di
Federico Giannini
(Instagram: @federicogiannini1), scritto il 30/12/2018
Categorie: Recensioni mostre / Argomenti: Anton Maria Maragliano - Genova - Liguria - Seicento - Barocco - Arte antica
Recensione della mostra 'Maragliano 1664-1739. Lo spettacolo della scultura in legno a Genova' a Genova, Palazzo Reale, dal 10 novembre 2018 al 10 marzo 2019.
Dirà poco il nome d’Anton Maria Maragliano (Genova, 1664 - 1739) a molti che vivono fuori dalla Liguria. La fama di questo scultore è per lo più confinata a Genova e dintorni, e passate Ventimiglia e Luni (anche se, con maggior precisione, occorrerebbe parlare di Sanremo e Sestri Levante, rispettivamente limite occidentale e orientale della sua presenza in regione) diventa anche impresa ardua trovare sue opere: la stragrande maggioranza della sua produzione è, infatti, ancora custodita nelle chiese, negli oratorî, nei palazzi e nei musei di questo lembo di terra stretto tra mare e Appennino. Potrebbe apparire singolare il fatto che un così grande artista, cui quest’anno Palazzo Reale a Genova dedica la prima mostra monografica (s’intitola Maragliano 1664-1739. Lo spettacolo della scultura in legno a Genova, curata da Daniele Sanguineti con la direzione di Luca Leoncini), sia così poco noto oltre i confini regionali. Anche perché non c’è viaggiatore che, giunto in Liguria, non sia incappato in una qualche sua opera, e spesso quando ci si trova davanti una scultura in legno di Maragliano si è mossi a stupore: Maragliano fu un genio del barocco, fu personalità estremamente recettiva, seppe trarre spunti dai pittori (su tutti Domenico Piola), riuscì a cogliere l’essenza dell’arte berniniana e interpretarla con un linguaggio altamente teatrale e al contempo fortemente naturalistico che aspirava a rivolgersi a un pubblico che fosse più vasto possibile, fu capace di trarre beneficio dalla collaborazione con uno specialista degli altari in marmo quale fu Jacopo Antonio Ponzanelli (Massa, 1654 - Genova, 1735), dimodoché i suoi teatri sacri risultassero tra i più scenografici del tempo.
Eppure, malgrado tali credenziali, Maragliano rimane tuttora pressoché sconosciuto fuori dalla sua terra d’origine. A suo sfavore hanno giocato alcuni fattori: primo, il non essersi mai mosso da Genova per l’intera durata della sua carriera. È Maragliano un artista saldamente radicato nella sua regione, e addirittura possiamo pensare che non abbia mai viaggiato fuori da Genova (del resto, non ci rimangono documenti che ce lo possano attesare, e non abbiamo motivi per ipotizzare soggiorni fuori dai patrii confini): il suo stile si formò su esempî che aveva a disposizione in città, ma che evidentemente gli furono sufficienti per giungere ad altissimi esiti d’originalità. Liguri furono dunque i suoi maestri, liguri i suoi punti di riferimento, ma ligure fu anche la sua clientela, e naturalmente liguri i suoi eredi. Si pensi, soprattutto, ai suoi committenti: gran parte del lavoro di Maragliano era destinata a parrocchie e confraternite, e di conseguenza la portata che un tale parterre poteva garantire alla sua arte non poteva che essere limitata (anche se, di converso, gli assicurò una diffusione capillare sul territorio). È poi vero che sue opere giunsero fino in Spagna (Genova è da secoli città di scambi e d’incontro di culture diverse), ma si trattò di casi sporadici. Inoltre, le sue opere erano in gran parte destinate a una funzione estremamente pratica: dovevano decorare cappelle, o essere portate in processione. E se la mente corre alle processioni, non si potrà far a meno di ragionare sul fatto che le opere di Maragliano dovessero parlare la lingua di chi le avrebbe pregate o venerate, e si trattava quasi sempre d’una lingua percepita come popolaresca e lontana dalle sensibilità delle persone colte che viaggiavano. In ultimo, e forse aspetto fondamentale, occorre considerare che la scultura lignea, nei secoli, ha sempre goduto di minor rilievo e minor attenzione rispetto alla scultura in marmo, ritenuta una sorta di sorella più nobile.
È infatti recente la riscoperta dell’arte del legno e, nel catalogo della mostra di Palazzo Reale, Luca Leoncini ne presenta le tappe, in Italia e nel mondo: i primi pionieristici tentativi d’imbastire un discorso sulla scultura in legno risalgono agli anni Cinquanta, quando Ferdinando Bologna e Raffaello Causa curarono una rassegna sulle Sculture lignee nella Campania (1950), seguiti a stretto giro dall’Antica arte lignea in Liguria a cura di Pasquale Rotondi (1952) e da un’esposizione sulla Scultura lignea nel Friuli (1956). Si trattò di tentativi ch’ebbero però poco seguito, dacché si tornò solo cinquant’anni più tardi a ragionare sull’argomento: a riprendere il filo, la mostra La bellezza del sacro di Arezzo (2002), un approfondimento dedicato alla scultura medievale policroma, cui seguirono la Sacra Selva del 2004 (sulla scultura lignea ligure tra XII e XVI secolo, a cura di Franco Boggero e Piero Donati) e la mostra dei Maestri della scultura in legno nel ducato degli Sforza (2005), passando attraverso l’importante monografica su di un grande contemporaneo di Maragliano, il veneto Andrea Brustolon (Andrea Brustolon, il “Michelangelo del legno” del 2009), per arrivare all’importante rassegna che, nel 2016, gli Uffizi hanno dedicato alla scultura lignea del Quattrocento a Firenze. Più timida la riscoperta internazionale, che Leoncini fa risalire a un quindicennio fa con la mostra The Sacred Made Real (alla National Gallery di Londra tra 2009 e 2010, sulla scultura spagnola del Seicento): forse per il fatto che, suggerisce lo studioso, la scultura in legno dell’area mediterranea sia molto distante dall’“impostazione culturale” del pubblico anglosassone, refrattario a “manifestazioni troppo esplicite di carnalità esibita, in modo particolare in scene religiose”. La mostra di Palazzo Reale, allestita negli spazî del Teatro del Falcone, rappresenta pertanto il capitolo più recente d’un’evoluzione lenta, ma ricca e importante (anche perché una mostra di scultura in legno è quasi sempre occasione di ricognizioni sul territorio, oltre che foriera di nuove scoperte), ed essendo la prima monografica su Maragliano si tratta anche del primo tentativo di presentare a un pubblico vasto uno scultore d’eccezionale statura, per lungo tempo considerato un artista di livello locale, invece che uno straordinario protagonista del barocco tardo.
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Una sala della mostra su Anton Maria Maragliano a Genova, Palazzo Reale
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Una sala della mostra su Anton Maria Maragliano a Genova, Palazzo Reale
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Una sala della mostra su Anton Maria Maragliano a Genova, Palazzo Reale
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E come ogni monografica che voglia aspirare all’eccellenza, anche la mostra su Maragliano s’apre con una puntuale ricostruzione del contesto. Nella fattispecie, il percorso comincia dalla scultura in legno a Genova prima di Maragliano: si parte dal 1645, quindi vent’anni prima che Maragliano nascesse, e otto anni dopo che la Madonna venisse proclamata Regina di Genova. La solenne proclamazione del 1637 diede il via alla produzione d’una serie d’immagini della Vergine nella quale s’inserisce anche una scultura realizzata da Giovanni Battista Bissoni (Genova, primo decennio del XVII secolo - 1657) per la chiesa di San Marco a Civezza (Imperia): si trattava d’una replica pressoché pedissequa dell’immagine che lo stesso Bissoni aveva scolpito proprio nel 1637, su progetto di Domenico Fiasella (Sarzana, 1589 - Genova, 1669), in occasione della cerimonia (oggi l’opera è conservata a Voltri). Bissoni era il maggiore degli scultori in legno nella Genova di metà Seicento, e benché la Madonna Regina di Genova, in quanto commessa ufficiale, palesi un linguaggio piuttosto trattenuto e tradizionale, si tratta d’un’opera che prosegue le ricerche cominciate dal padre di Giovanni Battista, Domenico, volte a rinnovare in maniera radicale la scultura lignea genovese per aggiornarle su di un più elevato naturalismo (evidente, del resto, anche osservando la Regina di Genova) che intendeva avere anche scopi eminentemente narrativi. Quest’ultima caratteristica non s’apprezza nell’opera che apre la mostra, ma osservando una realizzazione d’un allievo di Giovanni Battista Bissoni, Marco Antonio Poggio (Genova, 1611? - Spagna, prima del 1674), la Decollazione del Battista, si può ben comprendere verso quali esiti mirassero gli artisti del legno al tempo: la scena è colta in un momento ben preciso, il carnefice tira il braccio all’indietro per assestare con la spada il colpo mortale, il santo attende sereno la sua sorte, e Salomè indica con aria compiaciuta la fine del Battista. Il tutto quasi con eccesso d’ornamenti (basti osservare il vestito di lei). Si tratta d’un gruppo ormai pienamente barocco, teatrale, coinvolgente, orientato verso Roma (Poggio, probabilmente, visitò la capitale dello Stato Pontificio). Accanto a opere come queste si situava comunque una produzione più tradizionale: in mostra abbiamo l’esempio della Madonna del Rosario di Giuseppe Maria Arata (Genova, 1658 - dopo il 1715), peraltro indicato da Carlo Giuseppe Ratti come maestro di Maragliano: è opera che non si discosta troppo da schemi convenzionali.
Una breve sezione interlocutoria, con rapida ricognizione documentaria, presenta quindi le tappe della formazione di Maragliano: lo sappiamo, sedicenne, allievo di Giovanni Battista Agnesi, che era marito della zia materna di Anton Maria e cognato di Filippo Parodi (Genova, 1630 - 1702), il principale scultore genovese del tempo, col quale Agnesi compì forse un soggiorno a Roma, dove all’epoca operava un fuoriclasse dell’intaglio come Johann Paul Schor (proprio su queste pagine abbiamo avuto modo d’approfondire i legami tra Parodi e Schor) e dov’era chiaramente vivo l’esempio di Bernini e Algardi. Tutte situazioni che, a vario titolo, avrebbero costituito il sostrato sul quale sedimentò l’arte di Maragliano, che poco più che ventenne era già artista indipendente e soprattutto orgoglioso: la mostra espone la supplica con la quale, nel 1688, il ventiquattrenne Anton Maria chiedeva al Senato della Repubblica di Genova l’esenzione dall’obbligo d’iscriversi all’arte dei “bancalari” (ovvero i falegnami: gli scultori in legno erano infatti tenuti ad affiliarsi a questa corporazione) perché, sosteneva l’artista, la scultura in legno è fra le arti liberali “la più nobile anche in paragone della pittura”. Una richiesta che, in qualche modo, dovette esser soddisfatta, dacché Maragliano mai entrò a far parte della camera dei falegnami. Occorre però attendere fino al 1694 per trovare la sua prima opera documentata: si tratta del San Michele Arcangelo per l’omonima confraternita di Celle Ligure, un’opera per spiegare la quale, sottolinea Sanguineti, “non si può ricorrere a nulla di analogo, se non abbandonando il campo della scultura lignea e varcando quelli della pittura e della scultura in marmo”. Il “volo soave” del san Michele che, con scatto elegante, impugna la lancia (muovendola solo con la punta delle dita!) per sconfiggere il Lucifero che già soccombe con grido disperato, ha precedenti illustri che la mostra, in uno dei suoi momenti più alti, offre al visitatore per rendere evidenti i richiami del primo capolavoro maraglianesco documentato: la postura dell’angelo replica quella d’una pala di Gregorio De Ferrari (Porto Maurizio, 1647 - Genova, 1727) eseguita per la cappella Imperiale in Santa Maria delle Vigne, quella del diavolo trova puntuale riscontro in un disegno di Domenico Piola (Genova, 1628 - 1703) oggi al Gabinetto dei Disegni e delle Stampe di Palazzo Rosso, il modo in cui il santo afferra la lancia è del tutto simile a quello che l’arcangelo mostra in un altro disegno di casa Piola, e l’urlo belluino del demonio è in rapporto con l’Anima dannata del ceroplasta siciliano Giovan Bernardo Azzolino (Cefalù, 1572 circa - Napoli, 1645), all’epoca in collezione Doria, nota negli ambienti artisti cittadini, e a sua volta discendente dall’omologa e celebre opera di Bernini.
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Giovanni Battista Bissoni, Madonna Regina di Genova (1645; legno scolpito, dipinto e dorato, 155 x 90 x 90 cm; Civezza, chiesa di San Marco)
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Marco Antonio Poggio, Decollazione di san Giovanni Battista (1660-1665 circa; legno, scolpito, dipinto e dorato, occhi in pasta vitrea, 290 x 193 x 300 cm; Genova, Sestri Ponente, Oratorio Morte e Orazione)
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Giuseppe Maria Arata, Madonna del Rosario (1702-1704; legno, scolpito, dipinto e dorato, occhi della Madonna in pasta vitrea, 155 x 60 x 60 cm; Rapallo, San Pietro di Novella, San Pietro)
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Anton Maria Maragliano, San Michele Arcangelo (1694; legno, scolpito, dipinto e dorato, 170 x 209 x 173 cm; Celle Ligure, San Michele Arcangelo)
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Gregorio De Ferrari, San Michele Arcangelo (olio su tela, 110 x 72,5 cm; Collezione privata)
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Giovanni Bernardo Azzolino, Anima dannata (cera, 7,5 cm; Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte)
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Confronto tra il San Michele di Maragliano e quello di De Ferrari
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Il San Michele Arcangelo palesa già la cifra stilistica che costituirà la base della scultura maraglianesca: le novità apportate dallo scultore genovese ”concedevano ai fedeli la definitiva risposta alle proprie aspettative: l’inedito ‘iperrealismo’ delle figure e la spettacolarità delle casse processionali accentuavano gli aspetti patetici già insiti nella tridimensionalità scultorea, garantendo una più stringente identificazione emotiva tra pubblico e simulacro” (Valentina Borniotto). Santi che pregano sofferenti, santi gelati dallo stupore dinnanzi ad apparizioni estatiche, santi che patiscono i tormenti del martirio: queste sono le figure che, votate al più vivace e spesso crudo espressionismo, popolano l’arte di Maragliano. La rassegna genovese presenta appaiati, l’uno a fianco dell’altro, il San Pietro d’Alcantara e il San Pasquale Baylon realizzati per i francescani di Santa Maria della Pace: proprio i francescani furono tra i clienti più assidui di Maragliano, forse proprio in virtù dell’alto grado di realismo che lo scultore era in grado di toccare. I due santi per Santa Maria della Pace, risalenti agl’inizî del secolo XVIII, ne sono prova evidente: il loro atteggiamento, i volti smunti ed emaciati, le capigliature che rispettano la tradizionale iconografia (calvo san Pietro d’Alcantara, e coi capelli folti e lisci Pasquale Baylon: quelli che Maragliano gli dona paiono quasi impomatati) raggiungono un intenso naturalismo in linea con le richieste dei francescani, che esponevano le due statue in occasioni di festività solenni.
Successivamente, il corridoio di fondo del Teatro del Falcone, sulle pareti del quale per l’occasione sono stati sistemati crocifissi su ambo i lati, introduce il pubblico al primo approfondimento tematico della rassegna: il rinnovo dell’iconografia del crocifisso. Carlo Giuseppe Ratti, nella sua biografia di Maragliano, afferma che “suoi primi lavori furono certe Immagini di Crocifissi, nella struttura delle quali avea già acquistata molta perizia, per le accurate osservazioni e frequenti copie fatte dal rarissimo Crocifisso, Opera del Bissoni, che sta esposta nella Chiesa del Santo Spirito presso i PP. Somaschi”. L’opera di Bissoni (in questo caso, si tratta di Giovanni Battista) cui Ratti allude è esposta in mostra: si tratta del Crocifisso realizzato attorno al 1643 per la cappella della Croce in Santo Spirito, su commissione della famiglia Spinola, che ne deteneva il giuspatronato. Di questo Cristo in croce aveva parlato anche Raffaele Soprani, definendolo “il più bello de’ bellissimi”: si trattava, in effetti, di un’immagine nuova, di un Crocifisso che intendeva coniugare il vivo naturalismo d’imprese precedenti, come il Cristo spirante di Domenico Bissoni (Bissone, prima del 1574 - Genova, 1637), che descrive con sentito e partecipe patetismo la sofferenza di Gesù in agonia sulla croce, a pulsioni solenni e in certa misura classiciste, stimolate dall’interesse per il linguaggio di Algardi oltre che da testi già presenti in città (su tutti il Cristo di Federico Barocci ancor oggi conservato nella Cattedrale di San Lorenzo, nel luogo per il quale fu dipinto: la cappella Senarega).
È un Maragliano molto giovane quello che si confronta con il Cristo di Giovanni Battista Bissoni: una ricerca di Massimo Bartoletti recentissima (è di quest’anno) ha proposto di fissare, sulla base d’informazioni desunte da un inventario, al 1689 la data d’esecuzione del Crocifisso di Maragliano nella chiesa della Santissima Annunziata di Spotorno. Si tratta d’un modello che riecheggia fedelmente l’opera di Bissoni (addirittura, le pieghe del perizoma di Cristo seguono lo stesso andamento): solo, il Cristo di Maragliano è girato dall’altro lato, in maniera speculare rispetto a quello di Bissoni. Nelle realizzazioni successive, Maragliano diede prova di staccarsi dai suoi punti di riferimento, proponendo, come s’è anticipato, un nuovo tipo iconografico, con un Cristo inquadrato nello schema d’un’impaginazione sempre più sinuosa (è il caso, per esempio, del Crocifisso della chiesa dela Natività di Maria Santissima di Bogliasco, o di quello di Villa Faraldi a Imperia) ma che non rinuncia a una continua ricerca di veridicità che sfiora il virtuosismo, specie se s’osservano i dettagli delle anatomie (il modo in cui Maragliano modellava i muscoli denota un’approfondita conoscenza del corpo umano) o quelli del volto (e particolarmente intensa, in tal caso, è l’espressione del Cristo spirante della chiesa di San Michele a San Michele di Pagana, vicino Rapallo: si tratta di una delle sue ultime opere). Gli esperimenti di Maragliano ebbero grande successo, se i suoi allievi s’attestarono, seppur con esiti meno felici, sugli schemi impostati dal maestro: tra i crocifissi che la mostra espone si può menzionare a esempio quello di Giovanni Battista Maragliano (notizie dal 1714 al 1737), eseguito per l’oratorio di Santa Chiara di Bogliasco e col quale il figio d’Anton Maria propone un’interpretazione sobria delle innovazioni di suo padre.
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Anton Maria Maragliano, San Pasquale Baylon e san Pietro d’Alcantara (1700-1705 circa; legno, scolpito, dipinto e dorato, occhi in pasta vitrea, rispettivamente 108 x 78 x 73 cm e 121 x 79 x 43 cm; Genova, Nostra Signora della Visitazione)
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Giovanni Battista Bissoni, Crocifisso (1643 circa; legno scolpito e dipinto, 177 x 116 cm; Genova, Basilica di Santa Maria Immacolata)
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Anton Maria Maragliano, Crocifisso (1689; legno scolpito e dipinto, 185 x 120 cm; Spotorno, Santissima Annunziata)
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Anton Maria Maragliano, Crocifisso (1738; legno scolpito e dipinto, 170 x 97 cm; Rapallo, San Michele di Pagana, chiesa di San Michele)
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Giovanni Battista Maragliano, Crocifisso (1714; legno scolpito e dipinto, 120 x 80 cm; Bogliasco, Santa Chiara)
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Una breve parentesi sulla progettazione delle grandi sculture in legno (sono esposti disegni e modelli) conduce il visitatore verso il clou della mostra, che s’apre dapprima con una sezione dedicata al “gran teatro delle casacce”: a Genova, le cosiddette casacce erano associazioni di più confraternite in uno stesso oratorio, ognuna intitolata a un santo diverso (benché le confraternite che le costuitivano continuassero a riverire ugualmente il loro patrono), e che, spiega Fausta Franchini Guelfi nel saggio a catalogo dedicato proprio alle casacce, “manifestavano pubblicamente la loro rilevanza nel rituale processionale: è infatti la processione [...] a rappresentare la più esplicita e vivace espressione delle esigenze devozionali, delle conflittualità sociali, della necessità di ribadire, nel contesto di un territorio e di un sistema di rapporti, la propria esistenza come gruppo, riaffermando il proprio prestigio anche con la magnificenza dell’apparato”. E di tale magnificenza, Maragliano fu l’interprete più innovativo e sorprendente: le sue casse (il termine con cui a Genova si designavano le macchine da processione, i grandi simulacri portati a spalla dai membri delle confraternite durante le ricorrenze) raggiunsero inusitate vette di spettacolarità, che la mostra intende rievocare avvalendosi anche di allestimenti che non lesinano in fatto di gusto scenografico (ambienti cupi, casse esposte isolate l’una dall’altra e poste a un’altezza all’incirca simile a quella che dovevano avere quando venivano trasportate). L’esigenza delle casacce era quella d’impressionare fortemente il pubblico delle processioni (oltre che i membri delle casacce rivali: spesso le processioni erano addirittura causa di scontri violenti) con macchine imponenti, votate alla più drammatica teatralità. A essere rappresentate erano scene delle vite dei santi titolari delle casacce: si trattava spesso di martirî o visioni, momenti narrati secondo una stretta aderenza alle agiografie. Maragliano non era interessato a fornire una propria interpretazione dei testi sacri: ciò che gli premeva, era semmai rappresentare i testi secondo una spettacolarità mai sperimentata prima da altri. Le novità maraglianesche risiedevano dunque nella sua lingua densa, diretta, drammatica, emozionante, immaginifica, spesso capace di scendere negli abissi del grottesco, atta a dar forma alle tardocinquecentesche istanze paleottiane d’eccitamento degli animi degli astanti. Oggi, gran parte delle casse di Maragliano ha perso la sua funzione originaria, ma per farsi un’idea delle sensazioni che scaturivano in chi le osservava durante le processioni, è necessario immaginarsele portate a spalla in mezzo a una folla chiassosa e vociante per le strade di Genova. Tra le casse maraglianesche più potenti figura di sicuro il Sant’Antonio abate che contempla la morte di san Paolo eremita, scolpita tra il 1709 e il 1710 per la confraternita dei Santi Antonio Abate e Paolo Eremita e oggi nell’oratorio di Sant’Antonio Abate a Mele: un imponente gruppo processionale di quasi quattro metri d’altezza, celebrato da Ratti (“io francamente asserisco esser questa la miglior Opera che sia uscita dagli scarpelli del Maraggiano”), e figurazione tra le più complesse ideate dall’artista genovese, oltre che ricchissima, col protagonista, Antonio Abate, che vede morire san Paolo eremita e la sua anima elevata al cielo da un nugolo d’angeli, mentre un altro putto, in basso, regge la mitra e il pastorale di Antonio abate. La cura del dettaglio è elevatissima e la mimesis investe anche il basamento del gruppo, che imita l’ambiente roccioso sul quale ha luogo la scena. Votata alla meraviglia è anche l’Annunciazione del 1722, opera della maturità con cui Maragliano giunge a una maggior raffinatezza e che “segna da parte dello scultore la conquista di una nuova freschezza esecutiva, all’insegna dell’estrema eleganza formale, unica nel panorama contemporaneo genovese” (Daniele Sanguineti): conquiste che verranno sottolineate nei gruppi tardi, come il Martirio di santa Caterina, immaginato a guisa di scenografica struttura a piramide con, al vertice, gli angeli che corrono in soccorso della santa che subisce le torture dei suoi aguzzini (la scena è comunque tutt’altro che cruda: il Maragliano tardo sperimenta uno stile che coniughi dramma e grazia).
E se gran parte del teatro maraglianesco si svolgeva per strada, non meno significativo era quello concepito per gl’interni delle cappelle: alla produzione di casse s’affiancava, infatti, quella dei gruppi da altare. L’artista, guardando da un lato alle composizioni del francese Honoré Pellé (Gap, 1641 - Genova, 1718), dall’altro agli splendori in marmo di Filippo Parodi, e collaborando, come anticipato, col carrarese Ponzanelli cui spettava il compito d’ideare gli apparati che avrebbero accolto le statue, riuscì a creare opere d’arte totali dove protagonisti erano non solo i suoi personaggi, ma anche gli sfondi dipinti dai pittori, la luce che veniva sfruttata in senso narrativo, le architetture che inquadravano le composizioni. Non è semplice rendersene conto in mostra (l’invito dei curatori è, infatti, quello d’andare anche alla scoperta delle opere distribuite in città, molte delle quali ancora nelle loro sedi originarie), ma alcuni gruppi, specialmente quelli sul tema della Passione di Cristo, ben rendono l’idea. Tra questi, la Deposizione dalla croce, che porta a vita tridimensionale un precedente cambiasesco in pittura (oggi peraltro non conserviamo più gli allestimenti originarî, perché la chiesa che ospitava l’opera è andata distrutta all’epoca delle soppressioni napoleoniche), o la lodatissima Pietà tutta giocata sulle diagonali e quindi quasi animata da movimento.
Nelle battute conclusive, la mostra indaga le evoluzioni subite dalle rappresentazioni della Madonna nella Genova del Seicento: un rinnovamento all’insegna dell’esuberanza barocca, seppur in qualche modo attenuata rispetto a ciò che accadeva in contemporanea a Roma, che fu spronato dalla presenza in città d’un grande scultore quale fu Pierre Puget (Marsiglia, 1620 - 1694) e, ancora, dall’attività di Filippo Parodi, che a Genova fu grande divulgatore dei modi d’Alessandro Algardi, peraltro presente in mostra con una Madonna col Bambino in bronzo (si consideri che Algardi era soprattutto scultore in marmo) probabilmente nota a Genova, dal momento che si tratta d’un modello che diversi scultori genovesi replicarono. Maragliano fu il primo a tradurre in legno (e dunque a rinnovare un ambito che rimaneva ancora legato a stilemi tradizionali) le suggestioni provenienti dal marmo, alla ricerca d’un plasticismo e d’una morbidezza inediti nella scultura lignea genovese. Madonne in movimento, aggraziate e abbigliate con vesti elegantemente decorate, come la Madonna del Rosario di Celle Ligure, il cui mantello disegna eleganti volute che cadono formando pieghe quasi innaturali, o la particolarissima Madonna del Carmine, interamente dipinta di bianco per simulare una scultura in marmo, e dove tornano gli svolazzi dei panneggi e il raffinato gesto della mano destra col medio e il pollice congiunti (dobbiamo immaginare la Madonna del Carmine mentre regge lo scapolare, così come lo stesso gesto, nella Madonna del Rosario, è funzionale a esibire al fedele il rosario). Non manca poi una curiosità come il manichino della Madonna del Carmine della basilica di San Maurizio a Imperia: la Madonna doveva essere abbigliata con abiti veri. Motivi che torneranno, seppur con maggior sobrietà, nelle opere degli eredi, con le quali termina la rassegna di Palazzo Reale: tra le altre, la Madonna del Rosario d’Agostino Storace (Genova, secondo decennio del XVIII secolo - dopo il 1793) che ripropone schemi maraglianeschi seppur più compassati, e addirittura l’omologa opera di Giovanni Maragliano (Genova, 1710 circa - 1777) che, coi suoi panneggi disposti quasi geometricamente, vira verso l’astrazione formale.
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Anton Maria Maragliano, Sant’Antonio abate contempla la morte di san Paolo eremita (1709-1710; legno scolpito, dipinto e dorato, occhi in pasta vitrea, 360 x 195 x 359 cm; Mele, oratorio di Sant’Antonio Abate)
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Anton Maria Maragliano, Annunciazione (1722; legno scolpito, dipinto e dorato, occhi in pasta vitrea, 190 x 162 x 145 cm; Savona, oratorio di San Domenico e della Santissima Annunziata)
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Anton Maria Maragliano e bottega, Martirio di santa Caterina (1735-1736; legno scolpito, dipinto e dorato, occhi in pasta vitrea, 235 x 157 x 270 cm; Sestri Levante, San Pietro in Vincoli)
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Anton Maria Maragliano, Deposizione (1720-1725 circa; legno scolpito e dipinto, occhi in pasta vitrea, 200 x 290 x 140 cm; Genova, Nostra Signora della Visitazione)
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Anton Maria Maragliano, Pietà (1710-1715 circa; legno scolpito e dipinto, occhi in pasta vitrea, 160 x 220 x 144 cm; Genova, San Filippo Neri)
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Alcune delle Madonne di Anton Maria Maragliano in mostra (a destra, la Madonna di Celle Ligure)
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Alessandro Algardi, Madonna col Bambino (bronzo fuso a cera persa, 48,5 x 26 x 15,5 cm; Urbino, Galleria Nazionale delle Marche)
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Anton Maria Maragliano, Madonna del Carmine (1725 circa; legno scolpito e dipinto a simulare il marmo, 130 x 85 x 65 cm; Castellazzo Bormida, San Carlo)
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Anton Maria Maragliano, Madonna del Carmine (1700-1715 circa; legno scolpito e dipinto, occhi in pasta vitrea, 168 x 50 x 50 cm; Imperia, Basilica di San Maurizio)
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A sinistra, Agostino Storace, Madonna del Rosario (dopo il 1743; legno scolpito e dipinto, occhi in pasta vitrea, 140 x 70 x 60 cm; Garbagna, San Giovanni Battista). A destra, Giovanni Maragliano, Madonna del Rosario (prima del 1750; legno scolpito e dipinto, 138 x 77 x 60 cm; Neirone, San Maurizio)
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Non c’è dubbio che la rassegna di Palazzo Reale possa essere inclusa nel novero delle mostre di spicco di quest’anno, e non solo: frutto che prosegue, e in certa misura corona, un impegno pluriennale di Daniele Sanguineti (che su Maragliano aveva già cominciato a lavorare negli anni Novanta, pubblicando peraltro una corposa monografia sullo scultore nel 1998: una base importante per leggere l’attuale mostra, che giunge dunque a vent’anni esatti di distanza), l’esposizione riesce a cogliere diversi risultati di considerevole rilevanza. Primo tra tutti, l’aver sottolineato l’importanza della figura di Maragliano: è pur vero che già la succitata monografia del 1998, come suggerisce Leoncini, aveva restituito all’artista un’autonomia in grado di riconoscere il suo genio e di elevarlo tra i grandi del tardo barocco, ma mancava ancora all’appello una mostra importante, che riunisse gran parte dei suoi lavori principali in un percorso tale da coniugare felicemente spessore filologico e vocazione alla divulgazione. Ancora, merito della mostra è quello di ricostruire la fitta trama della scultura lignea genovese tra Sei e Settecento con estrema dovizia: il pregio sta nel non aver presentato Maragliano come un talento isolato, ma come germinazione più preziosa d’un ambiente fecondo e desto. L’estensione del discorso al più ampio argomento della scultura lignea del periodo ha consentito di sviluppare approfondite riflessioni che coinvolgono aspetti storici, religiosi, culturali e sociali oltre che artistici, e che talvolta hanno condotto a conclusioni inedite: sarà opportuna una rapida menzione, in tal senso, alla sezione (della quale s’è taciuto sopra) del Maragliano privato, nell’ambito della quale è stata peraltro formulata una proposta attributiva per un gruppo di statuette di fine Settecento, assegnate a Pasquale Navone (Genova, 1746 - 1791), che fu tra i maggiori scultori in legno liguri della fine del secolo XVIII. Si tratta, in sostanza, d’una mostra di cui ci si ricorderà ancora a lungo: allestita sulla base di ricerche recenti (le opere che la compongono sono state pubblicate per la più parte negli ultimi dieci anni), non solo apporta un contributo sostanziale alle conoscenze su Maragliano, ma si configura come un nuovo, importante capitolo della riscoperta della scultura in legno.
Una mostra, peraltro, ben accompagnata da un corposo catalogo che rappresenta un indispensabile strumento di studio e d’approfondimento per chi voglia avvicinarsi all’arte di Maragliano o trovare i riscontri più aggiornati sulla sua produzione. C’è infine da porre l’accento anche sul fatto che il grande pubblico non può che rimanere al contempo affascinato e colpito dalle straordinarie macchine maraglianesche, anche in virtù del fatto che gli allestimenti sono stati ideati per esaltare il grande spettacolo del teatro di Maragliano, con i locali del Teatro del Falcone sfruttati per creare un percorso che riserva sorprese sala dopo sala e riesce dunque nell’intento di suggerire al visitatore quale doveva essere l’effetto che le sculture di Maragliano sortivano nel riguardante del Sei-Settecento. Un compito tutt’altro che semplice, ma svolto in maniera egregia, così che il pubblico possa immaginarsi, senza troppe difficoltà, le opere nel loro contesto.
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L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).