Sulle critiche a “Time is out of joint”. Intervista a Cristiana Collu


Intervista a Cristiana Collu, direttrice della Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea di Roma, sulle critiche attorno a 'Time is out of joint'.

Vi proponiamo oggi, come primo articolo del 2017, una lunga intervista a Cristiana Collu, direttrice della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, sulle critiche ricevute dal progetto Time is out of joint, il “nuovo allestimento in forma di mostra” della Galleria. L’intervista segue quella fatta al professor Claudio Gamba nel mese di novembre (nota: la presente intervista è stata condotta a più riprese nell’arco di due mesi).

Time is out of joint
Una delle sale della Galleria rivisitate per “Time is out of joint”

Dottoressa Collu, nei riguardi del “nuovo allestimento in forma di mostra”, che durerà sino ad aprile 2018, viene mossa la critica secondo la quale la Galleria, così riallestita, somiglierebbe proprio a una di quelle mostre che mirano a far facile presa sul pubblico giocando sulle “emozioni” e lasciando un po’ in disparte il ruolo educativo del museo, e non a una galleria che ha una storia lunga, precisa, ben delineata. Partendo dal presupposto che il passato può comunque essere riletto e reinterpretato, è vero che la storia della Galleria Nazionale d’Arte Moderna è stata di fatto messa da parte in favore di quella che è vista un po’ come la concretizzazione del sogno futurista di distruggere i musei?
La sua domanda fa eco ad alcune critiche (liquidatorie e spesso poco motivate) che sono state rivolte a Time is out of joint, soprattutto in una parte di certo ambiente universitario, probabilmente sulla scia della polemica succeduta alle dimissioni di due membri del comitato scientifico della Galleria. Detto questo, non penso affatto che attivare delle “emozioni” sia qualcosa che eroda o svilisca il ruolo educativo del museo, al contrario, ritengo che le emozioni possono trasformarsi in un input capace di stimolare lo spettatore ad una ricerca personale. Il museo non può essere pensato come una istituzione che si rivolga unicamente ad uno spettatore ideale (una sorta di potenziale storico dell’arte), ma come un luogo che deve saper parlare a diverse tipologie di pubblico, deve saper offrire una chance anche ad uno spettatore generico, anche a coloro che visitano il museo come semplici “turisti”, dunque, offrire la possibilità di un incontro con l’opera, anche senza necessariamente predeterminare ciò che il visitatore dovrà vedere, come dovrà interpretarlo, ciò che dovrà pensarne. Lo specialista o lo studente universitario (spettatori naturali ma non esclusivi) non sono affatto “disarmati”, hanno, o dovrebbero avere, la preparazione per comprendere ciò che è esposto e la capacità di distaccarsi da interpretazioni che ritengono discutibili. Lo stesso vale per gli insegnanti delle superiori sicuramente capaci, all’occorrenza, di ricomporre il nucleo di opere di un artista che appare in sale differenti.
Ma, per tornare alla sua domanda, che significa “la storia della galleria è stata messa da parte”? Questo nuovo allestimento non fa anch’esso parte della sua storia? Mancano forse gli inaggirabili capolavori della collezione? Mi pare che, da Canova a Modigliani, da Mondrian a Pascali, da Lega a Twombly, da Pellizza a Kounellis, da Cézanne a Van Gogh, da De Chirico a Pollock, da Fattori a Burri, da Morandi a Fontana (per citare solo alcuni nomi), le opere siano tutte esposte e perfettamente visibili nelle sale. Anzi, l’abbattimento di alcune superfetazioni estranee al progetto del Bazzani e il ripristino della spazialità e della luminosità originaria dell’edificio, permette una migliore fruizione sia delle opere che dello spazio. Conseguentemente a queste operazioni, unanimemente apprezzate, alcune opere sono state, temporaneamente, riposte nei depositi, così come ne sono uscite, forse per la prima volta, altre straordinarie che non erano mai state esposte o non lo erano più da tempo. I depositi così come la possibilità dell’avvicendamento delle opere fanno la ricchezza di un museo. Difficilmente una collezione è esposta nella sua totalità, non lo è in questo allestimento come e non lo era nei precedenti.
Proprio a partire dal fatto (io credo indubitabile e incontestabile) che il passato non debba essere imbalsamato, ma possa (e anzi debba) essere riletto e reinterpretato, rivendico la legittimità del nuovo allestimento, come una stimolante lettura e reinterpretazione odierna della storia della Galleria e delle sue collezioni, lontana anni luce da ciò che lei definisce “il sogno futurista di distruggere i musei”. Chi visita la Galleria scevro da pre-giudizi non ha affatto la sensazione di aver assistito ad una “distruzione” del museo e sono molte, moltissime, direi la stragrande maggioranza, le persone che ci ringraziano per il nuovo sguardo sulla collezione offerto da Time.

Nel comunicato, Lei parla di “eterodossia” e “disobbedienza”. Di fronte a questa affermazione, i più critici nei riguardi di Time is out of joint potrebbero domandarsi se non siamo piuttosto di fronte al più classico “conformismo dell’anticonformismo”, dato che l’azione del governo da una parte e di molti importanti soggetti privati dall’altra pare stia imboccando proprio la strada del distacco dalla tradizione (o quanto meno dall’ortodossia accademica). Con questo non voglio certo dire, come si legge in questi giorni sui social, che dietro a Time is out of joint ci sia l’ombra degli indirizzi governativi: chiarisco fin da subito che non condivido questa visione. Mi domando piuttosto se sia davvero possibile parlare di “disobbedienza”, dato che i membri di quel mondo a cui il “nuovo allestimento in forma di mostra” disobbedisce ormai si considerano una minoranza, o comunque ritengono che la loro visione della storia dell’arte debba spesso soccombere…
Mi sfugge il senso della sua domanda non so a quali “maggioranze” o “minoranze” alluda. Le scelte dell’allestimento non rispondono ad alcun “mandato”, tant’è che sono state criticate per ragioni diametralmente opposte, e persino per essere troppo belle. Mi sembra più interessante segnalare il tono autoritario e scandalizzato di alcune prese di posizione tese a delegittimare ogni narrazione della storia dell’arte che si discosti da quella lineare e progressiva di una visione storicistica e “scolastica”, assunta per di più, acriticamente, come naturale e, soprattutto, come l’unica adeguata a garantire la capacità formativa di un allestimento museale. Io credo che ogni opera d’arte viva e tragga linfa dal periodo storico in cui nasce ma anche (Aby Warburg docet) da suggestioni che affondano nella storia delle immagini e da azzardi e che scaturiscono da una intuitiva o teorizzata apertura sul futuro. Se un’opera fosse legata interamente e assolutamente al proprio tempo, se non avesse possibilità di sottrarsi in maniera sempre diversa alla sua influenza si trasformerebbe in semplice documento. La storia dell’arte ha il compito di contestualizzare un’opera ma non ha presa sui sensi ulteriori (suggestioni ed evocazioni) che sprigionano da essa. Innumerevoli ed autorevoli voci hanno del resto insistito sull’irriducibile carattere plurale dell’opera d’arte, sulla sua ambiguità, e reclamato il diritto di rifarne senza tregua la storia. Penso che ogni opera d’arte sia irriducibile alla contingenza e che sia proprio questa peculiarità a definirla. “L’opera - sottolineava Roland Barthes - non è circondata, designata, protetta, guidata da nessuna situazione, non c’è nessuna vita pratica a indicarci il senso che dobbiamo darle” e ancora “qualunque cosa pensino o decretino le società, l’opera le oltrepassa, le attraversa, allo stesso modo di una forma che certi sensi più o meno contingenti, storici, vengono di volta in volta a riempire: un’opera è eterna non perché impone un senso unico a uomini diversi ma perché suggerisce sensi diversi ad un uomo unico, che parla sempre la stessa lingua simbolica attraverso una pluralità di tempi”.
L’operazione messa in atto dai pochi detrattori di Time, riposa su due strategie: la prima tende a trasformare questa “mostra”, che si protrarrà fino ad aprile 2018, come l’allestimento definitivo della collezione, nonostante le date di inizio e termine siano state da subito esplicitate, sia insinuando l’idea che l’operazione si avvalga di una strategia basata su ingiustificati accostamenti ad “effetto”, orientati a suscitare preventivamente scandalo con l’intento di aumentare l’afflusso di visitatori. Quest’ultima è la tesi che, com’era prevedibile, ha trovato maggior eco sulla stampa, anche perché mossa da docenti della disciplina. Si tratta però di una critica che, palesemente, non tiene conto dei criteri minimi dell’esposizione: risulta infatti sin troppo facile presupporre (ma il termine più esatto sarebbe inventare) rapporti biunivoci e accostamenti inesistenti tra opere e liquidarli poi come improponibili o diseducativi. Paradossale risulta invece che paladini della contestualizzazione prelevino e, appunto “decontestualizzino” dalle sale solo alcune opere, riducendo così arbitrariamente una costellazione di relazioni plurali ad un pretestuoso rapporto di corrispondenze o filiazioni biunivoche tra artisti decisamente lontani. Ancora, l’allestimento non mira infatti ad instaurare alcun rapporto diretto fra opera ed opera e men che meno tra artista e artista. Per esempio, il senso delle sculture neoclassiche disseminate in molte sale, funziona infatti come una sorta di metro o paradigma atto a misurare la differenza che di volta in volta si instaura fra la bellezza delle opere proposte nelle sale e quella derivante da un’ideale classico. Decisamente opinabili anche le riserve che scaturiscono per altri accostamenti che a volte inducono a denominare “carogne” le opere di uno dei maggiori artisti fiamminghi contemporanei: Berlinde De Bruyckere, giudicando scandaloso lo spazio concesso all’artista e soprattutto l’accostamento fra le sue opere e quelle di Burri, non rendendosi conto che questa posizione finisce per riecheggiare quella di coloro che gridavano scandalizzati all’apparire delle prime opere del grande artista italiano, giudicate analogamente indegne di essere accolte in un museo. Più in generale riteniamo che, spesso, i commenti critici siano viziati e resi inutilizzabili da interpretazioni che (come nel citato esempio delle sculture neoclassiche) derivano da un’ingiustificata estrapolazione di singole opere dal contesto della sala in cui sono esposte, interpretazioni che tendono così volutamente a schematizzare rapporti inesistenti fra artisti inavvicinabili al di fuori dalla trama di rapporti tessuta dalla mostra. Ci limiteremo qui ad alcuni esempi paradigmatici, a partire dalla sala inaugurale, che funge da prologo all’intera esposizione. Anche in questo caso (ignorando la totalità delle opere in dialogo) i commenti si indirizzano ad instaurare singolari rapporti biunivoci tra Pascali e Canova o Penone e Canova, isolandoli artificialmente dal contesto, rarefatto, e quindi difficilmente ignorabile, in cui sono immessi: lamentando poi, di volta in volta, la presunta impossibilità di vedere l’opera di Penone nella sua integrità, adducendo a prova di questa opinione, le foto arditamente in scorcio con cui l’opera è stata ripresa dalla stampa (come se lo sguardo umano soffrisse delle stesse restrizioni di quello fotografico) e infine deducendo da ciò il fatto che l’opera sia ridotta a divenire una mera scenografia per l’Ercole.
Analoga sorte è riservata al “mare” di Pascali ricondotto a mera superficie riflettente della scultura di Canova. Si paventano infine riserve per un accostamento che altri potrebbero giudicare sin troppo scolastico tra Mondrian e Castellani. Io credo invece, e insieme a me chi ha curato questo allestimento, in particolare Saretto Cincinelli, che la sala in questione presenti alcuni degli accostamenti più sorprendenti ma anche più giudiziosi dell’intera mostra. Suggerendo una visione ravvicinata dell’opera di Penone l’allestimento permette infatti di constatarne, da subito, la materialità e la fattura (eluse in una fruizione più arretrata), e favorisca l’instaurarsi di quella dimensione immersiva e tattile reclamata dallo stesso grande formato dell’opera. Si tratta di una prospettiva che permette, inoltre, una adeguata visione anche del retro della scultura di Canova. Non rileviamo invece, come già sottolineato, alcun problema nell’accostamento Mondrian - Castellani (due alti esempi di rigore e di “riduzione” della pittura verso i propri confini). In breve chi contesta non guarda la sala nella sua integrità: non tiene conto del fatto che mentre Pascali fa da specchio e in qualche modo duplica e “depotenzia” la monumentalità dell’Ercole di Canova dialoga contemporaneamente con le griglie di Mondrian e cromaticamente le altre opere e, infine, del fatto che l’allestimento in questione favorisce l’instaurarsi di un inedito rapporto-a-distanza tra la classicità di Canova e quella, per così dire, decostruita di Twombly. A ben vedere, inoltre, l‘ironica allusione alla pelle, sia in Canova che in Penone, trova una eco concettuale nelle tensioni puntuali che caratterizzano la superficie pittorica di Castellani.

Il museo, per aprirsi al pubblico, ha davvero necessità di far leva sulla poetica del “corto circuito” innescato dalle relazioni simultanee? La trasformazione del museo in quello che viene visto da molti come una sorta di grande prodotto mediatico (termine che non uso a caso: sempre sui social ho letto iperbolici paragoni tra Time is out of joint e le trasmissioni di Maria De Filippi, sicuramente semplicistici e anche un po’ berciati ma, dato che provengono da addetti ai lavori, ritengo contribuiscano a fare il punto della situazione) non reca con sé il rischio di sottovalutare il pubblico e, al tempo stesso, di favorire quel concetto di cultura come divertissement che purtroppo sta prendendo sempre più piede e che molti cercano di ostacolare? Com’è possibile rispondere, secondo Lei, alle critiche di chi pensa che un’operazione come Time is out of joint incentivi il disimpegno?
“Addetti ai lavori” cosa significa? Di fronte ad affermazioni come queste rimango allibita, significa forse che io, e lo staff della Galleria, nel caso specifico gli storici dell’arte e il curatore invitato, Saretto Cincinelli, siamo, per così dire, infiltrati, clandestini, non autorizzati, non siamo anche noi “addetti ai lavori” come e più degli altri?. Le confesso che il modo subdolo e allusivo, basato sulle denegazioni che caratterizzano le sue domande mi lascia molto perplessa (in questo caso “gli iperbolici paragoni con le trasmissioni di Maria De Filippi” e prima la non troppo velata allusione “agli indirizzi governativi” che dichiara “di non condividere” ma che nonostante tutto riporta). Mi sembra che le sue domande più che a ricevere risposte o chiarimenti siano per così dire “interessate”, indirizzate a gettare ombre o a fomentare sospetti sulla adeguatezza o competenza dell’attuale direzione e in generale delle persone che lavorano con me.
Quanto al rischio di sottovalutare il pubblico mi sembra che ciò sia quanto mai lontano dalle mie posizioni, ancora una volta infatti le critiche si mostrano contraddittorie: da una parte mi vengono rivolte accuse di elitarismo e di accostamenti troppo sofisticati che si suppone sfuggano al grande pubblico e dall’altra di favorire un concetto di cultura come divertissement, mentre io, diversamente da lei, ritengo che il pubblico abbia il diritto di accostarsi ad un’opera anche uscendo dagli schemi pedagogici preconfezionati della vulgata scolastica, che possa e debba avere la possibilità di negoziare una propria via per accostarsi ad un’opera.

Immagino che uno degli obiettivi del nuovo allestimento sia quello di coinvolgere maggiormente il pubblico (anche perché altrimenti cadrebbe buona parte dell’impianto su cui si fondano le critiche). Tuttavia qualcuno potrebbe pensare che le “relazioni simultanee” di Time is out of joint, che secondo molti si apprezzano solo se un visitatore conosce l’opera di un artista e anche la sua vicenda biografica (pensiamo per esempio a Burri), in realtà stabiliscano un confine netto tra pubblico e addetti ai lavori, o quanto meno tra pubblico poco esperto e pubblico più esperto. Insomma, si rischia una specie di snobismo di ritorno, o si tratta di un pericolo destituito di qualsiasi fondamento? Come rispondere a questo tipo di critiche?
Mi pare di aver già risposto alla prima parte della sua domanda, credo, infatti che uno dei compiti del museo sia quello di coinvolgere maggiormente il pubblico generico o generalista, non solo per una questione di numeri o, “messa a reddito” del patrimonio culturale, ma anche perché una istituzione chiusa, è un’istituzione autoreferenziale e tendenzialmente morta, che rinuncia a priori alla sua missione, che non è, non può essere unicamente quella, l’ho già detto e lo ripeto, di fare da sussidiario agli studenti di storia dell’arte. Con buona pace di chi la pensa diversamente, Time non si è mai proposta il radicale sovvertimento della Galleria con la finalità di ottenere una grande visibilità mediatica, non si è mai posta il fine di rottamare alcunché, né di inseguire i gusti di certo pubblico televisivo, né infine di presentare il museo come una specie di location dove farsi selfie da condividere sui social network ma, più semplicemente di proporre una diversa e più ariosa, meno ingessata interpretazione delle opere della collezione. Una interpretazione che non vede l’allestimento delle opere nelle sale secondo la rigida logica di un defilé cronologico
Quanto allo “snobismo di ritorno”, con Jacques Rancière io penso che l’emancipazione dello spettatore cominci “quando comprendiamo che guardare è anche un’azione”. Lo spettatore non subisce supinamente quello che gli si presenta, “anche lo spettatore agisce, […] osserva, sceglie, paragona, interpreta. Collega ciò che vede a molte altre cose che ha visto in altre scene, in altri luoghi”. Questa posizione mi pare che sia molto lontana da una visione paternalistica o da una sottovalutazione del ruolo del pubblico.

La critica più frequente è quella che viene mossa allo smantellamento del percorso in ordine cronologico, ma Lei del resto non ha mai fatto mistero della sua visione del museo lontana da quella che lo vorrebbe simile a un manuale di storia dell’arte. Dunque, Time is out of joint instaura un certo tipo di rapporto col pubblico. Ma un allestimento che dia conto di un unico punto di vista, o che comunque mette fuori gioco un punto di vista importante, quello della storia dell’arte come ricostruzione di rapporti filologici tra le opere, non rischia secondo Lei di reprimere quella trasversalità che sulla carta dovrebbe caratterizzare l’approccio nei confronti del pubblico da parte di un museo moderno?
Mi verrebbe voglia di chiederle quale secondo lei sarebbe l’unico punto di vista che sostiene Time, ma mi limito a evidenziarle che non esiste un criterio unico nell’allestimento delle sale di Time. Se il ricordato salone Canova e quello della guerra o la sala dei migranti o l’ultima sala dove sono esposte le opere di Morandi, Fontana, Buren, Pollock, Duchamp e Pistoletto sono in parte giocate sull’anacronismo, molte altre invece, seguono un più tradizionale allestimento di tipo storico, anche se non strettamente cronologico. Non starò qui a discutere se l’icastico accostamento e la diversità linguistica fra opere lontane (sia storicamente che per concezione e realizzazione) e che dunque mira a far risaltare le reciproche differenze, non possa risultare anche didatticamente più efficace alla comprensione di un’opera che non l’avvicinamento di opere coeve, che impiegano un linguaggio simile, mi limito anche qui a sottolineare che, a saper ben guardare, la mostra adotta nell’allestimento un criterio plurale: se alcune sale mostrano un esplicito scardinamento temporale è altrettanto vero che molte altre si limitano a rispettare una dimensione tendenzialmente storica. Infine, tutte le sale del piano elevato (circa metà dello spazio della mostra) registrano, persino con un certo puntiglio, la cronologia e la temperie storica che, probabilmente, non si sottomette così docilmente alla vulgata scolastica che ci induce a pensare, per esempio, che il ready-made di Duchamp sia il prodotto di un periodo molto lontano da quello in cui Monet dipingeva le sue ultime ninfee e che, nonostante le apparenze formali, le tre età di Klimt risultano posteriori e non di poco agli esperimenti di cronofotografia di Marey. E ciò a dispetto dei manuali di storia dell’arte che fra l’uno e l’altro fanno intercorrere decine di pagine. O infine che è quello stesso periodo in cui si diffonde a Parigi la vague del primitivismo e l’amore per la scultura africana o oceanica. A volte seguire rigorosamente la cronologia scardina la sistemazione manualistica almeno quanto il volersene liberare. E poi, appunto, dove sta scritto che un museo debba pedissequamente funzionare come un manuale di storia dell’arte?


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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