Solo nell’ultimo anno si sono registrate almeno un paio d’interessanti opportunità che, sebbene slegate tra loro, hanno offerto a pubblico e studiosi molto materiale per aprire un’approfondita discussione sugli sviluppi del caravaggismo a Genova. Nel primo caso s’è trattato della mostra milanese L’ultimo Caravaggio: a dispetto della titolazione altisonante ed escogitata ammiccando al richiamo che il nome di Caravaggio (Michelangelo Merisi, Milano, 1571 - Porto Ercole, 1610) esercita sul pubblico, la rassegna delle Gallerie d’Italia s’è configurata come una proposta d’elevatissimo valore scientifico che, partendo dalle vicende collezionistiche di Marco Antonio Doria (Genova, 1572 - 1651) e mossa dall’assunto secondo cui Genova avrebbe recepito in maniera quanto meno fredda la lezione del Merisi, giungeva a concludere che l’arte del grande lombardo, malgrado avesse affascinato diversi artisti genovesi, non ebbe modo d’incidere in maniera determinante sul capoluogo ligure. Il curatore Alessandro Morandotti, nel saggio introduttivo del catalogo, si domandava se non sia possibile immaginare una storia dell’arte del Seicento senza Caravaggio, e sosteneva che in diversi centri italiani, tra i quali Genova, “altre tradizioni incalzano, altre intelligenze agiscono, in piena autonomia, anche quando si è costretti a fare i conti con le opere di Caravaggio messe davanti ai propri occhi, magari solo attraverso una copia ritenuta un originale”. La seconda occasione è stata rappresentata da una mostra di minor impatto mediatico e d’inferiore portata, ma decisamente utile per aggiungere argomenti sul tema dell’eredità genovese di Caravaggio, oltre che per esaminare più a fondo le vicende d’uno dei protagonisti di quella stagione, Bartolomeo Cavarozzi (Viterbo, 1587 - Roma, 1625): si parla della mostra di Palazzo Spinola dedicata allo stesso Cavarozzi e ai suoi rapporti con Genova. Tornando al primo dei due eventi espositivi, nella recensione de L’ultimo Caravaggio, chi scrive ipotizzava che, stanti le riflessioni aperte dall’esposizione milanese, sarebbero giunti presto altri contributi sulla questione. È dunque su tali basi che si può cominciare a entrare nel merito di Caravaggio e i Genovesi. Committenti, collezionisti, pittori, l’importante rassegna di Palazzo della Meridiana che, dati i suoi contenuti, non mancherà di far discutere a lungo.
L’esposizione, curata da Anna Orlando, ruota essenzialmente attorno a due assi portanti principali: da una parte, si entra in maniera decisa nell’ambito del dibattito sull’autografia dell’unica opera di Caravaggio conservata in città, l’Ecce Homo di Palazzo Bianco (che lascia dunque temporaneamente la propria sede per spostarsi di qualche metro), e dall’altra ricostruisce, con una significativa antologia, gli sviluppi della rielaborazione dell’arte di Merisi a Genova (piuttosto che quelli della sua fortuna), tema a cui comunque se ne collegano altri di non minore importanza, come i rapporti tra artisti e committenza, i termini della presenza a Genova dei caravaggeschi della prima ora, le vicende del collezionismo a loro legato, la diffusione delle copie. Argomenti, peraltro, non scollegati tra loro: un’ipotetica presenza in antico dell’opera di Caravaggio a Genova potrebbe aprire interessanti (e per certi versi inediti) scenarî sul rapporto tra Caravaggio e i genovesi. È tuttavia necessario procedere con ordine, partendo dall’annosa questione dell’attribuzione dell’opera di Palazzo Bianco alla mano di Michelangelo Merisi, e va sottolineato che, in tal senso, la mostra di Palazzo della Meridiana ambisce ad avere carattere dirimente.
Immagini dalla mostra Caravaggio e i genovesi |
Immagini dalla mostra Caravaggio e i genovesi |
Immagini dalla mostra Caravaggio e i genovesi |
Il livello è altissimo fin dalle prime battute: ad accompagnare il pubblico verso il cuore della rassegna è un capolavoro di Luca Cambiaso (Moneglia, 1527 - San Lorenzo de El Escorial, 1585), il Cristo davanti a Caifa in arrivo dal Museo dell’Accademia Ligustica, che inquadra il tema delle eventuali ispirazioni che Caravaggio può aver tratto dall’arte genovese del tempo (questione comunque non collaterale nell’economia complessiva della rassegna, e d’importanza tutt’altro che secondaria). La felice scelta di accogliere i visitatori con uno dei massimi testi del luminismo cambiasesco riecheggia le ultime sale della grande monografica che Palazzo Ducale dedicò a Cambiaso nel 2007: allora, l’Ecce Homo di Caravaggio era collocato in chiusura per porre l’accento sul fatto che un eventuale rapporto tra Cambiaso e Caravaggio (che ovviamente si sarebbe consumato a distanza, dacché i due non ebbero modo di conoscersi di persona), mediato dal collezionismo di Vincenzo Giustiniani, potrebbe essere del tutto plausibile. Tra i curatori dell’evento del 2007 figurava Lauro Magnani, che per il catalogo di Caravaggio e i Genovesi ha redatto un pregno saggio sulle “intuizioni lumistiche” genovesi, considerate anche in rapporto a un’eventuale eredità raccolta da Michelangelo Merisi. Materia complessa (ma anche molto affascinante) e sulla quale si sono storicamente registrati molti punti di vista differenti: per Magnani, la luce di Cambiaso palesa “accentuazioni mentali e trascendenti” che si pongono in linea continuativa rispetto alla pittura di maniera, anziché connettersi “con l’indagine del naturale e con la più innovativa modalità luministica di Caravaggio, fedele comunque a un dato oggettivo”, e pertanto distante dalle luci soprannaturali di Cambiaso. Ciò non toglie che tali aspetti siano “presenti, arricchiti da un franco naturalismo, nel caravaggismo nordico”, con in testa le sperimentazioni di Gerrit van Honthorst, pittore che ebbe nel genovese Vincenzo Giustiniani (Chio, 1564 – Roma, 1637), tra i più celebri patroni di Caravaggio, un appassionato sostenitore.
Lasciata la sala in cui il Cristo davanti a Caifa troneggia solitario, ci si ritrova subito dinnanzi all’Ecce Homo, e a tal punto è necessario riassumere a brevi linee le vicende storiche e attributive del dipinto, dal momento che sono centrali per il discorso complessivo della rassegna. Una minuziosa ricostruzione è offerta nel catalogo da Raffaella Besta e Margherita Priarone: l’opera fu rinvenuta nel 1953, nei depositi di Palazzo Rosso, per merito di Caterina Marcenaro, allora direttore dell’Ufficio delle Belle Arti del Comune di Genova, e risultava pesantemente danneggiata dai bombardamenti del secondo conflitto mondiale. Dell’Ecce Homo tacciono le fonti antiche, almeno per quanto se ne sa, ma certo dovette trattarsi d’un dipinto che godette d’una certa fortuna, dal momento che ne furono tratte alcune copie. Dell’Ecce Homo si sa che entrò in Palazzo Bianco nel 1929 e ch’era stato catalogato come “copia da Lionello Spada”, stante anche il pessimo stato di conservazione che ne comprometteva una piena o comunque idonea leggibilità. Oggetto d’un decisivo restauro, condotto a partire dal 1953 da Pico Cellini, l’opera fu ascritta alla mano di Caravaggio dalla stessa Marcenaro e da Roberto Longhi: fu quello il principio d’una discussione ch’è proseguita sino ai giorni nostri. I dubbî vertono soprattutto sull’assenza di notizie storiche in merito all’Ecce Homo, che dobbiamo comunque immaginare presente in Sicilia in un certo momento della sua esistenza (particolare non di poco conto per un’eventuale ricostruzione della sua storia antica, come si vedrà a breve), data la mole di copie del dipinto prodotte sull’isola. A favore dell’attribuzione a Caravaggio si sono schierati, negli anni, Mia Cinotti (1983), Mina Gregori (1985), Maurizio Calvesi (1990), Maurizio Marini (2005), John T. Spike (2010), le stesse Besta e Priarone (2016) e Piero Boccardo (2018). Contro l’attribuzione hanno scritto Francesca Cappelletti nel 2009 (che rimarcava le “fisionomie aguzze piuttosto insolite per il Caravaggio romano, [...] trattate con neri spessi e con linee aspre e insistite, quasi a carbone” e rammentava come la storia critica del dipinto fosse recente), Sebastian Schütze anch’egli nel 2009 e poi ancora nel 2015 (per lo storico dell’arte tedesco la composizione è soffocante e frammentata, tanto che Pilato, le cui fattezze sono peraltro giudicate esagerate e quasi caricaturali, gli sembra slegato dalle altre figure, quasi sia stato posto in abisso), Keith Christiansen negli anni Ottanta, con anche ripresa recente in un post su Instagram (lo studioso statunitense condivide le perplessità sulle figure bizzarre, diverse da quelle tipiche di Caravaggio, più gravi, ed esprime riserve sulla pennellata più densa del normale e su certi dettagli insoliti, come la forma delle orecchie), e infine Yuri Primarosa nel 2016, che non ravvisa una qualità pari a quella di altre opere di Caravaggio sicure e preferisce pertanto assegnare l’Ecce Homo a un suo seguace.
Occorre evidenziare come la critica si sia espressa pressoché esclusivamente su basi stilistiche: Anna Orlando ha invece preferito ricordare che la partita si gioca “non solo sul campo della connoisseurship”, ma anche su quello delle analisi tecniche, anche in virtù del fatto che la storia conservativa dell’Ecce Homo è decisamente tormentata. È per tale ragione che, nel suo saggio, ha voluto richiamare il restauro di Cristina Bonavera del 2003, eseguito in occasione d’una mostra tenutasi a Berlino e curata da Roberto Contini, e ai cui risultati non s’è dedicata sufficiente attenzione. Secondo Orlando, ci sarebbero diversi indizî rivelatori della mano di Caravaggio, se si esaminano le radiografie, le riflettografie e la considerevole quantità di materiali prodotti in quell’occasione: “nell’opera si possono rintracciare elementi pertinenti” alla tecnica esecutiva di Caravaggio, scrive anna Orlando, riferendosi a dettagli come i diversi pentimenti che, viceversa, sarebbero stati assenti se ci fossimo trovati dinnanzi a un copista (uno dei più evidenti è quello della spalla di Gesù), la presenza d’incisioni, e la traccia d’una pennellata a zig-zag tipica del maestro lombardo. Tutti elementi riscontrati analizzando molti altri dipinti di Michelangelo Merisi, col risultato che soprattutto le incisioni e l’abbozzo a zig-zag paiono alla curatrice “chiudere il cerchio di una lunga disamina a sostegno della piena autografia del dipinto genovese”. Ma l’Ecce Homo sarebbe pertinente anche rispetto a un eventuale contesto genovese: l’ipotesi di Orlando (che risale a un articolo di Gianni Papi del 1990), è che l’opera sia stata eseguita in Sicilia nel 1609 (datazione addotta già da altri e seguita per ragioni stilistiche), anno in cui vescovo di Palermo era il genovese Giannettino Doria. Forse, a parere della curatrice, proprio il prelato genovese potrebbe essere stato il tramite tra la Sicilia e Genova: difficile stabilirlo con certezza in assenza di carte, ma l’interessante spunto meriterà d’esser approfondito (invece appare meno probabile e piuttosto ardita, in considerazione della mentalità religiosa dell’epoca, l’eventualità di trovare richiami ad Andrea Doria nella figura di Pilato).
Luca Cambiaso, Cristo davanti a Caifa (1570-1575 circa; olio su tela, 188 x 138 cm; Genova, Museo dell’Accademia Ligustica di Belle Arti) |
Caravaggio, Ecce Homo (1605-1610 circa; olio su tela, 128 x 103 cm; Genova, Musei di Strada Nuova - Palazzo Bianco) |
Nella stessa sala che ospita l’Ecce Homo, sono stati sistemati dipinti d’analogo soggetto che dànno avvio al viaggio nei meandri del caravaggismo genovese: certo, come ricorda la curatrice stessa nell’introduzione del saggio, alcune opere sono state selezionate in virtù “del reciproco rimando di pura suggestione visuale”, ma ci sono testi che palesano una certa similarità, tale da non far escludere l’ipotesi che i loro autori potessero, forse, conoscere l’Ecce Homo di Caravaggio. Spicca, in particolare, una tela di Orazio De Ferrari (Voltri, 1606 - Genova, 1657) che, con un’impostazione speculare rispetto a quella del pittore milanese, sembrerebbe riprenderne diversi elementi, a cominciare dal Cristo che rivolge lo sguardo verso il basso, elemento che distingue l’Ecce Homo di Caravaggio da molti altri dipinti coevi aventi lo stesso soggetto, e nei quali Gesù alza gli occhi verso il cielo a cercare conforto ma anche a sottolineare la sua natura divina: nel dipinto di Caravaggio, al contrario, l’intento è quello d’esaltare l’umanità del messia. Altri particolari (la posizione di Pilato, il suo gesto, la presenza d’una balaustra o comunque d’un elemento architettonico, lo sgherro colto nell’atto di coprire Gesù, le mani legate davanti al ventre con un cordino) parrebbero anch’essi riferirsi al prototipo caravaggesco (che, a sua volta, accoglie chiare suggestioni tizianesche, a cominciare dalla dimensione meditativa che il pittore conferisce all’episodio). Se, in mostra, l’opera di De Ferrari sembra essere quella che più scopertamente si rifà al dipinto di Caravaggio, il tema iconografico risulta comunque alquanto utile per iniziare a tracciare le linee dell’accoglienza della lezione caravaggesca in città. A fare da “apripista” è il Cristo alla colonna di Giovanni Battista Paggi (Genova, 1554 - 1627), opera insensibile rispetto alle novità caravaggesche e inserita ancora in quel clima controriformistico al quale appartiene anche il Cristo incoronato di spine di Simone Barabino (Genova, 1585 - 1660), altro artista formatosi in ambito manierista ma che palesò qualche intenzione d’aggiornarsi, senza però arrivare agli eccessi di altri come Giovanni Domenico Cappellino (Genova, 1580 - 1651), allievo di Paggi, e il cui Cristo deriso arriva quasi a sfiorare il grottesco.
Le coordinate così velocemente riassunte sono utili a inquadrare una delle principali figure del primo Seicento genovese, alla quale la mostra concede molto risalto: Bernardo Strozzi (Genova, 1581 - Venezia, 1641), che già era stato tra i protagonisti de L’ultimo Caravaggio. La rassegna di Palazzo della Meridiana ripropone il parallelo tra il Martirio di sant’Orsola del prete pittore e il dipinto d’analogo soggetto di Caravaggio (si tratta del suo ultimo dipinto noto, ed è quello che dava il titolo alla mostra delle Gallerie d’Italia: a Genova, invece, il confronto è condotto in absentia, benché giunga in soccorso una riproduzione) pervenendo a conclusioni analoghe a quelle dell’evento dello scorso anno, ponendo però in una luce diversa i possibili punti di tangenza tra i due artisti. Morandotti scriveva che Strozzi, coi suoi “impasti gagliardi” e con il suo “gusto dei colori preziosi e cangianti” aveva completamente travisato “lo stile asciutto, quasi scabro, e il drammatico gioco delle luci e delle ombre dell’ultimo Caravaggio”, e che la disperazione della santa caravaggesca diventa “abbandono estatico e trasognato” in quella strozzesca. Orlando concorda con Morandotti nel sottolineare l’autonomia della sant’Orsola del Cappuccino rispetto a quella, molto più drammatica e molto meno teatrale, di Merisi: tuttavia qui si sottolinea come l’opera, in antico nelle collezioni di Marco Antonio Doria, possa esser stata per lui fonte d’ispirazione, soprattutto nei termini dei rapporti tra luci e ombre che, per la curatrice, “si riverberano nello Strozzi più che altro a livello formale” (è opportuno ricordare che la pittura di Caravaggio e quella di Strozzi perseguivano finalità diverse, e che peraltro il genovese era un religioso: l’importanza ch’egli accordava al dato “mistico” era pertanto fondamentale).
Dunque, più che d’influenza (termine che, volendo sottostare alle prescrizioni di Baxandall, andrebbe comunque il più possibile evitato), avrebbe senso parlare d’una “libera ispirazione da”, tenendo anche conto della cultura di Bernardo Strozzi, delle opere che forse ebbe modo di vedere (L’ultimo Caravaggio lo inseriva in aperto dialogo tra Caravaggio, Rubens e Procaccini), e dell’ambiente nel quale si formò e che corrisponde a quello presentato nella prima parte della sala, tanto che ai dipinti di Paggi e Barabino è accostato il famoso Ecce Homo di Palazzo Spinola, peraltro riconosciuto come opera di Strozzi dalla stessa Anna Orlando alcuni anni addietro, e dipinto per cui valgono considerazioni analoghe a quelle della sant’Orsola. Nella sala c’è spazio anche per introdurre il tema delle copie da Caravaggio (di rilevanza estrema, dato che le copie aiutano a ricostruire le vicende degli originali, la fortuna critica d’un maestro, le storie dei collezionisti, la considerazione di cui un artista godeva in passato), con la presenza dell’Incoronazione di spine tratta con tutta probabilità dall’originale caravaggesco (opera che però ha una storia attributiva complessa, come ricordavamo all’epoca della sua esposizione per la grande mostra di Palazzo Reale a Milano tra il 2017 e il 2018), e proveniente dall’oratorio di San Giovanni Battista a Rivarolo: in occasione della mostra viene formulata l’attribuzione del dipinto a Cesare Corte (Genova, 1550 - dopo il 1619), ottimo copista e pittore dalla travagliatissima vicenda biografica. L’ipotesi poggia non solo su basi stilistiche, ma anche sul fatto che il collezionista Orazio Di Negro possedeva una copia dell’Incoronazione realizzata da Corte, e che la famiglia Di Negro aveva sostenuto la chiesa di San Bartolomeo della Certosa (adiacente all’oratorio) con sostanziali donativi: è possibile dunque che, in un dato momento, l’opera esposta a Palazzo della Meridiana abbia lasciato le raccolte dei Di Negro per compiere il suo ingresso nell’edificio di culto.
Orazio De Ferrari, Ecce Homo (1640 circa; olio su tela, 118 x 97 cm; Genova, Collezioni d’arte di Banca Carige) |
Giovanni Battista Paggi, Cristo alla colonna (1607; olio su tela, 106 x 85 cm; Milano, Collezione Koelliker) |
Giovanni Domenico Cappellino, Cristo deriso (1605-1610 circa; olio su tela, 128 x 103 cm; Genova, Musei di Strada Nuova, Palazzo Bianco) |
Bernardo Strozzi, Il martirio di sant’Orsola (1620-1625; olio su tela, 104 x 130 cm; Milano, Collezione Koelliker) |
Bernardo Strozzi, Ecce Homo (1620-22; olio su tela, 105 x 75 cm; Genova, Galleria Nazionale di Palazzo Spinola) |
S’è detto dell’approccio di Bernardo Strozzi nei confronti del luminismo caravaggesco: proprio il “teatro della luce” è grande protagonista della sezione successiva della rassegna, che mira a presentare, con una selezione riassuntiva, i principali attori del caravaggismo genovese. C’è da tener presente che, nel corso degli anni, il gusto dominante in città prese una direzione totalmente opposta rispetto al tenebrismo caravaggesco e accordò preferenza al barocco trionfante dei Domenico Piola, dei Valerio Castello, dei Carlone e di altri che con le suggestioni che provenivano da Roma ebbero poco o niente a che spartire, ma è altresì vero che Genova fu importante crocevia del caravaggismo: da qui non soltanto passò Caravaggio in persona, ma transitarono anche alcuni dei suoi più stretti seguaci, da Orazio Gentileschi a Bartolomeo Cavarozzi, da Battistello Caracciolo a Simon Vouet, senza considerare che pressoché tutti i caravaggeschi erano ben rappresentati nelle collezioni dei grandi mecenati liguri. Il problema che la mostra pertanto si pone è comprendere chi e quanto avesse aderito alle novità che giungevano da fuori regione. Il ruolo di primo piano di Bernardo Strozzi viene ribadito dalla presenza in sala d’un paio di sue opere che manifestano una più stringente vicinanza a Caravaggio, al quale qui il genovese s’accosta nell’utilizzo delle fonti luminose per intensificare il pathos espresso dai personaggi, come avviene nell’inedito San Giovannino di collezione privata, che colpisce anche per il dato veristico dell’agnellino il cui vello è reso con un naturalismo tale da stimolare al riguardante impressioni tattili. L’altro grande protagonista del primo Seicento ligure è il sarzanese Domenico Fiasella (Sarzana, 1589 - Genova, 1669), presente in mostra con una Giuditta e Oloferne che propone un soggetto tra i più frequenti nella pittura del tempo: Fiasella era stato allievo di Paggi e, prima ancora, d’uno dei più noti manieristi toscani, Aurelio Lomi, artisti da cui ricavò uno spiccato senso dell’eleganza che sempre permea le sue composizioni e i suoi personaggi, e all’età di diciott’anni, nel 1607, s’era trasferito a Roma, dov’ebbe modo di familiarizzare con Orazio Gentileschi e d’osservare da vicino i più rilevanti testi caravaggeschi. L’incontro di Fiasella col caravaggismo si risolse proprio entro i termini d’una strettissima vicinanza a Gentileschi padre, da cui il sarzanese riprese schemi, elementi, atmosfere: la Giuditta non fa eccezione, dacché riesce a stemperare la ferocia del dipinto di Caravaggio d’identico soggetto (e all’epoca in possesso d’un collezionista ligure, il banchiere Ottavio Costa, la cui storia viene in catalogo ricostruita in un denso saggio di Giacomo Montanari) inquadrandolo nell’ambito di quella ricercatezza di matrice toscana che costituì la cifra più evidente del caravaggismo di Orazio, e che parimenti non è aliena a Fiasella (la sua Giuditta, pur nella grintosa risolutezza della sua espressione, è una gentildonna che per uccidere il generale degli assiri neppure s’è tolta la collana di perle, e la sua ancella non è la grifagna vecchia di Caravaggio, né l’energica aiutante di Artemisia Gentileschi, che blocca Oloferne con tutta la sua forza: sembra al più una un’amica coetanea, al contempo dubbiosa e sgomenta).
Se Fiasella è il più raffinato dei pittori genovesi sui quali l’ascendente caravaggesco ha un certo peso, Luciano Borzone (Genova, 1590 - 1645) è probabilmente quello più lirico ed emozionato: torna esposta al pubblico, dopo l’importante monografica di Palazzo Nicolosio-Lomellini del 2015-2016, la Negazione di san Pietro di collezione privata che, come abbiamo già avuto modo d’indicare su queste pagine, coniuga un estro naturalista che s’affranca tanto dal dramma di Caravaggio quanto dai nitori gentileschiani (la Negazione di san Pietro è resa quasi fosse una scena di genere) a un’intensa vena poetica che apre alla possibilità di considerare quello di Borzone un “caravaggismo sui generis”, secondo la formula adoperata da Anna Orlando. Un caravaggismo fondato (in questo e anche in altri casi, tipici della produzione matura dell’artista) su “pennellate a tratti pastose e abili nel conferire un buon risalto plastico” che s’avvicendano “ad altre più liquide e snelle che frangono i contorni e si disciolgono in modulate lumeggiature, capaci di descrivere non solo la fisicità delle anatomie, ma soprattutto gli affetti dell’animo”, col risultato che la Negazione è un “testo pittorico di particolarissima forza comunicativa e di grande coinvolgimento emotivo” (così, nel catalogo della summenzionata monografica su Borzone, la curatrice Anna Manzitti descriveva il dipinto). Il cammino nella sala prosegue con testi ben più efferati, come la Testa del Battista di Simone Barabino, che delle sue opere è tra quelle che segnano il massimo avvicinamento alle istanze caravaggesche, oppure come la violentissima Legge di Zaleuco (protagonista è il legislatore che, nella Magna Grecia del settimo secolo avanti Cristo, fece promulgare una legge che prevedeva l’accecamento di chi si fosse macchiato d’adulterio) di Orazio De Ferrari, che per questo e altri brutali dipinti trasse spunti dalla coeva pittura napoletana, quella che interpretò la lezione di Michelangelo Merisi nei termini più tenebristi, o ancora come la Decollazione del Battista di Gioacchino Assereto (Genova, 1600 - 1650), altro tra i maggiori caravaggeschi liguri: stante la sua età (era della generazione successiva a quella di Strozzi, Fiasella e Borzone: quest’ultimo, peraltro, fu il suo maestro) fu probabilmente il primo genovese a calarsi in toto nei confini d’un naturalismo spesso spinto alle conseguenze più estreme (come soleva accadere al De Ferrari di più stretta osservanza caravaggesca) e che, sottolinea Anna Orlando, è imperniato su di un “senso dell’atmosfera in cui la luce non è più quella tagliente del Caravaggio e stretti seguaci, né quella artificiale degli stranieri tanto ammirati Gherardo delle Notti e Matthias Stom, ma è quella tratta da una realtà più ‘naturale’”. Potrebbe apparentemente sorprendere la presenza, in questa sala, d’un campione assoluto della decorazione barocca quale Giovanni Battista Carlone (Genova, 1603 circa - Parodi Ligure, 1684 circa): il suo Sacrificio d’Isacco c’informa che la ricerca di Carlone non fu comunque esente da pulsioni naturaliste, per le quali significativo fu lo studio dei caravaggeschi.
La crescente importanza che, dopo Caravaggio, rivestono il genere della natura morta e le protagoniste donne negli episodî narati dagli artisti, è sottolineata nella penultima sala: eccezionale la Natura morta con vaso di peonie rosa, altro inedito assegnato a Bernardo Strozzi, che raccoglie la “sfida del vero” lanciata da Caravaggio con una composizione dove i brani di verismo convivono armoniosamente con un colorismo toscano che fa apparire lucenti i fiori sistemati dal prete genovese nel vaso posto accanto alla cesta di verdure. La Giuditta di Giovanni Battista Merano (Genova, 1632 - Piacenza, 1698) apre all’ultima sala, che presenta al pubblico la fiammata caravaggesca di fine Seicento, i cui protagonisti furono alcuni pittori che operarono un consapevole recupero dei modi caravaggeschi: si comincia con lo stesso Merano, che con l’inedita Cattura di Cristo introduce alla sua singolare interpretazione del tenebrismo caravaggesco, innestato sulla teatralità (si veda, per esempio, il gesto dello sgherro che sta per stringere una corda attorno al collo di Gesù) e sull’affollamento tipico delle composizioni tardobarocche. Si prosegue poi con due artisti attivi sul finire del secolo come Pietro Paolo Raggi (Genova, 1646 - Bergamo, 1724) e Giovanni Lorenzo Bertolotto (Genova, 1640 - 1721), pittori che si muovono nell’alveo d’una sorta di caravaggismo di maniera non privo però d’interessanti acuti (il Ritrovamento di Mosè di Bertolotto risalta per il suo naturalismo e per il sapiente e bilanciato equilibrio della composizione), e si conclude arrivando al savonese Bartolomeo Guidobono (Savona, 1654 - Torino, 1709). La Maddalena di quest’ultimo, dall’aspetto teneramente adolescenziale, con la sua riflessione sulle vanità del mondo terreno che assume struggenti accenti d’intimità, ci riporta al carattere malinconico che connaturava l’Ecce Homo di Caravaggio.
Bernardo Strozzi, San Giovannino (1620-1625 circa; olio su tela, 78 x 61 cm; Collezione privata) |
Domenico Fiasella, Giuditta e Oloferne (1620-1630 circa; olio su tela, 150 x 200 cm; Reggio Emilia, Collezione privata) |
Luciano Borzone, Negazione di san Pietro (1635 circa; olio su tela, 188 x 136 cm; Collezione Zerbone) |
Simone Barabino, Testa del Battista (1615-1620 circa; olio su tela, 63,5 x 77 cm; Genova, Musei di Strada Nuova, Palazzo Bianco) |
Orazio De Ferrari, La legge di Zaleuco (1640-1650 circa; olio su tela, 189 x 187 cm; Collezione privata) |
Gioacchino Assereto, Decollazione del Battista (1623-1626 circa; olio su tela, 78 x 58 cm; Collezione privata) |
Bernardo Strozzi, Natura morta con vaso di peonie rosa (1635-1644 circa; olio su tela, 65 x 92,5 cm; Milano, Collezione Poletti) |
Giovanni Battista Merano, Cattura di Cristo (1655-1665 circa; olio su tela, 157 x 200 cm; Collezione privata) |
Bartolomeo Guidobono, Maddalena (1670-1675 circa; olio su tela, 80 x 58 cm; Collezione privata) |
In questi termini, con un richiamo all’inizio della rassegna, la curatrice ha voluto chiudere un percorso che reca tutte le caratteristiche tipiche delle sue mostre: grande chiarezza espositiva (all’attività di storica dell’arte, Anna Orlando affianca anche un costante e proficuo impegno nell’ambito della divulgazione), elevata attenzione nei confronti del patrimonio custodito nelle collezioni private (dalle quali proviene gran parte delle opere esposte), un filo narrativo continuo e lineare dalla prima all’ultima sala. Possiamo prevedere che sarà oltremodo interessante la discussione che inevitabilmente s’accenderà sulla scorta delle conclusioni cui la mostra giunge a proposito dell’Ecce Homo (e non solo rispetto alle considerazioni sull’autografia, ma anche a quelle sull’eventuale committenza, e dunque sulla sua storia antica): ci si domanda, in particolare, se Caravaggio e i Genovesi riuscirà a spegnere le resistenze contro un’autografia largamente accettata, e se le riflessioni introdotte dalla mostra saranno considerate risolutive anche da parte di chi aveva già avanzato un’attribuzione a Caravaggio su base stilistica. In breve, a Genova il pubblico ha l’occasione di visitare una mostra che offre significativi avanzamenti sulle conoscenze dell’arte del periodo: le nuove conclusioni sull’Ecce Homo, le ipotesi sulla sua storia e su quella d’altri dipinti (in questo contributo s’è fatta menzione dell’Incoronazione di Rivarolo) e i diversi inediti (ben quattro su di un totale di trentadue opere) offrono alla ricerca una notevole mole di materiale su cui proseguire gli studî. È questo, del resto, il più alto obiettivo a cui dovrebbe ambire ogni mostra.
A corredo dell’esposizione, un ricco catalogo che, pur non contando sulle schede delle singole opere (al loro posto, un regesto con dati tecnici e bibliografie), compensa con quindici saggi di altissima qualità, suddivisi in tre sezioni (i contributi attorno all’Ecce Homo di Caravaggio e ai contesti che lo precedettero e seguirono, quelli sui committenti genovesi del pittore milanese, e quelli sui caravaggeschi non genovesi che transitarono a vario titolo e in diversi modi dalla città), e chiusi da una lunga e ricca analisi sul caravaggismo a Genova, individuato al fine come un fenomeno estremamente complesso e caratterizzato da una continua alternanza di stili, che spesso variavano di pittore in pittore, e per i quali si sottolinea il carattere cronologicamente non discrimante dell’elemento caravaggesco che, come s’è visto, fu capace di tornare anche a distanza di decennî. Infine, un’ulteriore conferma per Palazzo della Meridiana, che continua a proporre mostre di sicuro interesse, come quelle che si preannunciano nei prossimi due anni: nel 2020, una mostra sui volti del siglo de los Genoveses da Cambiaso a Magnasco, e nel 2021 appuntamento con una rassegna che approfondirà i rapporti tra Rubens e Genova.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).