di
Federico Giannini
(Instagram: @federicogiannini1), scritto il 25/01/2019
Categorie: Recensioni mostre / Argomenti: Venezia - Cinquecento - Rinascimento - Manierismo - Arte antica
Recensione della mostra “Tintoretto 1519-1594” a Venezia, Palazzo Ducale, dal 7 settembre 2018 al 6 gennaio 2019.
Non pende dubbio alcuno sul fatto che lo straordinario Miracolo dello schiavo, il monumentale telero che il Tintoretto (Jacopo Robusti, Venezia, 1519 - 1594) dipinse nel 1548 per la Scuola Grande di San Marco, rappresenti una sorta di cesura tra la fase giovanile della sua carriera e gli anni della maturità: e proprio a conclusione della mostra sul giovane Tintoretto che le Gallerie dell’Accademia di Venezia hanno allestito, tra la fine del 2018 e gl’inizî del 2019, per celebrare il cinquecentenario della nascita dell’artista, giungeva l’impressionante olio su tela che racconta del miracolo compiuto post mortem da san Marco, intervenuto per salvare dal supplizio uno schiavo reo solamente d’averlo venerato, e per questo condannato dal suo padrone. Due tra i massimi studiosi dell’artista veneziano, Robert Echols e Frederick Ilchman, hanno definito il Miracolo dello schiavo un punto di svolta per la carriera dell’artista veneziano, ma anche per la stessa pittura veneta del Cinquecento. Quel dipinto così potente che irrompeva sulla scena lagunare poco prima della metà del secolo recava con sé una lunga sequela di novità: un dinamismo che non aveva precedenti, figure in scala molto più grande di quanto i contemporanei fossero abituati a vedere in opere simili (e scorciate in maniera ardita, tanto da sembrare in procinto d’uscire dal quadro), il dialogo serrato con l’arte di Michelangelo, l’utilizzo fortemente drammatico della luce.
Qui s’è collocata la fine della mostra sul giovane Tintoretto delle Gallerie dell’Accademia, e al contempo di qui ha preso il via la rassegna Tintoretto 1519 - 1594, tenutasi al Palazzo Ducale di Venezia nelle stesse date (ovvero dal 7 settembre 2018 al 6 gennaio 2019), ma forte anche d’una seconda tappa in programma a Washington dal 10 marzo al 7 luglio del 2019 (e curata dai summenzionati Echols e Ilchman). Una mostra volta a ripercorrere, per intero, la fase matura della produzione tintorettiana: per certi versi s’è dunque posta come un’esposizione complementare rispetto a quella delle Gallerie dell’Accademia, ma si tratta anche d’una mostra dotata d’una sua autonomia, sebbene immaginata assieme all’altra. Intanto, è arrivata dopo un lavoro pluriennale che s’è posto l’obiettivo d’approntare una monografica sul Tintoretto completa e aggiornata: occorre pensare che, se non si tiene conto delle mostre che hanno preso in considerazione solo aspetti limitati della produzione dell’artista veneto, l’ultima monografica che intendesse, al contrario, allargare il proprio raggio, fu quella del Prado del 2007 (e che a sua volta era la prima dopo settant’anni d’assenza di mostre sul Tintoretto: la più immediata precedente era quella organizzata a Venezia nel 1937), seguita da quella più modesta delle Scuderie del Quirinale del 2012. La rassegna di Venezia e Washington è poi giunta a seguito di nuove scoperte (soprattutto di carattere documentario) che hanno contribuito a inquadrare meglio alcune importanti opere del Tintoretto, e ha inoltre ampliato la prospettiva della rassegna madrilena del 2007 andando a focalizzarsi in maniera più approfondita su due temi di grande importanza, ossia il ritratto e le tecniche di lavoro.
C’è poi da considerare che una mostra sul Tintoretto è sempre un’operazione oltremodo complicata, dacché gran parte delle sue opere più pregnanti sono inamovibili e tutte concentrate nel centro storico di Venezia: non sarà dunque mai possibile una mostra che porti davvero tutto Tintoretto entro un solo luogo. Quindi, per questa ragione, oltre che per lo stretto legame che unisce il pittore alla sua città (Tintoretto non lasciò mai Venezia, e dei grandi pittori veneti del Rinascimento maturo era l’unico nativo della città, dal momento che al suo pari è possibile collocare giusto Tiziano, che era cadorino, Jacopo Bassano, un altro pittore dell’entroterra, e il Veronese, e che si può escludere Sebastiano del Piombo per il fatto che trascorse la gran parte della propria carriera fuori da Venezia), il capoluogo lagunare non può ch’essere la sede ideale per una mostra che si ponga il fine d’operare una profonda ricognizione sull’arte del Tintoretto.
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Una sala della mostra Tintoretto 1519 - 1594
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Una sala della mostra Tintoretto 1519 - 1594
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Una sala della mostra Tintoretto 1519 - 1594
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Una ricognizione che prende avvio da uno dei momenti più felici della sua carriera: l’affermazione seguita al Miracolo dello schiavo, ch’ebbe il doppio effetto d’aumentare le commissioni ricevute dal pittore, e d’attirare un sempre maggior numero di critiche da parte dei colleghi, che mal tolleravano le innovazioni che Jacopo Robusti aveva introdotto anche sul piano della tecnica. Non si può certo negare che il Tintoretto sia stato un artista in certa misura rapace: una preoccupazione che rimase costante per tutta la sua carriera fu quella di battere sul tempo i rivali licenziando il più alto numero possibile d’opere al fine di procurarsi in continuazione nuovo lavoro. Per conseguire questo risultato, il Tintoretto cercava costantemente di minimizzare i tempi d’esecuzione dei suoi lavori: a tale propensione si deve la sua peculiarissima pennellata, che “risparmiava” sui dettagli ma generava un originale dinamismo privo di precedenti nella storia della pittura veneta e che finiva per ottenere il pieno coinvolgimento dell’osservatore. L’artista, scrive Roland Krischel nel suo saggio a catalogo (dedicato proprio alla tecnica), “utilizzava una pennellata libera e schizzata per le finalità più varie: per esempio, per risparmiare fatica nel caso di un’opera visibile soltanto da lontano o in controluce; per differenziare due diversi livelli di realtà o forme di esistenza; per coinvolgere l’osservatore in un’esperienza visiva più attiva [...]. La rapida applicazione del pennello - a tratti singoli, a macchie, a colpi di pennello - non concede riposo all’occhio, e ciò genera un senso di movimento. Ma, soprattutto, questa pennellata espressiva e vivace attesta il coinvolgimento emotivo dell’artista - e lo comunica all’osservatore”. Queste ricerche così audaci costituiscono forse la più evidente cifra stilistica del Tintoretto maturo: ne è prova evidente un dipinto come la Creazione degli animali, risalente a poco dopo il successo del Miracolo dello schiavo (è databile a un periodo compreso all’incirca tra il 1550 e il 1553). Eseguito nell’ambito d’una serie di teleri per la Scuola della Trinità che dovevano rappresentare altrettanti episodî del libro della Genesi, spicca per il forte senso di movimento impresso dall’artista alle figure, col Padreterno che si libra in volo e gli animali che lo seguono e lo precedono e paion voler trasportare il riguardante nella loro corsa sottolineata da una luce soprannaturale (come quella che crea un alone attorno al cagnolino sulla riva).
Nella stessa sala c’è spazio anche per un’opera come il San Marziale in gloria fra san Pietro e san Paolo, di poco precedente (è del 1549), ma funzionale a introdurre i visitatori a uno dei “perni” della critica tintorettiana: quel cartello con su scritto “il disegno di Michel Angelo e ’l colorito di Titiano” che secondo la tradizione l’artista avrebbe appeso a una parete del suo studio da giovane. Disegno come concetto e progettazione prima della stesura definitiva del dipinto, colorito come diretta e immediata applicazione delle cromie sulla superficie pittorica: una contrapposizione da sempre letta come una sorta di rivalità tra la ragione da una parte e i sensi dall’altra. Alla metà del Cinquecento, tuttavia, il dibattito estetico prese a domandarsi se non fosse possibile unire questi due poli opposti: è probabile che il Tintoretto abbia voluto deliberatamente porsi come l’artista in grado di conciliare le due posizioni proponendo un’arte che coniugasse figure modellate alla maniera dei fiorentini e un colore intenso, saturo e che guardasse direttamente alla natura, quale era quello dei veneti. Il San Marziale è opera in cui si ravvisa in maniera inequivocabile quest’intento del Tintoretto: i due santi che siedono sui troni di nubi ai piedi di Marziale ricordano Michelangelo non solo nel modellato ma financo nella posa (sembrano i profeti della Cappella Sistina), e il colorito rimane simile a quello di Tiziano. La vicinanza a Michelangelo si fa poi esplicita nel momento in cui l’artista studia direttamente le opere del grande artista toscano (presenti, alla mostra di Venezia, con due studî, uno dal Giorno e uno dal Crepuscolo di Michelangelo delle Cappelle Medicee), restituite sulla tela con figure eroiche e prorompenti, come quelle del Sant’Andrea e san Girolamo, possibili grazie all’attenta analisi dei modelli scultorei.
Altrettanto forti e intensi (benché d’altro tipo d’intensità si tratti), sono i nudi tintorettiani, cui la mostra di Venezia ha dedicato una sala intera. Anche qui, Jacopo Robusti s’inseriva nel solco d’una tradizione che aveva toccato i suoi vertici nei nudi femminili di Giorgione e Tiziano: si trattava di nudi ammantati di marcati accenti d’erotismo, per lo più inseriti nel contesto di soggetti mitologici o biblici, che venivano richiesti per decorare ambienti privati. Il Tintoretto, al contrario d’un Tiziano che risolveva i suoi nudi in termini più spiccatamente sensuali, privilegiava un approccio più drammatico, mutando di volta in volta il registro: nelle scene del Vecchio Testamento conservate al Prado, Giuseppe e la moglie di Putifarre e Giuditta e Oloferne, notiamo nel primo caso una scena dai contorni lascivi e pregni d’una sensualità esplicita, mentre, nel secondo caso, all’ebbrezza del condottiero assiro, che lo porta ad abbandonarsi mollemente sul suo letto, fa da contraltare la violenta determinazione di Giuditta che sta per avventarsi su di lui con la spada. Questo labile confine tra generi diversi, ha notato Miguel Falomir, diventa sfocato come non mai in uno dei più noti capolavori erotici del Tintoretto, la Susanna e i vecchioni: malgrado il tema dovesse suggerire lezioni morali all’osservatore del Cinquecento (protagonista è infatti l’eroina biblica che vede la propria purezza insidiata da due vecchi libidinosi, che la minacciano d’accusarla d’adulterio nel caso non si conceda a loro: la situazione viene risolta in extremis dal profeta Daniele, che salva Susanna prima della sua condanna e accusa i due calunniatori dimostrando il loro inganno), il riguardante sembra quasi invitato a unirsi ai vecchi (con “la presenza dello specchio”, scrive Falomir, “e le posizioni deliberatamente contrapposte dei due guardoni [...]” che “ci stimolano a immaginare il corpo della donna da più punti di vista, suscitando un gioco meta-artistico che deve aver sedotto il primo proprietario noto del dipinto, il pittore francese Nicolas Régnier”), e alla fine quest’ultimo “si sente ridicolo per essersi identificato con i due vecchi concupiscenti, figure che costituivano un ricorrente oggetto di derisione in certa letteratura del tempo”. Rimane tuttavia indubbio che il carattere narrativo delle opere mitologiche o bibliche del Tintoretto (specie quelle più scopertamente erotiche) rimanga il tratto più peculiare di quest’ambito della sua produzione.
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Tintoretto, Creazione degli animali (1550 – entro il 1553; olio su tela, 151 x 258 cm; Venezia, Gallerie dell’Accademia)
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Tintoretto, Creazione degli animali, dettaglio
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Tintoretto, San Marziale in gloria fra san Pietro e san Paolo (1549; olio su tela, 386 x 181 cm; Venezia, chiesa di San Marziale)
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Tintoretto, Sant’Andrea e san Girolamo (1552; olio su tela, 225 x 145 cm; Venezia, Gallerie dell’Accademia). Ph. Credit Francesco Bini
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Tintoretto, Giuseppe e la moglie di Putifarre (1552–1555 circa; olio su tela, 54 x 117 cm; Madrid, Museo Nacional del Prado)
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Tintoretto, Giuditta e Oloferne (1552–1555 circa; olio su tela, 58 x 119 cm; Madrid, Museo Nacional del Prado)
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Tintoretto, Susanna e i vecchioni (1555 circa; olio su tela, 147 x 194 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie)
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Le tre successive sezioni della mostra hanno dato modo al pubblico d’intraprendere un singolare e lungo viaggio dentro la tecnica del Tintoretto: s’è trattato d’uno degli aspetti salienti (oltre che più avvincenti) dell’esposizione di Palazzo Ducale. Il primo dei tre focus ha fatto il punto sulla base da cui il pittore partiva per i suoi dipinti: lo studio della figura in azione. L’interesse del Tintoretto per la figura umana lo portava a indagare non soltanto le sculture, come s’è visto sopra, ma anche i modelli vivi, che gli permettevano di catturare con cura estrema le anatomie e le pose che avrebbero poi animato i personaggi inseriti nelle composizioni (e si trattò d’una pratica che l’artista non abbandonò mai: abbiamo documenti attestanti che, anche negli ultimi anni della sua carriera, il Tintoretto continuò a servirsi di modelli viventi). Le figure erano poi incasellate in griglie quadrettate (come appare evidente dalla Figura maschile vestita a cavalcioni, studio per un cavaliere che compare nella grande Crocifissione eseguita nel 1565 per la Scuola Grande di San Rocco), che permettevano all’artista d’ottenere la scala della composizione finale (lo studio finale era funzionale al trasferimento diretto della figura sulla tela). La quadrettatura era la fase ultima dello studio: le figure venivano dapprima rappresentate nude, quindi l’artista procedeva ad aggiungere i vestiti con successive linee di matita o di gessetto (si trattava d’una prassi tipica degli artisti del Rinascimento). Lo s’intuisce osservando il Nudo maschile semisdraiato, uno studio per una figura per il soffitto della Scuola Grande di San Rocco, dove con alcuni tratti a matita viene suggerita la corazza che il personaggio avrebbe indossato nella redazione finale dell’opera. Solo alla fine veniva aggiunta la griglia.
Tuttavia, l’artista non impiegava solo il mezzo del disegno per studiare le sue composizioni. Una delle tecniche più singolari del Tintoretto era l’utilizzo di teatrini in miniatura su cui disponeva delle statuine snodabili di legno, sistemandole nelle pose che i personaggi avrebbero assunto nel dipinto finito (lo sappiamo perché in alcuni disegni ci sono dei riferimenti espliciti a questa pratica). Così facendo, il pittore aveva modo di studiare gli effetti di luce e il modo in cui le figure avrebbero interagito tra loro nel contesto del dipinto. Passando poi all’esecuzione (il secondo dei tre focus dedicati dalla rassegna veneziana alla tecnica del Tintoretto), il pittore abbozzava le sue figure su di un’imprimitura che spesso veniva già colorata in modo da accorciare i tempi di realizzazione: all’imprimitura veniva peraltro spesso aggiunta sabbia, così che la superficie risultasse più ruvida, altro espediente per risparmiare sul tempo di lavorazione. Il metodo di lavoro era, in sostanza, simile a quello d’un frescante che lavorava sulle singole sezioni di una scena (nel caso del Tintoretto, sulle singole figure): ne abbiamo un esempio se osserviamo il bozzetto con Il Doge Alvise Mocenigo presentato al redentore, dove alcuni personaggi come quelli sulla destra sono già quasi finiti, altri (come il doge stesso) appaiono in un avanzato stato di compiutezza, mentre altri ancora sono appena abbozzati.
L’ultimo dei tre approfondimenti s’è focalizzato sulla pratica del riutilizzo, altro stratagemma che l’artista adoperava onde risultare il più veloce possibile e procacciarsi dunque sempre più lavoro. Il riutilizzo nella bottega del Tintoretto era duplice: da un lato, studî di figure venivano impiegati per più dipinti, come testimonia il Martirio di san Lorenzo di collezione privata, opera in cui la figura del santo martire è nella stessa posa assunta dalla Elena di Troia protagonista del Ratto di Elena oggi al Museo del Prado (si tratta di opere realizzate nello stesso periodo, ovvero alla metà degli anni Settanta). Dall’altro lato, il Tintoretto non risparmiava di riciclare dipinti non più utilizzabili: attraverso alcuni accorgimenti, opere già realizzate e per varie ragioni divenute inservibili (per esempio a causa d’un danneggiamento o d’un rifiuto), potevano trasformarsi in dipinti diversi, anche con differente soggetto. Uno dei casi più eclatanti è la Natività conservata al Museum of Fine Arts di Boston: le radiografie hanno rivelato che il Tintoretto utilizzò due frammenti d’una precedente Crocifissione, presumibilmente una Maddalena e una Madonna, trasformandole rispettivamente in una Vergine e in una sant’Anna mediante l’inserimento in un successivo dipinto composto da cinque brani di tela uniti da costure verticali.
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Tintoretto, Figura maschile vestita a cavalcioni (1565; carboncino con lumeggiature bianche su carta azzurrina quadrettata, recto; 312 x 221 mm; Londra, Victoria and Albert Museum)
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Tintoretto, Nudo maschile semisdraiato (1564; gessetto nero su carta bianca quadrettata, 210 x 298 mm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto Disegni e Stampe)
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Cristina Alaimo, Federica Cavallin, Modello restituito da “La Fucina di Vulcano” di Tintoretto (2018; cera d’api e seta, scatola in legno, panno e seta). Ph. Credit Cristina Alaimo
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Tintoretto, Il Doge Alvise Mocenigo presentato al Redentore (1571–1574; olio su tela, 97 x 198 cm; New York, The Metropolitan Museum of Art, John Stewart Kennedy Fund)
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Tintoretto, Martirio di San Lorenzo (1575 circa; olio su tela, 94 x 118 cm; Collezione privata)
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Tintoretto, Natività (1571 circa con riutilizzo di figure precedenti; olio su tela, 156 x 358 cm Boston, Museum of Fine Arts, dono di Quincy A. Shaw)
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Tintoretto, Natività, radiografia |
Dopo una sezione dedicata al Tintoretto che, scomparso Tiziano, diviene il più celebrato e richiesto pittore della Serenissima (e che in molte opere pare abbracciare il lirismo del più anziano maestro), ecco presentarsi dinnanzi al pubblico il lungo corridoio dedicato alla ritrattistica, uno dei principali motivi d’interesse della rassegna, data l’ampiezza e la varietà degli esempî che i curatori hanno sistemato lungo il percorso. Nell’ambito della ritrattistica tintorettiana, la mostra ha perseguito due obiettivi principali: la prima, presentare solo opere d’alta qualità, andando quindi in certa misura a obliterare le selezioni di mostre passate che, secondo i curatori, hanno avuto il difetto d’includere opere tutt’altro che eccelse, e ascrivibili ai seguaci del pittore (la revisione del catalogo del Tintoretto con conseguente restringimento, condivisibile o meno, è un punto su cui Echols e Ilchman, del resto, insistono da tempo). La seconda: dimostrare, attraverso un percorso capace d’esporre alcuni dei più importanti ritratti del Tintoretto in stretto ordine cronologico, che in quest’ambito Jacopo Robusti si colloca al pari dei più grandi ritrattisti della sua epoca (per quanto, al contrario, la sua produzione in questo genere spesso non abbia goduto della considerazione ch’è stata riservata ad altri temi della sua pittura). E che la mostra abbia voluto conferire un peso considerevole alla ritrattistica lo si può anche evincere dal fatto che Echols e Ilchman hanno deciso d’aprirla e di chiuderla con due autoritratti del pittore (il primo che lo cattura in giovane età, l’altro eseguito in età avanzata), anche perché le effigi stesse del Tintoretto dicono molto su come l’artista vedeva se stesso, ovvero come un artista che, al contrario di Tiziano, ambiva a instaurare un rapporto diretto con l’osservatore, e che per raggiungere questo obiettivo non si curava delle apparenze: non ci sono, cioè, elementi che rimandino al suo status, benché all’epoca della realizzazione dei due dipinti Jacopo Robusti fosse già un artista affermato, che ben poteva permettersi di tramandare un’immagine altisonante di sé. Siamo semmai di fronte agli autoritratti d’un artista energico, che con determinazione cerca “di spingersi sempre oltre, di superare i limiti imposti dalle convenzioni, tutti elementi in accordo con ciò che del pittore sappiamo grazie alle parole dei suoi contemporanei e dei suoi primi biografi” (Echols e Ilchman).
La principale novità dell’esposizione consiste proprio nel tentativo di riposizionamento critico della ritrattistica tintorettiana: l’assunto è che l’artista meriti, scrivono i curatori, “di essere considerato uno fra i massimi ritrattisti del XVI secolo, ammettendo comunque che tale giudizio si basa su un numero limitato di opere autografe”. Il pittore adottò spesso la solita formula: il soggetto è girato di tre quarti e sembra che si sia appena voltato (i ritratti del Tintoretto ci dànno una forte impressione di movimento e vitalità), emerge da un fondo cupo, e non ci sono troppi elementi che distolgano l’attenzione del riguardante dal volto del personaggio raffigurato. Occhi e mani sono le parti del corpo su cui l’artista vuole che posiamo lo sguardo: del resto, coi suoi grandi teleri a soggetto religioso o mitologico, il Tintoretto mirava a coinvolgere emotivamente gli osservatori, e così vale anche per i ritratti. Si vedano, per esempio, le espressioni dell’Uomo all’età di ventisei anni o dell’Uomo con una catena d’oro, tutti peraltro mirabili capolavori animati da grande spontaneità e da un elevato grado di naturalismo: per Echols e Ilchman, la vera grandezza della ritrattistica del Tintoretto risiede proprio nel suo approccio teso a far leva sull’effimero anziché sull’eterno. In altri termini, tradizionalmente il ritratto aveva la funzione di tramandare l’immagine del soggetto: Jacopo Robusti, con le sue sperimentazioni ch’erano volte a cercare una sorta di dialogo tra soggetto e riguardante, fissava il protagonista del dipinto in un momento e lo rendeva percepibile, vicino, in qualche modo presente. Addirittura, in un capolavoro come il Ritratto di un giovane della famiglia Doria questa presenza si fa quasi concreta, con il personaggio che sembra uscire dai limiti fisici del quadro col gesto della mano tesa verso l’osservatore e le labbra strette a pronunciare una parola, come se ci stesse parlando. Queste caratteristiche paiono venir meno nei ritratti femminili, che secondo Echols e Ilchman non sono quasi mai all’altezza degli omologhi maschili: forse, un approccio troppo diretto sarebbe venuto meno all’esigenze di decoro necessarie al ritratto d’una donna di buoni costumi. Ci sono però eccezioni, come il Ritratto di donna in rosso con il suo esuberante abbigliamento e con la sua fermezza e la sua sicurezza nel fissare lo sguardo davanti a sé. L’artista non mancò poi di realizzare ritratti di gruppo (ne è un esempio la Santa Giustina con tre tesorieri e i loro segretari, realizzato nel 1580 in collaborazione col figlio Domenico), che però non raggiunsero il livello dei ritratti individuali.
Quasi a guisa di coda della galleria riservata ai ritratti, la mostra ha dedicato una sala al tema del movimento in Tintoretto: l’eloquente titolo della sezione, L’istante sospeso, ha voluto porre l’accento sul fatto che molti dipinti di Jacopo Robusti, specialmente quelli a carattere narrativo, colgano l’azione in un momento ben preciso. Come in un’istantanea fotografica: immaginando il pittore nell’ambiente in cui ha luogo la vicenda, potremmo affermare che se fosse arrivato appena uno o pochi secondi più tardi, davanti a lui si sarebbe presentata una scena completamente diversa. È così nel Tarquinio e Lucrezia, uno dei più potenti dipinti dell’artista veneto, nel quale lo stupro si consuma in un momento concitato e dove la violenza estrema del momento (dimostrata non solo dalla brutalità di Tarquinio, ma anche dal particolare della statua che cade a terra e che ben ci aiuta a immergerci nella scena) si mescola all’erotismo suggerito dal corpo nudo di Lucrezia: è questo un altro dei dipinti del Tintoretto in cui labile è il confine tra generi diversi (anzi, ne è forse l’esempio in certo modo più evidente). Così è poi nel Ratto di Elena, dove l’episodio principale, il rapimento della mitologica moglie di Menelao, ha luogo mentre infuria una dura battaglia. Dalla mitologia alla religione, Tintoretto 1519 - 1594 ha affidato la conclusione al tema della ricezione dei dettami della Controriforma da parte del pittore: in un dipinto tardo, il Battesimo di Cristo eseguito per la chiesa di San Silvestro, il Tintoretto seguitò a innovare proponendo due figure impetuose e traboccanti, e il gesto della mano destra di Gesù che si protende in avanti (si consideri che l’opera era destinata a esser collocata sopra un altare) è stato letto come un’allusione al sacramento eucaristico e quindi alla dottrina della transustanziazione che la Chiesa intendeva riaffermare dopo il rifiuto dei luterani, che non riconoscevano la conversione dell’ostia consacrata nella sostanza del corpo di Cristo. Tesi della mostra, sostenuta dall’impegno che il Tintoretto profondeva nelle commissioni a carattere religioso, anche in quelle meno importanti, è che l’artista avesse aderito al messaggio della Controriforma non per convenienza, ma in maniera sincera e spontanea: così, secondo questa lettura, i suoi dipinti religiosi assumerebbero i connotati di devoti atti di fede.
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Tintoretto, Autoritratto (1546–1547 circa; olio su tela, 45 x 38 cm; Philadelphia Museum of Art, dono di Marion R. Ascoli e del Marion R. and Max Ascoli Fund, in onore di Lessing Rosenwald)
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Tintoretto, Autoritratto (1588 circa; olio su tela, 63 x 52 cm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Peintures)
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Tintoretto, Ritratto di un uomo all’età di ventisei anni (1547; olio su tela, 130 x 98 cm; Otterlo, Kröller–Müller Museum)
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Tintoretto, Ritratto di uomo con una catena d’oro (1560 circa; olio su tela, 104 x 77 cm; Madrid, Museo Nacional del Prado)
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Tintoretto, Ritratto di un giovane della famiglia Doria (1560 circa; olio su tela, 107 x 73 cm; Madrid, Museo Cerralbo)
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Tintoretto, Ritratto di donna in rosso (1555 circa; olio su tela, 98 x 75 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie)
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Tintoretto, Santa Giustina con tre tesorieri e i loro segretari (1580; olio su tela, 217 x 184 cm; Venezia, Gallerie dell’Accademia, in deposito presso il Museo Correr)
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Tintoretto, Tarquinio e Lucrezia (1578 – 1580 circa; olio su tela, 175 x 152 cm; Chicago, The Art Institute of Chicago, Art Institute Purchase Fund)
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Tintoretto, Ratto di Elena (1576–1577 circa; olio su tela, 186 x 307 cm; Madrid, Museo Nacional del Prado)
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Tintoretto, Battesimo di Cristo (1580 circa; olio su tela, 283 x 162 cm; Venezia, chiesa di San Silvestro)
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Le differenze con la mostra sul giovane Tintoretto alle Gallerie dell’Accademia sono molte e facilmente ravvisabili. S’è trattato di due esposizioni sostenute da due tipi d’impostazione praticamente opposti: più filologia all’Accademia, più divulgazione a Palazzo Ducale, con la conseguenza che la seconda mostra è risultata sicuramente più facile della prima, anche per i curatori (in una mostra di taglio filologico un dipinto è insostituibile, cosa che invece non accade in una rassegna per lo più divulgativa: senza contare che poi, a Palazzo Ducale, un discorso abbozzato in certe sale sarebbe stato calzante anche in altre sezioni, e sopra s’è fatto l’esempio del Tarquinio e Lucrezia che non sarebbe stato fuori luogo nella sezione sull’“intimità”, così come la Giuditta e Oloferne ben sarebbe figurata nella penultima sezione). Inoltre, la mostra di Palazzo Ducale contava soltanto su dipinti del Tintoretto: è mancato dunque il confronto con altri artisti (seppur comunque richiamati), ma l’assenza è risultata compensata da alcune sezioni molto convincenti, a cominciare da quelle sulla tecnica e sul ritratto dove, come detto, si sono concentrati i punti più interessanti dell’intera esposizione. La rilettura critica della ritrattistica, sia che la si voglia accogliere con favore, sia che invece la si ritenga discutibile, è probabilmente l’unica novità rilevante (escludendo, s’intende, la presentazione degli ultimi restauri: diverse le opere che hanno subito interventi in vista della rassegna, e tra queste figura anche il San Marziale), e si può ben affermare che i curatori si siano presentati all’appuntamento con le celebrazioni del cinquecentenario tintorettiano con una mostra scientificamente solida e che ha avuto il suo maggior punto di forza in un percorso divulgativo chiaro, rigoroso e ottimamente strutturato, che ha letteralmente accompagnato il pubblico dentro i quadri del Tintoretto. Da sottolineare, in particolare, i continui e puntuali rimandi tra disegni e dipinti, e l’efficace ricostruzione del processo creativo dell’artista, che s’è avvalsa d’esempî d’altissimo livello. A Washington si ripeterà tutto quanto descritto sopra, pur con una selezione d’opere allargata: si tratta, del resto, della prima volta che l’artista veneto è oggetto d’una monografica negli Stati Uniti, dove oggi si conservano molti dei suoi dipinti.
Un’ultima nota, infine, sul catalogo della mostra, compilato in forma alquanto inusuale: mancano le schede delle opere (al loro posto un più agile regesto con brevi commenti, notizie sulla provenienza e bibliografia selezionata: peraltro, l’elenco non è neppure ordinato sulla base di come le opere si presentano in mostra, ma segue un semplice criterio cronologico), e s’è scelto di dare molto più spazio ai contributi critici, che coprono un amplissimo arco della carriera e della produzione del Tintoretto. Ne risulta dunque un libro sull’artista che, se da un lato impedisce al lettore di ricostruire il percorso della mostra (anche perché nei saggi le opere esposte s’alternano a quelle invece non presenti), al contempo offre un’interessante e approfondita panoramica sul pittore, adatta anche a un pubblico vasto.
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L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).