito da Tarquinio, figlio del re Tarquinio il Superbo), le tre Grazie, la morte di Cleopatra, un ulteriore concerto, Dalila che taglia i capelli a Sansone (com’è noto, l’eroe biblico aveva rivelato alla donna da lui amata che il segreto della sua forza risiedeva proprio nei suoi capelli, che se tagliati gli facevano perdere il suo prodigioso vigore), un terzo concerto, e infine la scena con Amore e Psiche, la favola narrata da Apuleio. Al centro della volta troviamo invece l’affresco che rappresenta la Caduta di Fetonte, attorniato dalle allegorie delle quattro stagioni. È decorata anche la volta dell’ambiente vicino alla scala che conduce verso il piano superiore, con l’episodio del Ratto di Ganimede. Infine, i pennacchi sono decorati con le allegorie del sole e della luna e con otto nudi (sette maschili e uno solo femminile). Altri nudi più piccoli, dipinti a monocromo, occupano invece i medaglioni posti nelle velette.

Difficile stabilire il senso complessivo dell’opera data l’eterogeneità delle scene rappresentate: tuttavia c’è chi ha provato a farlo. Tra questi, lo storico dell’arte Alessandro Nova, esperto dell’arte del Romanino, che ha provato a spiegare le raffigurazioni sulla volta in relazione al fatto che l’ambiente si affaccia su di un esterno e assiste pertanto al cambiare delle stagioni e all’alternarsi del giorno e della notte. In breve, per usare le parole di Nova, tali figurazioni “si prestano bene alla decorazione di una loggia che l’artista ha immaginato aperta sul cielo”. Quanto invece alle scene delle lunette, Nova trova un fil rouge nel fatto che tutte rimanderebbero al tema delle pene d’amore, e sarebbero state dunque “adatte alla funzione dell’ambiente destinato a ospitare piacevoli balli accompagnati da concerti analoghi a quelli rappresentati dal Romanino nelle altre lunette della stessa loggia”. Ad ogni modo, una lettura come quella proposta da Nova (peraltro base per una più recente interpretazione che presuppone invece l’esistenza d’un preciso messaggio, e di cui si darà conto più avanti), non sarebbe comunque incompatibile con la “linea” di Bernardo Clesio: ovvero, si tratterebbe di temi semplicemente adatti al tipo di ambiente, ma comunque privi di un programma iconografico elaborato o definito nei singoli dettagli. Tuttavia lo studioso sottolineava anche come la scelta di decorare un ambiente architettonico (forse proprio una loggia) con storie di eroine classiche o bibliche avesse un precedente, un disegno di Albrecht Dürer (Norimberga, 1471 - 1528) risalente al 1521.

Quanto ai dieci ignudi, attorno a queste figure così particolari si concentra un’interessante considerazione di Mattioli, che così scrive nel suo poema: “Attorno attorno ai nobil pavimenti / Mostrat’hal buon pittor l’arte qual sia / Di finger corpi in vivi gesti, / Se ben dice qualchun non sono honesti. / L’arte del buon pittor degna si vede / Nel saper ben formare un corpo ignudo. / Non fa dell’eccellenza vera fede / Il vestir chi di gonna, e chi di scudo. / Hor s’io calco a qualcuno addosso ’l piede / Taccia, ch’il ver dell’arte gli concludo. / Facil cosa è sopra una bella vesta / Accomodar qualche leggiadra testa. / S’honesta ben non parve la pittura, / Come si richiedeva al luogo degno, / Lo fe il pittor per mostrar che natura / Ben sapeva imitar con suo disegno. / Ma perche d’honestà poi ebbe cura / Il tutto ritrattò con grand’ingegno, / E dimostrò col divin pennello / Fare, e disfar sapea qualcosa anch’ello”. Il medico-poeta parte da una constatazione: il vero artista è colui ch’è in grado di dipingere correttamente un corpo nudo, perché è molto più difficile raffigurare le anatomie d’un corpo umano piuttosto che una bella veste alla quale aggiungere una testa, e di conseguenza è dalla sua abilità nel genere del nudo che si misurano la sua qualità e il suo talento. Tuttavia, prosegue Mattioli, il nudo si scontra con le necessità di “honestà”, ovvero di decoro: il suo poema include dunque una formulazione teorica del problema della compatibilità tra il nudo e le imposizioni delle regole della decenza. L’autore interviene dunque con alcuni versi (“Il tutto ritrattò con grand’ingegno, / E dimostrò col divin pennello / Fare, e disfar sapea qualcosa anch’ello”) che sono di non semplice interpretazione. Appare chiaro che tra le ragioni del nudo e quelle del decoro, Mattioli propenda per queste ultime, ma risulta più fumoso comprendere come il Romanino si sarebbe comportato nei confronti delle sue figure, dal momento che il poeta scrive che l’artista sapeva “fare e disfare”. Effettivamente, i dieci nudi, in un dato momento della storia, furono coperti (un po’ com’era successo ai nudi della Cappella Sistina), e le aggiunte sono state rimosse solo di recente, con i restauri del 1985-1986. Qualcuno ha interpretato i versi di Mattioli come se il Romanino stesso fosse stato coinvolto nel processo di copertura delle membra ignude, ma la scarsa qualità delle vesti sovrapposte rende del tutto improbabile l’ipotesi che sia stato il pittore bresciano a dipingerle (la relazione dei restauri degli anni Ottanta ipotizzava che le aggiunte risalissero al Settecento). Nova ha suggerito che, benché le ridipinture eliminate negli anni Ottanta fossero di molto successive, anche il Romanino potrebbe essere intervenuto con aggiunte realizzate a secco. In alternativa, sempre secondo Nova, Mattioli potrebbe riferirsi soltanto alle figure delle quattro stagioni, i cui genitali sono stati effettivamente coperti dal Romanino in persona. Secondo Frangenberg è invece più probabile che Mattioli si riferisse al processo della creazione artistica in termini generali che a un caso concreto, anche perché è lui stesso a fornire una giustificazione ai nudi (che non hanno alcun significato simbolico: servono solo per dimostrare le capacità di mímesis dell’artista): è possibile che il medico senese abbia inteso paragonare l’ingegno del pittore a quello della natura, dal momento che entrambi sono dotati del potere di “fare e disfare” (e in questo caso, probabilmente il “disfare” riferito al Romanino è da intendersi come la sua abilità nel dipingere anche figure vestite nel caso le leggi del decoro l’avessero richiesto).

Loggia del Romanino, dettaglio: la caduta di Fetonte. Ph. Credit Francesco Bini
Loggia del Romanino, dettaglio: la caduta di Fetonte. Ph. Credit Francesco Bini


Loggia del Romanino, dettaglio: allegoria della Primavera. Ph. Credit Francesco Bini
Loggia del Romanino, dettaglio: allegoria della Primavera. Ph. Credit Francesco Bini


Loggia del Romanino, dettaglio: allegoria dell'Estate. Ph. Credit Francesco Bini
Loggia del Romanino, dettaglio: allegoria dell’Estate. Ph. Credit Francesco Bini


Loggia del Romanino, dettaglio: allegoria dell'Autunno. Ph. Credit Francesco Bini
Loggia del Romanino, dettaglio: allegoria dell’Autunno. Ph. Credit Francesco Bini


Loggia del Romanino, dettaglio: allegoria dell'Inverno. Ph. Credit Francesco Bini
Loggia del Romanino, dettaglio: allegoria dell’Inverno. Ph. Credit Francesco Bini


Loggia del Romanino, dettaglio: allegoria del Sole. Ph. Credit Francesco Bini
Loggia del Romanino, dettaglio: allegoria del Sole. Ph. Credit Francesco Bini


Loggia del Romanino, dettaglio: allegoria della Luna. Ph. Credit Francesco Bini
Loggia del Romanino, dettaglio: allegoria della Luna. Ph. Credit Francesco Bini


Loggia del Romanino, dettaglio: Giuditta e Oloferne. Ph. Credit Francesco Bini
Loggia del Romanino, dettaglio: Giuditta e Oloferne. Ph. Credit Francesco Bini


Loggia del Romanino, dettaglio: assassinio di Virginia. Ph. Credit Francesco Bini
Loggia del Romanino, dettaglio: assassinio di Virginia. Ph. Credit Francesco Bini


Loggia del Romanino, dettaglio: suicidio di Lucrezia. Ph. Credit Francesco Bini
Loggia del Romanino, dettaglio: suicidio di Lucrezia. Ph. Credit Francesco Bini


Loggia del Romanino, dettaglio: suicidio di Cleopatra. Ph. Credit Francesco Bini
Loggia del Romanino, dettaglio: suicidio di Cleopatra. Ph. Credit Francesco Bini


Loggia del Romanino, dettaglio: le tre Grazie. Ph. Credit Francesco Bini
Loggia del Romanino, dettaglio: le tre Grazie. Ph. Credit Francesco Bini


Loggia del Romanino, dettaglio: Sansone e Dalila. Ph. Credit Francesco Bini
Loggia del Romanino, dettaglio: Sansone e Dalila. Ph. Credit Francesco Bini


Loggia del Romanino, dettaglio: Amore e Psiche (o Venere e Cupido). Ph. Credit Francesco Bini
Loggia del Romanino, dettaglio: Amore e Psiche (o Venere e Cupido). Ph. Credit Francesco Bini


Loggia del Romanino, dettaglio: Concerto. Ph. Credit Francesco Bini
Loggia del Romanino, dettaglio: Concerto. Ph. Credit Francesco Bini


Loggia del Romanino, dettaglio: Concerto. Ph. Credit Francesco Bini
Loggia del Romanino, dettaglio: Concerto. Ph. Credit Francesco Bini


Loggia del Romanino, dettaglio: Concerto. Ph. Credit Francesco Bini
Loggia del Romanino, dettaglio: Concerto. Ph. Credit Francesco Bini


Loggia del Romanino, dettaglio: nudo. Ph. Credit Francesco Bini
Loggia del Romanino, dettaglio: nudo. Ph. Credit Francesco Bini


Loggia del Romanino, dettaglio: nudo. Ph. Credit Francesco Bini
Loggia del Romanino, dettaglio: nudo. Ph. Credit Francesco Bini


Loggia del Romanino, dettaglio: nudo. Ph. Credit Francesco Bini
Loggia del Romanino, dettaglio: nudo. Ph. Credit Francesco Bini


Loggia del Romanino, dettaglio: nudo. Ph. Credit Francesco Bini
Loggia del Romanino, dettaglio: nudo. Ph. Credit Francesco Bini


Loggia del Romanino, dettaglio: nudo. Ph. Credit Francesco Bini
Loggia del Romanino, dettaglio: nudo. Ph. Credit Francesco Bini


Loggia del Romanino, dettaglio: nudo. Ph. Credit Francesco Bini
Loggia del Romanino, dettaglio: nudo. Ph. Credit Francesco Bini


Loggia del Romanino, dettaglio: nudo. Ph. Credit Francesco Bini
Loggia del Romanino, dettaglio: nudo. Ph. Credit Francesco Bini


Loggia del Romanino, dettaglio: nudo. Ph. Credit Francesco Bini
Loggia del Romanino, dettaglio: nudo. Ph. Credit Francesco Bini


Loggia del Romanino, dettaglio: nudo monocromo. Ph. Credit Francesco Bini
Loggia del Romanino, dettaglio: nudo monocromo. Ph. Credit Francesco Bini

La lettura degli affreschi può cominciare con l’episodio della Caduta di Fetonte, il mitologico figlio del dio Elio che, dopo aver chiesto con insistenza al padre di poter guidare il carro del Sole, per via della sua inesperienza con il mezzo cadde rovinosamente a terra (episodio che, nel contesto della residenza d’un principe, può assumere un significato politico, come invito a governare con saggezza e senza prendere decisioni avventate). L’artista rappresenta Fetonte alla guida del carro sullo sfondo d’un cielo azzurro solcato da nubi: il Romanino dimostra qui il suo talento nell’ambito della resa prospettica proponendo i cavalli in un ardito scorcio da sottinsù, facendoli galleggiare nell’aria (e per rivedere qualcosa di simile ci sarebbero voluti circa novant’anni: i più degni successori dei cavalli del pittore bresciano sono quelli affrescati nel 1621 dal Guercino al Casino dell’Aurora di Roma) e ponendoli entro uno schema obliquo che dona ulteriore movimento alla scena. I fondi azzurri sono la base di tutte le scene del ciclo della Loggia Grande, e su di essi giganteggiano le figure alle quali il Romanino conferisce risalto quasi plastico, accentuato dalla luce emanata dai fondi azzurri e dal conseguente contrasto con le ombre realizzate con colori terrosi, anch’esse capaci d’infondere vividezza ai personaggi dipinti sulla Loggia, malgrado la gamma cromatica ridotta adoperata dall’artista: “soltanto un colorista cresciuto fra le luci di Tiziano”, ha scritto Morassi, “poteva realizzare tanta potenza cromatica con così pochi accordi”. Morassi notava inoltre un’ulteriore caratteristica delle figure del Romanino, che le distanziavano, per esempio, da quelle che Michelangelo, nello stesso periodo, dipingeva sulle pareti della Cappella Sistina. Quelle del Romanino non erano figure “idealizzate classicamente”: se in Michelangelo “l’intenzione plastica è sempre evidente e la figura vuol essere serrata in un blocco unito”, nel Romanino “i corpi sono disciolti in forme pittoriche, fluide, sgombre da ogni preconcetto architettonico: hanno vita quale sostanza coloristica, non quale sostanza statuaria. Così, il trattamento anatomico è inteso liberamente, naturalisticamente, e con tutte le accidentalità della forma umana sempre diversa, secondo n’è diverso l’individuo”. Queste caratteristiche appaiono evidenti se si osservano le allegorie delle quattro stagioni, ognuna presieduta da una divinità (Flora per la primavera, Pomona per l’estate, Bacco per l’autunno e Saturno per l’inverno), ma anche le allegorie del sole e della luna oltre che, ovviamente, gl’ignudi: i corpi s’atteggiano in pose libere da costrizioni, sciolte e anticlassiche, ognuna diversa dall’altra, le figure appaiono in movimento (alcune sembra si stiano alzando o sollevando, come nel caso dell’allegoria dell’inverno, altre invece si protendono, altre ancora si lanciano in repentine e talora sgraziate torsioni), e il particolare del vento che agita chiome e barbe è quasi un anticipo di barocco. Una simile “rivoluzione” anticlassica era quella che stava portando avanti, all’incirca negli stessi anni, Giulio Romano (Giulio Pippi de’ Jannuzzi, Roma, 1499 - Mantova, 1546) a Mantova, a Palazzo Te, ma anche l’illustre allievo di Raffaello, nei suoi potenti nudi, non aveva potuto far a meno di confrontarsi con la classicità (si pensi al solo Marte nella scena con il bagno di Venere e Marte: è una citazione dell’Apollo del Belvedere).

La vena anticlassica del Romanino caratterizza anche molti degli episodî dipinti sulle lunette che, come s’è visto, narrano tutti storie d’eroine bibliche o della mitologia o della storia antica. Di recente, lo studioso Hanns-Paul Ties, specialista di Rinascimento nordico, ha provato a fornire una nuova interpetazione per tali scene, collegandole a quelle che il Romanino dipinse attorno alla scala e nel “revolto”, l’ambiente che si trova al di sotto della Loggia, e proponendo di leggerle come parte di un unico programma iconografico (al quale tuttavia, sottolinea lo stesso Ties, non apparterrebbero gli affreschi della volta della Loggia, ovvero il Fetonte e le stagioni, e neppure alcune scene della scala e del “revolto”). Lo storico dell’arte parte dalla constatazione che la Loggia era un ambiente importante e centrale, dal momento che da essa si potevano raggiungere tutti i piani del Magno Palazzo, e Loggia e Cortile potevano all’occorrenza essere utilizzati come ambienti per far attendere gli ospiti del principe vescovo in attesa di essere ricevuti, ma anche come sede di feste e banchetti. Le lunette, peraltro, erano state interpretate anche come scene che alludono alle qualità positive della donna, che potremmo riassumere nella castità (Lucrezia e Virginia), nella determinazione (Dalila), nel coraggio (Cleopatra) e nella virtù capace di sconfiggere il vizio (Giuditta), per una lettura che comunque escluderebbe la scena mitologia di Amore e Psiche, le tre Grazie e i concerti. Ties, al contrario, suggerisce che potrebbe essere trovare un fil rouge nel tema dell’amore: si potrebbe dunque cominciare cambiando la lettura dell’immagine con Amore e Psiche, provando a interpretarla come la raffigurazione di Venere e Amore (non ci sono impedimenti d’ordine iconografico e anzi, suggerisce Ties, sarebbe stato per l’epoca del tutto inusuale non inserire una scena con Amore e Psiche nel contesto d’un ciclo che narrasse tutta la favola), a cui si legherebbero dunque le tre Grazie in quanto ancelle della dea. I concerti potrebbero quindi esser letti come rimando alla musica quale metafora amorosa (un topos tipico del Rinascimento: inoltre, aggiunge Ties, in una delle scene i suonatori si dilettano con quattro flauti, interpretabili come simbolo fallico, e la donna a sinistra sta per porgere un frutto all’uomo a fianco a lei, per un’allegoria dell’invito erotico). Le rimanenti scene, come aveva intuito Nova, potrebbero essere lette non solo come legate dal motivo delle pene d’amore, ma anche come episodî in cui un amore ha avuto esiti fatali: per Sansone, la cui morte fu in ultimo conseguenza dell’amore nutrito verso la sua seduttrice, per Oloferne, decapitato dalla donna con cui voleva unirsi, per Virginia e Lucrezia vittime del vizio maschile, e per Cleopatra, che secondo la letteratura medievale non era simbolo di coraggio, bensì di vizio, in quanto donna dedita ai piaceri carnali e da questi resa folle e condotta alla rovina. Tutte storie il cui esito, in buona sostanza, si deve all’azione del potere dell’amore, qui letto in senso negativo. Secondo Ties, il tema delle conseguenze nefaste dell’amore prosegue anche in altre scene affrescate dal Romanino negli ambienti attigui: tanto basta per ipotizzare che, in realtà, dietro alle scene potrebbe celarsi la volontà d’inviare un preciso messaggio moraleggiante, com’era del resto tipico dei cicli affrescati dell’epoca. Un messaggio, in questo caso, ostile all’erotismo.

Viene però naturale domandarsi se la spiccata sensualità che traspare da certe figurazioni (come quella, fortemente anticlassica, delle tre Grazie: una di loro mostra senza problemi il pube al riguardante, e per giunta in una posa tutt’altro che costumata) non appaia in forte contrasto con l’ipotetico intento del ciclo, e con quanta coerenza Bernardo Clesio (che comunque, si sa dai documenti storici, da giovane contrasse la sifilide) s’impegnasse nel rispettarlo: di tale dissidio è tuttavia avveduto Ties, che nel concludere la propria lettura si domanda se gli affreschi del Romanino non possano essere considerati manifestazione d’una “doppia morale”, di “quella discrepanza tra ideale e pratica, tra l’etica cristiana ostile al corpo e ai sensi e la condotta di vita liberale ed edonistica che caratterizza la società rinascimentale in generale”, o se il ciclo fosse un invito a dominare i sentimenti, o se addirittura Bernardo Clesio non avesse voluto prendersi gioco di se stesso dipingendosi come un “folle d’amore”. Un’interpretazione sicuramente affascinante: rimane però da comprendere come gli episodî delle lunette si raccordino al resto della decorazione della Loggia, perché manca unitarietà dal momento che la lettura non investe tutti gli affreschi, e quanto un programma così elaborato possa essere compatibile con l’immagine di Clesio che risulta dalle lettere inviate agli artisti e ai soprastanti, ovvero l’immagine d’un committente che sui soggetti delle decorazioni si tiene molto vago.

A livello formale, s’è detto di come le lunette contengano ancora molta di quella carica anticlassica che caratterizza la volta e le figure dei nudi, e s’è fatto l’esempio dell’affresco con le tre Grazie (“Romanino”, ha scritto Alessandro Nova nel catalogo della mostra sull’artista bresciano tenutasi nel 2006 proprio al Castello del Buonconsiglio, “non rinuncia del tutto alla sua vena grottesca”, al contrario d’un Tiziano che invece “non avrebbe mai dipinto il pube scoperto di una delle tre Grazie in primo piano, anche perché sapeva bene che l’erotismo dipende in gran parte dal non detto e dal celato”), ma considerazioni simili si potrebbero fare per l’episodio di Cleopatra con l’ancella che accorre sgomenta urlando, o per quello di Sansone e Dalila dove pose e atteggiamenti dei protagonisti (si noti, per esempio, la testa fuori proporzione di Sansone, che Morassi peraltro definiva “uomo dall’aspetto volgare e dal testone spropositato”) fanno assumere un aspetto piuttosto bislacco alla scena: lo stesso Nova del resto ha scritto che “al pittore bresciano era concesso di scatenarsi premendo il tasto di un umore bizzarro e grottesco”. Morassi ha poi notato come le lunette palesino anche tutto l’ascendente veneto della pittura del Romanino: i concerti rimandano alle scene idilliache di Giorgione, poi riprese anche da suoi conterranei come i Bassano o Bonifacio de’ Pitati, mentre la prosperosità delle figure femminili fa correre la mente alle donne di Tiziano “con in più una carnosità”, ha scritto Cesare Brandi, “che è sole e colore, colore come spremuto dalle pesche o dalle more di siepe, sanguigno, succulento, stupendo”. Ma a Tiziano, e in particolare al Tiziano giovane (per esempio a quello degli affreschi della Scuola del Santo) rimandano anche l’intensità del colore, i forti accenti drammatici (la scena con Virginia e il padre richiama il Miracolo del marito geloso affrescato dal cadorino a Padova), i cangiantismi, mentre ascrivibile alla cultura nordica è il realismo che contraddistingue molti personaggi.

Albrecht Dürer, Disegno per la decorazione del municipio di Norimberga (1521; penna e inchiostro marrone con acquerello su carta, 256 x 351 mm; New York, The Morgan Library & Museum)
Albrecht Dürer, Disegno per la decorazione del municipio di Norimberga (1521; penna e inchiostro marrone con acquerello su carta, 256 x 351 mm; New York, The Morgan Library & Museum)


Uno degli ignudi di Michelangelo nella Cappella Sistina
Uno degli ignudi di Michelangelo nella Cappella Sistina


Guercino, Aurora (1621; affresco; Roma, Casino Ludovisi)
Guercino, Aurora (1621; affresco; Roma, Casino Ludovisi)


Giulio Romano, Il bagno di Venere e Marte (1526-1528 circa; affresco; Mantova, Palazzo Te)
Giulio Romano, Il bagno di Venere e Marte (1526-1528 circa; affresco; Mantova, Palazzo Te)


Giorgione o Tiziano, Concerto campestre (1510 circa; olio su tela, 118 x 138 cm; Parigi, Louvre)
Giorgione o Tiziano, Concerto campestre (1510 circa; olio su tela, 118 x 138 cm; Parigi, Louvre)


Tiziano, Miracolo del marito geloso (1511; affresco, 340 x 207 cm; Padova, Scuola del Santo)
Tiziano, Miracolo del marito geloso (1511; affresco, 340 x 207 cm; Padova, Scuola del Santo)

La Loggia oggi è parte integrante del percorso di visita del Castello del Buonconsiglio, che accoglie anche le collezioni d’arte della Provincia di Trento ed è sede d’importanti mostre. S’è citato sopra Cesare Brandi: il grande storico dell’arte senese era convinto che il Romanino non fu mai così trionfale come nella grande Loggia del Magno Palazzo, e ha affermato a chiare lettere che “non si può andare a Trento senza compiere” un “pellegrinaggio” al Castello del Buonconsiglio, “monumento d’arte, fortezza, luogo di memorie sacre”. Per avere tutte le informazioni utili per una visita è possibile collegarsi al sito del Castello e al sito “Visit Trentino”, un’interessante guida che, partendo dal Castello del Buonconsiglio, porta il viaggiatore a scoprire le altre residenze e gli altri castelli del territorio.

Bibliografia di riferimento

  • Hannes-Paul Ties, Il cardinale Bernardo Cles e il “potere d’amore”. Note sul programma iconografico degli affreschi di Girolamo Romanino nel Castello del Buonconsiglio a Trento in Studi Trentini di Scienze Storiche, sezione seconda, LXXXVI (2007), pp. 53-96
  • Lia Camerlengo (a cura di), Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento italiano, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio, dal 29 luglio al 29 ottobre 2006
  • Enrico Castelnuovo (a cura di), Il castello del Buonconsiglio. Percorso nel Magno Palazzo, Temi, 1995
  • Alessandro Nova, Romanino, Allemandi, 1995
  • Thomas Frangenberg, Decorum in the “Magno Palazzo” in Trent in Renaissance Studies, Vol. 7., N. 4 (dicembre 1993), pp. 352 - 378
  • Ezio Chini, Francesca De Gramatica, Il Magno Palazzo di Bernardo Cles, Principe Vescovo di Trento, Provincia Autonoma di Trento, 1985
  • Antonio Morassi, I pittori alla corte di Bernardo Clesio a Trento. II. Gerolamo Romanino in Bollettino d’Arte, anno IX, serie II, vol. VII (gennaio 1930), pp. 311-334


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

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