di
Federico Giannini
(Instagram: @federicogiannini1), scritto il 03/02/2019
Categorie: Recensioni mostre / Argomenti: Novecento
Recensione della mostra 'Paul Klee. Alle origini dell'arte' al MuDEC di Milano dal 31 ottobre 2018 al 3 marzo 2019.
Non trascorse molto tempo dalla pubblicazione del suo visionario saggio Lo spirituale nell’arte, che Vasilij Kandinskij (Mosca, 1866 - Neuilly-sur-Seine, 1944) cominciò a maturare il proposito d’avviare la stesura d’un almanacco che raccogliesse riproduzioni delle più disparate creazioni artistiche: dipinti, sculture, disegni, incisioni, arazzi ma anche oggetti etnici, opere d’arte provenienti da culture extraeuropee, lavori creati da bambini. Un’eterogenea collezione che, assieme agli scritti teorici che l’avrebbero accompagnata, si poneva l’intento dichiarato d’estendere i limiti esistenti dell’espressione artistica e si configurava al contempo come pionieristica indagine sugl’impulsi che spingono l’essere umano a fare arte. Kandinskij coinvolse il più giovane collega Franz Marc (Monaco di Baviera, 1880 - Verdun, 1916), e di concerto pensarono d’intitolare l’almanacco Der Blaue Reiter, il cavaliere azzurro: “inventammo questo nome”, avrebbe poi ricordato Kandinskij nei suoi scritti, “nel giardino di Sindelsdorf”, la cittadina della Baviera dove Marc risiedeva al tempo e nella quale i due strinsero la loro amicizia. “Entrambi amavamo il blu, Marc i cavalli e io i cavalieri”, rammentava Kandinskij. “Il nome saltò fuori di comune accordo”. L’almanacco che, in seguito, avrebbe dato nome a uno dei gruppi d’artisti più rilevanti dell’arte del Novecento fu pubblicato agl’inizî del 1912, in un solo numero (benché l’intento primario degli autori fosse diverso): ciò nondimeno si trattò d’un lavoro che attirò significative attenzioni, su tutte quella di Paul Klee (Münchenbuchsee, 1879 - Muralto, 1940) che, al pari degli artisti del Blaue Reiter, nutriva forte e sentito il desiderio d’indagare le scaturigini più recondite, trasversali e complesse dell’espressione artistica.
È questo il principale antefatto che potrebbe costituire la premessa, insieme narrativa e teorica, della mostra Paul Klee. Alle origini dell’arte, curata da Michele Dantini e Raffaella Resch e tesa a proporre al pubblico del MuDEC - Museo delle Culture di Milano una lettura profonda e originale dell’opera dell’artista svizzero, considerata in relazione ai processi teorici e iconografici che ne sono alla base: in altri termini, la mostra s’interroga su quali siano le fonti cui Klee attinse, quali i presupposti filosofici della sua indagine, come la sua produzione si collochi nell’ambito delle tensioni primitiviste che caratterizzarono l’azione di molti artisti attivi ai principî del ventesimo secolo (e di conseguenza quali siano i tratti distintivi del primitivismo di Klee), quale la sua posizione negli anni che videro il fiorire delle prime opere d’arte “astratte”. In via preliminare, occorre rimarcare come la rassegna del MuDEC sia animata da un progetto scientifico frutto d’un lavoro pluriennale sulle fonti dell’arte di Klee, e che verso queste ultime si focalizza il suo approccio: non dunque un’esposizione che proponga al pubblico una paratattica scansione cronologica della sua produzione o che sviluppi un discorso per temi senza che alla base sussista un forte collante o senza ch’emergano letture nuove, come spesso suole accadere alle rassegne che affrontano questo periodo della storia dell’arte, uno tra i più studiati ma anche uno sui quali più si concentrano gl’interessi del pubblico e, di conseguenza, sui quali “l’offerta” è più vasta, sebbene sovente non altrettanto profonda. Al contrario, Paul Klee. Alle origini dell’arte è un’apprezzabilissima operazione scientifica che neppure manca d’essere oltremodo godibile: e non solo perché il progetto scientifico è sostenuto da un altrettanto valido progetto divulgativo, ma anche in virtù della sua (ovvia) consonanza con la sede espositiva, più che mai idonea a ospitare un evento che mira anche ad analizzare il rapporto tra il protagonista e le collezioni etnografiche.
Si potrebbe del resto collocare qui un interessante punto di partenza che, a tutta prima, accomuna Klee agli artisti del Blaue Reiter. Il pittore, dopo aver visitato la prima mostra degli artisti del cavaliere azzurro, affidò alla sua recensione, pubblicata sul giornale Die Alpen, alcune importanti considerazioni: “attenendomi a ciò in cui credo, e non alla momentanea occasione o soltanto all’apparente indirizzo di qualche risultato”, scriveva Klee, “vorrei tranquillizzare quelli che non hanno potuto seguire qualche prediletto di un museo, e fosse anche un greco. Nell’arte si può anche cominciare da capo, e cio è evidente, più che altrove, in raccolte etnografiche oppure a casa propria, nella stanza riservata ai bambini. Non ridere, lettore! Anche i bambini conoscono l’arte e vi mettono molta saggezza! Quanto più sono maldestri tanto più ci offrono esempi istruttivi e anch’essi vanno preservati per tempo dalla corruzione. Fenomeni analoghi sono le creazioni dei malati di mente e non è affatto un vituperio parlare in questi casi di puerilità o di pazzia. Se oggi si vuol procedere a una riforma, tutto questo è da prendere molto sul serio, più sul serio che tutte le pinacoteche del mondo”. Si tratta con tutta probabilità d’uno dei passaggi che meglio esprimono l’idea di primitivismo secondo l’artista di Münchenbuchsee.
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Sala della mostra Paul Klee. Alle origini dell’arte
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Sala della mostra Paul Klee. Alle origini dell’arte
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Sala della mostra Paul Klee. Alle origini dell’arte
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Per una più completa indagine sulle fonti figurative di Klee è però necessario rimontare a qualche anno addietro: alla base delle sue ricerche, la mostra pone le caricature, cui è dedicata tutta una sezione, la prima. Maschere, teste grottesche e personaggi deformati occupano la prima sala della rassegna milanese in quanto imprescindibile tramite tra Klee e l’antico, nella misura in cui ogni epoca antica, come aveva constatato Jules Champfleury nei suoi trattati sulla caricatura (che Klee ben conosceva), sempre manifestò una forte verve anti-accademica (si pensi a Leonardo da Vinci, a Bruegel il Vecchio, a Dürer, a Bernini) ch’era tutt’altro che fine a se stessa, ma era funzionale a estendere i limiti dell’arte, a sperimentare nuove strade, a indagare la realtà anche nei suoi aspetti più insoliti e meno battuti. Ed è anche in tal senso che occorre leggere le caricature di Klee, che certo muovono dalle riviste della sua epoca (allora come oggi la caricatura satirica era un formidabile mezzo d’interpretazione dell’attualità), ma subito prendono le distanze da tali esperienze per collocarsi su di un piano differente. Nelle prime caricature (il Perseo ne è forse l’esempio più noto) la deformazione grottesca del volto sottende profonde implicazioni psichiche (nel Perseo, secondo la descrizione che ne fornì l’artista stesso, “una risata si mescola con le linee profonde del dolore e alla fine prende il sopravvento”, tanto che il sottotitolo stesso dell’opera è Lo scherzo ha il sopravvento sul dolore), oltre alla consapevolezza della necessità di superare un certo tipo di linguaggio (Klee definì la Testa minacciosa come “un qualche pensiero di distruzione, un volto rassegnato, su cui un piccolo demone decisamente dice di no”, e sempre su quest’opera ebbe a dire che “questo sarà l’ultimo foglio nello stile severo” e che “seguirà qualcosa di nuovo”), mentre votate a una più intima ricerca dell’essenziale saranno i fogli degli anni seguenti (ne sono un esempio le Maschere degli anni Dieci che guardano fuori dall’Europa, o fogli lirici come Tierfreundschaft, che con pochi segni a penna, a metà tra il fantastico e l’assurdo, definisce l’amicizia tra un cane e un gatto).
La caricatura è il più naturale viatico al tema della maschera, dacché fin da ragazzo Klee, spinto anche dalle sue visite alle collezioni etnografiche del Museo Storico di Berna, era uso disegnare teste grottesche e bizzarre maschere ai margini dei suoi appunti (si conservano i quaderni che l’artista teneva da adolescente). Caricature e maschere sono correlate, fin dai primi anni, da decisivi punti di contatto: “Klee”, scrive nel catalogo Raffaella Resch, “attinge all’area del mistero e del terrore psicologico evocato dalle maschere primitive, dove è accentuato lo sgomento e la paura verso le forze della natura, benché poi nella sua opera la sotterranea angoscia dell’essere umano di fronte alla dimensione dell’inconoscibile sia raffigurata con la consueta distanza critica e sense of humour”. Nelle maschere di Klee tornano alcuni dei motivi tipici delle arti tribali, come la tendenza alla semplificazione geometrica (si veda, per esempio, la Maschera falena) o l’esagerazione di certi particolari (il Ritratto di Gaia): tuttavia Klee, al contrario d’altri artisti suoi contemporanei, non era affascinato tanto dall’esotismo degli oggetti che incontrava nei musei etnografici (o dalla loro carica mistica o spirituale), quanto dalle possibilità offerte all’artista onde scrutare le modalità attraverso le quali la natura viene percepita e rappresentata. Per Klee, il primitivismo è anzitutto fonte per apprendere quell’“economia” ch’è mezzo necessario per esplorare i segreti della natura (“la natura”, scrisse Klee, “può permettersi di essere prodiga in tutto, l’artista deve essere economo fino all’estremo”). E di conseguenza, le arti esotiche permettono di farsi più prossimi alla natura primigenia dell’atto espressivo, che secondo Klee, sottolinea Resch, “precede ogni condizionamento culturale, anzi, è proprio ottenuto con la rinuncia a seguire pedissequamente qualsivoglia stile, e costituisce un fenomeno antropologico primario, incarnato nella figura dell’artista”. Il desiderio d’esprimersi attraverso un atto artistico travalicherebbe, nella visione di Klee, le epoche e i luoghi: per l’artista svizzero, questo desiderio risponde, semmai, a una “necessità trascendente”.
Quali sarebbero state le successive implicazioni d’una tale visione, lo s’approfondisce nella sala seguente. Verso la metà degli anni Dieci, e più nello specifico a partire dal 1916, le opere di Klee perdono contatto con l’attualità, s’affrancano dalle pulsioni espressioniste, e abbracciano un sentimento che il critico Leopold Zahn avrebbe definito “cosmico”, indicando con quest’aggettivo quella “condizione fisica nella quale una persona fa esperienza d’una realtà trascendentale nell’immagine della realtà terrena”: un sentire che, per Zahn, trova nel misticismo il suo equivalente filosofico. Ecco quindi giungere la litografia acquerellata Zerstörung und Hoffnung (“Distruzione e speranza”) che, coi suoi caotici segni tendenti verso l’alto, è individuata come l’opera che dà avvio alla serie degli acquerelli che Dantini definisce “cosmici” e che Klee realizzò tra il 1916 e il 1923: la costante tensione misticheggiante che caratterizzò il Klee di quegli anni s’espresse anche attraverso l’avvicinamento ai repertorî religiosi medievali (come risulta evidente anche dai contenuti, dal formato e dai titoli di alcune opere, si osservi ad esempio il Paesaggio roccioso con palme e abeti, o si faccia caso alla titolazione di Spielende Fische - miniaturartig, ovvero “Pesci che giocano - miniaturistico”) che trova il culmine negli ultimi anni della prima guerra mondiale, “quando Klee”, scrive Dantini, “appare più visibilmente impegnato, sulla scorta di precise sollecitazioni e letture, a reinventare miniature alto-medievali, ‘deliri calligrafici’ o altro”. Negli Spielende Fische, in particolare, una costruzione delle forme che rimanda all’amico Franz Marc (uno degli artisti cui Klee fu più vicino) s’abbina a quel formato “miniaturistico” che sarebbe divenuto poi in certa misura connaturato alla sua arte, dacché rappresentava il formato che meglio di qualunque altro (o forse soltanto) s’attagliava alla sua ricerca d’una pittura in grado d’abbracciare il mondo intero, e della quale però, lamentava il pittore nella conferenza che tenne a Jena nel 1924, non aveva trovato altro che frammenti: “m’è capitato di sognare un’opera di vasto respiro che abbracci l’intero ambito degli elementi, dell’oggetto, del contenuto e dello stile. Questo rimarrà certo un sogno, ma è bene immaginare di tanto in tanto questa possibilità, ancora vaga. Non bisogna precipitare le cose: queste devono venire alla luce e crescere, e se alla fine suonerà l’ora di quell’opera, tanto meglio! Dobbiamo ancora cercare. Finora abbiamo rinvenuto dei frammenti, non il tutto”.
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Paul Klee, Perseus (der Witz hat über das Leid gesiegt), “Perseo (Lo scherzo ha il sopravvento sul dolore)” (1904; acquaforte, 12,6 × 14 cm; Svizzera, Collezione privata, in deposito permanente al Zentrum Paul Klee, Berna)
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Paul Klee, Drohendes Haupt, “Testa minacciosa” (1905; acquaforte e acquatinta su zinco su carta velina rigida, 19,5 × 14,3 cm; Berna, Zentrum Paul Klee)
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Paul Klee, Maske einer Zornigen, “Maschera di adirata” (1912; gessetto su carta su cartone 17,6 × 15,7, cm Berna, Zentrum Paul Klee)
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Paul Klee, Tierfreundschaft, “Amicizia tra animali” (1923; penna su carta su cartoncino, 15,5 × 24,5 cm Collezione privata)
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Paul Klee, Maske Motte, “Maschera falena” (1933; colore a colla su carta, sul retro disegno a matita con colore a colla, 42,6 × 32 cm; Ulm, Museum Ulm - Geschenk der Freunde des Ulmer Museums)
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Paul Klee, Brustbild Gaia, “Ritratto a mezzobusto di Gaia” (1939; olio su imprimitura a olio su cotone, 97 × 69 cm Svizzera, Collezione privata, in deposito permanente al Zentrum Paul Klee, Berna)
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Paul Klee, Spielende Fische – miniaturartig, “Pesci che giocano (miniaturistico)” (1917; acquerello, penna e matita su carta su cartoncino 9,5 × 16 cm; Collezione privata)
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La riflessione di Klee sulle fonti antiche era tuttavia più larga e presto prese a includere non soltanto i mezzi d’espressione figurativi adoperati nelle opere che il pittore studiava, ma anche quelli simbolici (che potevano tuttavia essere al contempo simbolici e figurativi): “se le forme della pittura nella loro genesi racchiudono un significato, ci avvicinano al cuore della creazione”, spiega Resch, “così le parole possono portarci a un nocciolo ultimo del senso degli oggetti”. Klee, formidabile inventore d’alfabeti e anticipatore della pittura del segno del secondo dopoguerra, per pressoché tutto l’arco della sua carriera seguitò a tracciare ora simboli più immediati, come pittogrammi simili a oggetti riconoscibili (spesso presente è l’occhio, l’organo che connette il mondo esterno con quello interiore: troviamo un simbolo simile a un occhio in Initiale A, “Iniziale A”) oppure lettere dell’alfabeto latino, talora disposte a formare parole di senso compiuto, magari assieme a simboli d’invenzione (accade in Album Blatt für Y, “Foglio d’album per Y”), talaltra in sequenze all’apparenza casuali (come nel foglio C - für Schwitters, un omaggio in cui le forme dei segni ricordano quasi quelle della Merzbau dell’amico Kurt Schwitters), o ancora dànno vita a sistemi complessi e inaspettati: Getrübtes (“Turbato”) è opera del 1934, dipinta su entrambi i lati, che inventa una scrittura in diretta connessione con la natura (tant’è che i segni si dispongono su di un paesaggio sul quale campeggia, immancabile, l’occhio che tutto osserva), armonica e ritmata. La straordinaria varietà degli alfabeti di Klee risponde alla doppia esigenza di dar conto del fatto che molte sono le interpretazioni del mondo (e ogni alfabeto corrisponde dunque a un’interpretazione), ma molte sono anche le situazioni che rimangono inespresse o che devono ancora verificarsi, e il segno diviene dunque un mezzo per esprimere una possibilità (“antropologo del possibile” è la definizione che Raffaella Resch dà del pittore svizzero).
Occorre altresì evidenziare come, nella stessa sezione, sia esposta anche un’opera particolarmente significativa, l’Angelo in divenire: l’angelo, spesso presente nelle figurazioni di Klee, è creatura sospesa tra cielo e terra, e quello di Klee è peraltro un angelo in movimento (“in divenire”, dunque) che in certa misura diventa quasi metafora della condizione stessa dell’artista, che secondo Klee è a sua volta sospeso tra un mondo percettibile e un mondo che non è, o che non è ancora: “si sono aperti e si aprono per noi”, scrisse l’artista svizzero, “mondi che appartengono anche alla natura, ma nei quali non tutti gli uomini possono penetrare con uno sguardo, che è forse proprio solo dei bambini, dei pazzi, dei primitivi. Io intendo, per così dire, il regno dei non nati e dei morti, il regno di ciò che può venire e vorrebbe venire, ma non deve venire, un mondo intermedio. Lo chiamo mondo intermedio poiché io lo sento tra i mondi percettibili esteriormente ai nostri sensi e posso affermarlo intimamente in modo tale che posso proiettarlo verso l’esterno in forme equivalenti”. Il mondo intermedio di Klee è un ambiente in continua trasformazione e l’occhio dell’artista è tenuto a coglierne gli aspetti più nascosti, ma è comunque legato e ancorato alla realtà, ragion per la quale l’arte di Klee non sarà mai un’arte totalmente astratta.
Si giunge così all’ultima sezione della rassegna, dov’è approfondito il rapporto di Klee con le forme (o con l’“astrazione”): però non prima d’aver visitato la sala ch’espone oggetti etnografici che potrebbero aver costituito la base delle ricerche dell’artista, e il sorprendente ambiente del “teatro delle marionette” che Paul Klee fabbricò per far giocare suo figlio Felix e che in mostra è “ricostruito” con un’appassionante animazione tridimensionale (ma sono esposti anche alcuni dei cinquanta pupazzetti che sappiamo Klee creò per il figlio, adoperando materiali di scarto assemblati per dar forma ai più strani personaggi, in gran parte ispirati a maschere dei teatri dell’Europa settentrionale: il poeta coronato, il fantasma spaventapasseri, lo spirito elettrico, persino l’autoritratto dell’artista): c’è comunque da notare che lo stesso teatro rappresentava una naturale estensione dell’interesse di Klee per l’arte infantile.
Passato tale ambiente, ecco dunque l’ultima sala: per riordinare i fili del concetto d’astrazione secondo Klee è necessario partire da Wilhelm Worringer, che nel suo saggio Abstraktion und Einfühlung del 1907 definì l’astrazione come un bisogno di protezione dal “terrore” insito nel mondo esterno, dall’inquietudine che l’essere umano avverte nei confronti dei fenomeni che sperimenta nella realtà: un sentimento opposto all’empatia, alla capacità di godere d’un’esperienza estetica in armonia con la natura (donde le spinte imitative proprie dell’arte classica o rinascimentale). L’astrazione è semmai l’impulso che porta a “strappare l’oggetto dal suo contesto naturale, dall’inarrestabile fluire dell’esistenza”, l’impulso d’affrancare l’oggetto “da tutto quanto in esso era dipendenza dalla vita, cioè da ogni arbitrarietà, di renderlo necessario e inalterabile, di avvicinarlo al suo valore assoluto”. E, in antico, troverebbe una rispondenza nell’arte nordica, “incline non a ‘empatia’ (cioè a un’amorosa forma di naturalismo) ma a ‘trascendenza’; etico religiosa prima e invece che erotica” (così Dantini). Malgrado l’artista, dopo aver letto Abstraktion und Einfühlung, l’avesse commentato affermando che quelle contenute nel trattato erano convinzioni alle quali era già arrivato, i principî enunciati da Worringer, in Klee, divengono base sostanziale, segnatamente nel momento in cui il pittore affermerà che “quanto più è spaventoso questo mondo, come oggi, tanto più è astratta l’arte, mentre un mondo felice produce un’arte dell’al di qua”.
L’astrazione però in Klee non è una fuga dalla realtà: è semmai produzione d’una realtà possibile (“tutto il transitorio è solo un confronto. Ciò che vediamo è un proponimento, una possibilità, un mezzo. La verità reale si cela ancora nel fondo. Nei colori non ci avvince l’illuminazione, ma la luce. Luce e ombra formano il mondo grafico. Più che un giorno splendente di sole, è ricca di fenomeni la luce lievemente velata. Sottile strato di nebbia poco prima che traluca la stella. Renderlo col pennello è difficile perché l’istante fugge troppo rapidamente. Deve penetrare nell’anima. La forma deve fondersi con la concezione del mondo. Il semplice movimento ci sembra banale. L’elemento tempo va eliminato. Ieri e oggi come contemporaneità”). L’arte di Klee mantiene sempre i legami con la natura pur inventando una grammatica del possibile: alle volte i legami sono evidenti e in certo modo anche evocativi (è il caso d’alcuni lavori sul tema del paesaggio, come Sumpf in Gebirge, “Palude tra i monti”, o Helle Nacht am Strom, “Notte luminosa presso il fiume”, caratterizzati da un movimento rapido e quasi improvviso, o da Abend im Tal, “Notte nella valle”, una policromia che rimanda alla tradizione paesaggistica alpina tipica della pittura svizzera), in altri invece sono meno immediati ma altrettanto forti, come accade in certe “scacchiere” di colori (Städtebild rot grün gestuft [mit der roten Kuppel], un “Paesaggio urbano in gradazioni di rosso-verde [con la cupola rossa]” scomposto in tanti frammenti elementari dai colori diversi, quasi a introdurre questa dimensione atemporale e simultanea nella veduta d’una città) o ancora in visioni in cui la struttura e i caratteri d’un’immagine sono considerati nel loro mutevole fluire (Gartenrhythmus, “Ritmo di giardino”).
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Paul Klee, Initiale A, “Iniziale A” (1938; pastello su juta su cartone, 12 × 24,1 cm; Lucerna, Galerie Rosengart)
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Paul Klee, Album Blatt für Y, “Foglio d’album per Y” (1937; gouache su carta 33 × 22 cm; Bologna, Ponte Ronca di Zola Predosa, Ca’ la Ghironda – ModernArtMuseum)
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Paul Klee, Getrübtes, “Turbato (Confuso)”, recto (1934; tempera e carboncino su tela senza telaio dipinta su due facce, 17,7 × 43,3 cm; Torino, Gam – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea)
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Paul Klee, Getrübtes, verso
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Paul Klee, Angelo in divenire |
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Le marionette di Paul Klee
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L’ambiente del teatro di Klee
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Paul Klee, Sumpf im Gebirge, “Palude tra i monti” (1924; olio su carta preparata a olio nero su cartone, 18,5 × 34,5 cm; Svizzera, Collezione privata, in deposito permanente al Zentrum Paul Klee, Berna)
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Paul Klee, Helle Nacht am Strom, “Notte luminosa presso il fiume” (1932; gouache e acquerello su carta su cartoncino, 58,1 × 38,2 cm; Essen, Museum Folkwang)
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Paul Klee, Abend im Tal, “Sera nella valle” (1932; olio su cartone, 33,5 × 23,3 cm; Svizzera, Collezione privata, in deposito permanente al Zentrum Paul Klee, Berna)
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Paul Klee, Städtebild (rot grün gestuft) [mit der roten Kuppel], “Paesaggio urbano (in gradazioni di rosso-verde) [con la cupola rossa]” (1923; olio su cartone su compensato, cornice originale, 46 × 35 cm; Berna, Zentrum Paul Klee, dono di Livia Klee)
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Paul Klee, Gartenrhythmus, “Ritmo di giardino” (1932; olio su tela preparata su cartone, cornice ricostruita, 19,5 × 28,5 cm; Svizzera, Collezione privata, in deposito permanente al Zentrum Paul Klee, Berna)
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C’è da porre l’accento sul fatto che Paul Klee. Alle origini dell’arte espone non soltanto alcune delle fonti iconografiche che potrebbero essere alla base di certe opere di Klee (s’è detto di come un’intera sala sia riservata agli oggetti etnici ma varrà la pena menzionare rapidamente anche un paio d’incisioni di Dürer, oppure gli acquerelli nordafricani coi quali il pittore familiarizzò durante il suo viaggio in Tunisia, cui è dedicato un piccolo focus di cui non s’è dato conto in questa sede), ma anche le fonti storiografiche, a partire dalla biografia che, Klee ancora vivente, gli dedicò Wilhelm Hausenstein: il volume fu pubblicato nel 1921 e ne emerge la figura d’un artista ch’è in grado di sondare ambiti fino ad allora rimasti inesplorati e che, riassume Dantini, “è per Hausenstein il termine evolutivo ultimo della storia artistica che viene a concludersi e il termine primo di quella che nasce, oltre l’Europa quale la conosciamo, utilitaristica e materialistica”. Ne risulta pertanto una panoramica ancor più completa, per una mostra sottile e raffinata che presenta al pubblico i fondamenti dell’arte di Klee al fine di riconsiderare, con letture estese e inedite, i termini del suo primitivismo, e di restituire un’immagine del pittore (estesa anche attraverso i sei densi saggi del catalogo) che sia rispondente alla sua complessità.
Ne sortisce, in buona sostanza, una rassegna che dimostra con dovizia le basi del celebre assunto di Klee (posto, peraltro, su di un pannello a chiusura di percorso) secondo cui l’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non lo è. E al contempo consente di gettare uno sguardo profondo sulla personalità d’un pittore che fu, evidenzia Dantini, tutt’altro che ingenuo, ma al contrario fine conoscitore della storia dell’arte occidentale e ben inserito nel nel dibattito culturale del suo tempo (la struttura di certe sue opere ci autorizza “a dubitare della validità di ogni semplificazione”, specifica il curatore) e che fu, per usare le parole di Giulio Carlo Argan, “illustratore di idee, e non di idee astratte, ma delle immagini che, risalendo dal profondo, dalle radici stesse dell’esistenza, si chiariscono nella coscienza e diventano i moventi dell’agire quotidiano, delle idee, infine, che accompagnano la vita giorno per giorno e formano il mondo ‘non visibile’ nel quale ci muoviamo”.
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L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).