Un recente intervento di Francesco Caglioti ha richiamato l’attenzione su una piccola scultura conservata in una sede illustre, il Victoria and Albert Museum di Londra. La statuetta, riferita tradizionalmente ad Antonio Rossellino, potrebbe annoverarsi secondo Caglioti fra le opere giovanili di Leonardo realizzate nell’ambito della Bottega di Andrea del Verrocchio. La proposta ha avuto una peculiare risonanza in rapporto al nome dell’artista di cui si celebra il centenario, e merita di essere considerata con attenzione come tutte le ipotesi ben fondate e destinate a promuovere il dibattito, distinguendola dal ciarpame, a volte indecente, che settimanalmente trova spazio sulla stampa. L’intervento di Caglioti non è frutto di una illuminazione improvvisa, bensì nasce da lontano: l’attribuzione era stata brevemente espressa nell’ambito degli studi promossi attorno alla mostra dedicata a Matteo Civitali (2004), ed era stata respinta nel Catalogo della mostra di Milano (2015). Lavorando alla mostra del Civitali, mi ero trovata con Francesco e con altri storici dell’arte allo stesso tavolo di lavoro, e in quella felice occasione avevo avuto modo di aggiungere alla stima per i saggi di un collega di rara competenza, l’apprezzamento per la personalità di un giovane cordiale e disponibile, lontano dalla stereotipata supponenza di studiosi appartenenti alle più recenti generazioni. Saggezza vorrebbe che, prima di intervenire sul tema vinciano e sull’attribuzione a Leonardo, io attendessi di leggere il Catalogo della mostra dove comparirà la statuetta: mostra dedicata al Verrocchio che si aprirà a breve a Firenze, e che promette positivi risultati; ma poiché Caglioti ha dato una esplicita notizia di quello che è uno specifico argomento fra quelli di cui si è occupato (Venerdì di Repubblica, 8 febbraio 2019), può essere legittimo esprimere fin d’ora un parere e avanzare qualche dubbio.
Antonio Rossellino/Leonardo, Madonna col Bambino (terracotta, 49 x 27 x 24,5 cm; Londra, Victoria and Albert Museum) |
Da sinistra, in senso orario: la Madonna del Victoria and Albert Museum; Antonio Rossellino, Madonna col Bambino (Berlino, Staatliche Museen); Luca della Robbia, Madonna col Bambino (Firenze, Galleria dello Spedale degli Innocenti) |
Due avvertenze preliminari. Non si nega la possibilità che Leonardo abbia operato modellando la terracotta: la testimonianza del Vasari è significativa, e io stessa ho avuto modo di osservare che i due Angeli reggimandorla del Louvre, realizzati a bassorilievo, potrebbero identificarsi come due interventi eseguiti ‘a concorrenza’ dal maestro e dall’allievo.
In secondo luogo mi preme precisare che non manifesto la mia opinione per sostenere l’attribuzione dell’opera conservata nel Victoria and Albert Museum ad Antonio Rossellino, artista che Caglioti conosce certamente meglio di me: il mio dissenso si lega al riferimento alternativo a Leonardo, le cui testimonianze, per la pittura, sono quantitativamente ristrette e nondimeno ben orientate.
Il mio commento, inevitabilmente stringato, tende a mettere in luce riflessioni suscitate dalla recente anticipazione, e potrà essere corretto o riformulato in seguito in forma più precisa.
Nella terracotta di Londra, di cui non si discutono la qualità elevata e la forte tenuta stilistica, mi sembra di identificare l’aderenza a un modello di immagine che interpreta una pur legittima destinazione alla devozione: la Madonna interviene soprattutto per sorreggere il Figlio, e per dare risalto a lui, che è protagonista inconsapevole e nondimeno autorevole; nella maggior parte dei casi (come appunto nella terracotta di Londra) siede in grembo alla madre in perfetto equilibrio, e si rivolge verso l’esterno all’osservatore, quasi un piccolo Pantocrator; due personaggi, accostati e spesso anche abbracciati, che hanno però ruoli distinti. Si tratta di una linea vincente intorno alle metà del Quattrocento, che peraltro è destinata a durare nel tempo, come mostra un’opera rappresentativa quale la michelangiolesca Madonna di Bruges.
Nella Madonne vinciane, soprattutto in quelle di dimensioni ridotte e destinate come la terracotta alla devozione privata, si riscontra una specifica qualità che non sempre l’analisi storico-critica riconosce; qualità che non rende necessariamente Leonardo superiore ad altri comprimari, ma che lo caratterizza in termini che non è lecito sottovalutare. Alludo alla propensione alla innovazione iconografica, che nell’arco del catalogo dei dipinti vinciani assume spesso dimensioni rilevanti (Vergine delle rocce, Cenacolo, Sant’Anna per esemplificare), ma che in forma più sottile affiora anche in opere di impegno più contenuto (o tali in apparenza).
Nelle Madonne Dreyfus (Washington), Bénois (San Pietroburgo), del garofano (Monaco), e in numerosi disegni, l’osservatore è coinvolto dall’autore in una forma che dissente da una fra le tradizioni più accreditate: Leonardo non costruisce l’immagine partendo dalla necessità di intrattenere un rapporto con l’osservatore, e scarta le più diffuse formule della ‘presentazione’; aprendo una ideale scatola visiva, egli ci induce a spiare di soppiatto ciò che avviene in un interno dove il nostro ruolo è marginale: una madre bambina e suo figlio, poco più che un lattante, si sfiorano con le mani e con gli sguardi, indifferenti alla nostra presenza, legati da un rapporto istintivo che prevede lo scambio di fiori e frutti, o il gioco domestico e familiare con un gatto... da ciò una esplicita compressione della dimensione sovrannaturale.
In senso orario da sinistra: Leonardo, Madonna Dreyfus (Washington, National Gallery), Madonna Benois (San Pietroburgo, Hermitage), Madonna con bambino e gatto (disegno a penna, British Museum), Madonna del garofano (Monaco di Baviera, Alte Pinakothek) |
Questo dato prioritario si riferisce alla struttura figurale e alla inquadratura della stessa, ed è quindi un punto di dissenso di carattere generale.
Altri interrogativi riguardano invece due dettagli che individuano nell’autore della terracotta un plasticatore che dichiara senza remore una collocazione in scia con Donatello e con Desiderio, non come semplice imitatore, ma come partecipe di una stessa impostazione mentale. Del resto non si può tacere il fatto che il sorriso aperto del putto evochi gli stessi nomi...
Uno dei due dettagli che richiedono attenzione è il cherubino collocato sulla testa della Madonna londinese: una interpretazione leggera, quasi divertita, delle testine alate che Donatello adatta in varia forma ad alcune sue Madonne, talora solo giocando con quelle effimere presenze, talaltra affidando loro un compito più alto, ovvero la testimonianza delle capacità profetiche della Vergine (Padova, Altare del Santo). Si tratta di una fermatura del velo che scende sulla fronte della giovane donna, mentre il mantello scivola indietro verso le spalle: proprio il velo che disegna una curva sulla fronte richiama con chiarezza tipologie adottate a Firenze nel primo Quattrocento, e che oscillano attorno ai nomi di Ghiberti, Donatello, Luca della Robbia. Ben diverse le elaborate coiffures che saranno proposte nella bottega del Verrocchio allorché vi opera l’adolescente Leonardo (posticci, nastri, veli, spille); e risulta capzioso l’accostamento fra la terracotta e la Testa femminile degli Uffizi che Vasari qualificava come “divina”: sulla fascia che cinge la testa della giovane donna non posa un cherubino, bensì un gioiello, una grossa broche ovale che ha due alucce ai lati.
L’altro dettaglio significativo si evince da una stretta relazione morfologica, nell’ambito di una metodologia della quale è opportuno diffidare, ma alla quale Caglioti ricorre in questo caso con larghezza, in netta discontinuità con altre sue pubblicazioni. Alludo alla pettorina che sostituisce il semplice legaccio destinato a trattenere sul petto i lembi del mantello ricadente sul dorso: una formula che non mi aveva colpito in passato, ma che oggi, rivedendola nella terracotta, mi ha ricordato quello che s’impone come precedente illustre, ovvero la Madonna dei cordai di Donatello, databile agli anni Quaranta del Quattrocento: opera che ha subito più di un guasto, ma che risulta ancora leggibile, ed è un esempio di tecnica mista di spregiudicata creatività. Nella Madonna donatelliana del Museo Bardini e nella terracotta londinese i due manufatti coincidono perfettamente: il formato della pezzuola, l’attacco con due nappine, la presenza di un elemento centrale poco riconoscibile, il bordo frangiato...
Madonna del Victoria and Albert Museum (particolare) e particolari della Madonna dell’Altare del Santo di Donatello a Padova |
Particolare della Madonna del Victoria and Albert Museum e particolare della Madonna dei Cordai di Donatello (Firenze, Museo Bardini) |
Infine due parole sull’accostamento di Caglioti fra la terracotta e i Panneggi vinciani dispersi in varie sedi museali, sui quali i critici si azzuffano ancora: ci si dovrebbe convincere che strattonare i vari pezzi fra Leonardo, Verrocchio, Lorenzo di Credi, Ghirlandaio, Fra Bartolomeo... è poco produttivo, e vale solo a dare effimero rilievo a una presunta sagacia del critico. Come ho già detto più volte occorre riconoscere che la matrice vinciana è inequivocabile, al di là di una marginale, molto marginale, differenza di mani, ed è importante invece la identificazione della ragione che indusse Leonardo a scegliere come supporto per i suoi Panni rappresi alcuni frammenti di tela di lino logorati dall’uso: “pannilini adoperati” lucidamente evocati dal Vasari. Probabilmente proprio la loro fragilità indusse il trentenne Leonardo a non includerli fra quelle testimonianze che portò con sé al momento di lasciare Firenze per Milano nel 1482: sembra inevitabile riconoscerli come attestati di studio e di ricerca espressi in forma visiva, che sicuramente vennero elaborati in parallelo con alcune opere nate dal sodalizio fra il Verrocchio e Leonardo (Battesimo, Incredulità di san Tommaso, Annunciazione...), e che è legittimo accostare alle figure (sedute, inginocchiate, erette) presenti nelle stesse; risulta fuorviante, nondimeno, presentarli come disegni preparatori, perché ciò ne travolge l’eversivo tratto sperimentale. Leonardo scelse per alcuni disegni eseguiti a pennello un supporto più cedevole della carta, la tela di lino usata, adatta a ricevere senza sbavature l’associazione di materiali molto diluiti, come il bistro e la biacca; panni drappeggiati con sapiente artificio, non solo e non tanto per ‘preparare’ l’esito dell’impasto pittorico e cromatico, quanto per esaltare la stesura della luce attraverso soluzioni in bianco-nero sotto le quali il corpo è visibile a malapena; la definizione che ho adottato in un tempo lontano (“Panneggi astratti”) ha avuto molta fortuna. Prove di lavoro che nella maggior parte dei casi restavano riservate fra i materiali di bottega, frammenti ‘di avanguardia’ destinati ad avere vita breve.
Non sappiamo se fu per insoddisfazione dell’autore o per la loro precarietà che quei lembi di lino restarono a Firenze; nondimeno furono conservati almeno in parte, adottati da qualificati ‘intendenti’ (Lorenzo di Credi, Domenico Ghirlandaio, e soprattutto Fra Bartolomeo, al quale si debbono reinterpretazioni di peculiare rilievo), e conservati da collezionisti illuminati fra i quali fu certamente Giorgio Vasari. A noi resta l’obbligo di serbare memoria delle loro lampeggianti novità, e di annoverarli fra i molteplici rivoli della inesausta, inquieta inventiva vinciana.
Concludo con una nota di rammarico relativa alle possibili reazione degli storici dell’arte evocate nell’articolo: può essere lecito prevedere il sorgere di dubbi e notazioni critiche, ma perché alludere all’anzianità dei potenziali censori e finanche alle loro personali motivazioni? Meglio limitarsi a divinare gli autori delle opere d’arte...